mercoledì 13 marzo 2013

Napoli, cartoline sopra la cenere


ERRI DE LUCA

"La Repubblica",  10 marzo 2013 

Si vuole che Napoli sia sud, secondo una suddivisione del mondo che prevede più sud che nord. Non sono uguali tra loro i punti cardinali applicati in terra, anche di est ce n’è di più. Scavalcando l’equatore il sud si annette l’Africa, risale il mare, assorbe Sicilia, Puglia, Calabria e sbarca fino alle porte di Roma, dove stabilì i suoi confini la Cassa del Mezzogiorno. Ma anziché a un meridione d’Italia, Napoli appartiene al centro del Mediterraneo. Sta nel suo ombelico vulcanico, è sismica, tufacea, friabile, flegrea. Sotto la sua crosta, brulicante della più alta densità umana di Europa, si estendono cavità gigantesche, opera di estrazione del suo materiale di costruzione, fin dal tempo dei Greci. La città è così distesa sulle camere d’aria di un immenso alveare.
Come Venezia è fondata sull’acqua, Napoli è fondata sul vuoto. Spesso affiora in superficie, il vuoto, in forma di voragini spalancate all’improvviso. Sotto la pianta del piede la città è una botola pronta a scattare. Perciò Napoli è doppia, gremita sopra e sgombera di sotto. Questo spiega il sistema nervoso dei suoi cittadini, deciso dalla geologia. Sotto la maschera c’è il labirinto.
I lavori di scavo della metropolitana si inoltrano nelle viscere aggrovigliate della storia incontrando stagni marini, cisterne, piscine, budelli, gallerie. Non sanno di violare organi interni di un organismo vivente né hanno lo scrupolo e la premura dell’archeologia. Affondano trivelle e scombinano assetti sopra i quali si è appoggiata la città.
In un film western degli anni Settanta un villaggio di minatori collassa perché scavato sotto dai cunicoli dei cercatori d’oro. Non succederà così alla città allenata da millenni di cedimenti. Per via di erosioni, scavi, scossoni, eruzioni Napoli rivela la sua costante fragilità tellurica, soggetta più che altrove agli sgambetti della legge di gravità.
Dai suoi tetti sono state spalate ceneri di Vesuvio in fiamme, perciò a buon titolo il santo protettore del luogo è specialista in vulcanologia. La sua statua portata in spalla contro il fronte lavico, fornì prove da domatore. Gennaro è un santo da trincea. Stabilito questo assetto, ecco in pochi giorni due notizie opposte che confermano la precarietà del luogo: il crollo di un’ala di palazzo sull’elegante Riviera di Chiaia e l’incendio di un edificio nuovo nell’area di espansione della città futura. Il solenne titolo di Città della scienza poco si addice al titolo di un edificio e di un luogo che ha seminato i suoi migliori scienziati nei laboratori del mondo. Città della scienza fuiuta, fuggita, sarebbe titolo più completo a definire. È stato bruciato questo Centro e se la cava a stento anche la città della Filosofia, rappresentata dal nobile istituto di Montedidio.
Dolosi entrambi i danni, non c’entra stavolta qualche forza schiacciante di natura, interviene invece la concreta manomissione, più o meno volontaria. Essa fa parte di un accertato istinto di autolesionismo locale. Nessuno, delle dozzine di eserciti stranieri, accampati poco e molto dentro Napoli nel corso dei millenni, l’ha danneggiata quanto l’arrembaggio edilizio, denunziato dal film Le mani sulla città e proseguito con le Vele di Secondigliano. Quelle sì andrebbero schiantate, lasciandone una sola a esempio d’infamia urbanistica, da studiare in una nuova branca dedicata all’architettura criminale. Andrebbero schiantate come sono state abbattute con esplosivo le torri della siderurgia a oriente della città, crolli benefici. Nessuno maledice Napoli più del suo cittadino che la sporca con esibizione di strafottenza pubblica.
Napoli si dissangua da sola della sua bellezza. Ma esistono fiori di campo che, distrattamente calpestati, tornano a rimettersi in piedi, perché spinti dalle radici da una forza di bellezza. Quella di Napoli riaffiora altrettanto ostinata. Ecco a singolo esempio l’enorme complesso di San Domenico Maggiore, oggi restituito alla città, a dimostrazione di uno spirito di contraddizione dello spreco, dell’oltraggio dell’incuria. Napoli si regge su una energia di bellezza inesaurita.
«Me fa paura ‘e ce turnà» dice una strofa di Munasterio ‘e Santa Chiara.
Invece che paura, a me sgomenta la richiesta di scriverne in seguito a qualche fatto di cronaca, che aggiunge il suo granello di denigrazione sul piatto della bilancia. E mi viene voglia costante di aggiungere qualcosa a contrappeso sopra l’altro piatto. Anche stavolta lo spirito è lo stesso. Napoli è luogo che ne ha passate così tante, eppure è ancora là, invincibile a scuotersi di dosso la polvere, la cenere, l’insulto, raddrizzando la sua corolla di fiore di campo.

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