Noam Chomsky
"Il Fatto", 29 marzo 2013
Da “Sistemi di potere” (Ponte alle Grazie editore),
raccolta di interviste rilasciate da Noam Chomsky
al giornalista americano David Barsamian.
Bob Marley, il famoso cantante reggae giamaicano, cantava un celebre verso: “Emancipati dalla schiavitù mentale”. È un tema, questo, che ritorna spesso nelle sue opere.
Sì, è vero. Quando gli individui hanno cominciato a reclamare maggiore libertà per non essere asserviti o uccisi o repressi, si sono sviluppate spontaneamente nuove modalità di controllo per imporre una forma di schiavitù mentale che le inducesse ad accettare un sistema di indottrinamento senza fare domande. Se si possono ingabbiare gli individui in modo che non si accorgano delle dottrine fondamentali né tantomeno le mettano in discussione, allora essi sono asserviti. Non fanno che eseguire gli ordini, come se avessero una pistola puntata alla tempia.
In alcuni dei suoi seminari, a chi le chiede come reagire ai problemi che tratta, lei ribatte che si deve cominciare con lo spegnere il televisore.
La televisione inculca schemi di pensiero rigidi, che senz’altro ottundono le menti. Le dottrine non vengono formulate in maniera esplicita. Non è come la Chiesa cattolica: “Devi credere in questo. Devi leggere questo ogni giorno, devi ripetere questo ogni giorno”. È solo insinuato. Si insinua un sistema, e alla fine le persone lo fanno proprio. Un valido sistema di propaganda non esplicita i propri principi o le proprie intenzioni. È una delle cause dell’inefficacia del vecchio regime sovietico, per quanto ne sappiamo. Se si dice alle persone: “Dovete pensare così”, allora capiscono che è quello che il potere vuole che pensino, quindi escogitano un modo per sottrarsi a tale costrizione. È più difficile liberarsi da un sistema di presupposti non dichiarati che non da una dottrina esplicitamente enunciata. È così che funziona una buona propaganda. Il nostro apparato propagandistico è molto sofisticato. I fautori di questo sistema danno l’impressione di sapere perfettamente cosa fanno. Prendiamo le presidenziali americane del 2008 che, al pari di tutte le elezioni, non sono state altro che un grande evento di pubbliche relazioni. L’industria pubblicitaria aveva ben chiaro il proprio ruolo. Tanto è vero che, poco dopo le elezioni, la rivista Advertising Age ha assegnato l’annuale riconoscimento per la migliore campagna marketing alla campagna elettorale di Obama, organizzata appunto dall’industria delle pubbliche relazioni. Anzi, si è aperto un dibattito sulla stampa economica per questo riconoscimento. C’era euforia negli ambienti economici. Questo evento cambierà lo stile della comunicazione dei board aziendali. Sappiamo ingannare le persone meglio che in passato. Evidentemente nessuno credeva davvero che il vincitore fosse stato scelto per le sue politiche o i suoi propositi: era semplicemente una buona campagna marketing, meglio di McCain.
Mi chiedo quale sarà il futuro dei libri in una cultura dominata dall’immagine. E lo chiedo a lei, che è un lettore vorace. Le sue abitudini in questo senso sono leggendarie. Siamo seduti nel suo ufficio, circondati da pile di libri. Come riesce a finirli tutti?
Non ci riesco, purtroppo. Questa è la pila dei libri urgenti. Ce ne sono molti altri accatastati altrove. Una delle esperienze più dolorose che cerco di evitare, nei limiti del possibile, è calcolare quanto tempo ci vorrebbe per finirli tutti, se leggessi con costanza. Leggere un libro non significa solo sfogliare le pagine. Significa riflettere, individuare le parti su cui tornare, interrogarsi su come inserirle in un contesto più ampio, sviluppare le idee. Non serve a niente leggere un libro se ci si limita a far scorrere le parole davanti agli occhi dimenticandosene dopo dieci minuti. Leggere un libro è un esercizio intellettuale, che stimola il pensiero, le domande, l’immaginazione. Temo che tutto ciò scomparirà. Se ne vedono già le avvisaglie. Negli ultimi dieci-vent’anni qualcosa è cambiato nei miei corsi: un tempo, quando facevo dei riferimenti letterari, gli studenti sapevano più o meno di cosa stavo parlando, ma ora questo accade sempre più raramente. Me ne accorgo dalle lettere in cui mi pongono di continuo domande su quello che vedono su YouTube e mai su un libro o un articolo. Spessissimo capita che giustamente mi chiedano: “Lei sostiene questo, ma su quali prove si fonda? ”. E magari in un articolo scritto nella stessa settimana in cui ho tenuto quella conferenza c’erano note e analisi, ma a loro non è neanche venuto in mente di cercarle.
Cosa pensa di Twitter, in cui si hanno 140 caratteri a disposizione per dire qualcosa?
Ricevo una tonnellata di email, e sempre più spesso i messaggi sono domande o commenti di una frase, a volte così brevi che stanno nell’oggetto della mail. Bev mi ha fatto notare che è appunto la lunghezza dei messaggi di Twitter. Se si analizzano questi messaggi si nota una certa coerenza: danno l’impressione di qualcosa che è stato appena pensato. Magari cammini per la strada, ti viene in mente un pensiero e lo twitti. Ma se ti fermassi a pensarci per due minuti, o facessi un minimo sforzo per riflettere sull’argomento, non lo invieresti. A dire il vero, sono arrivato al punto che a volte mando una lettera solo per dire che non sono in grado di rispondere a una domanda di una sola riga.
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