Dati degli allievi di tutto mondo per cambiare i modelli didattici
Serena Danna
"Corriere della Sera - La Lettura", 3 marzo 2013
Aprite le orecchie: l’Italia è un Paese competitivo nel campo dell’educazione digitale. Ad affermarlo non è un «furbetto delle start-up» dell’ultima ora, ma l’istituzione inglese numero uno al mondo per l’apprendimento online: la Pearson. La buona notizia è stata confermata durante la presentazione del bilancio 2012 del gruppo, quando — mentre l’amministratore delegato John Fallon smentiva la notizia della vendita del «Financial Times», quotidiano finanziario di proprietà del gruppo — sono stati presentati dati che dimostrerebbero una via italiana alla rivoluzione digitale delle scuole. Raggiungiamo Fallon alla fine della conferenza stampa londinese: l’azienda ha annunciato un taglio dei costi di 250 milioni di euro (che coinvolgerà anche posti di lavoro) da reinvestire nel digitale. I primi cinque minuti di conversazione sono dedicati alle elezioni politiche italiane: come tutti gli investitori stranieri, anche Fallon, 50 anni, neoamministratore delegato del gruppo da 7 miliardi di euro, vuole essere rassicurato.
In Italia la scuola pubblica versa in una condizione di sofferenza perenne per mancanza di fondi, investimenti e strutture adeguate. Davvero possiamo sperare in una transizione digitale?
«Al momento abbiamo seimila studenti registrati a MyEnglishLab, una piattaforma integrata con i manuali di testo che permette di monitorare l’attività dello studente e di verificarne l’apprendimento. È solo l’inizio: abbiamo stretto accordi con il ministero dell’Istruzione per lavorare con le scuole pubbliche italiane e fornire strumenti, formazione degli insegnanti, didattica».
Il sistema nordamericano è il più avanzato e redditizio nell’e-learning, ma le sperimentazioni coinvolgono soprattutto istituzioni private. Stesso discorso per il Sud Africa dove Pearson controlla la più importante rete di università private del Paese. Non crede che in Europa, da sempre attenta alla pubblicità dell’istruzione, sia più difficile sperimentare?
«Ci vuole più tempo ma ce la faremo. C’è un tema di equità sociale legato all’istruzione in Europa che a volte rischia di rallentare il processo di innovazione ma credo che si risolverà presto in una maniera molto più semplice di quello che pensiamo».
Cioè?
«La diffusione di smartphone e tablet sta per superare quella dei pc. Significa che tra poco non sarà la scuola a dover fornire agli studenti gli strumenti per studiare, tutti li avranno già. Si tratterà di renderli adatti all’e-learning».
Anche se fosse così, non basta certo dare l’iPhone agli studenti per digitalizzare la scuola…
«Assolutamente no. I tool sono necessari ma sono solo un elemento della trasformazione che coinvolge studenti, spazi da abbattere, insegnanti da formare, nuovi parametri di valutazione delle competenze (quello globale proposto da Pearson è l’«Indice globale sulle capacità conoscitive e il raggiungimento del livello d’istruzione», ndr). È l’idea stessa di scuola intesa come ambiente fisico coercitivo che può essere rivoluzionata: negli Stati Uniti stiamo lavorando molto sulle lezioni one-to-one a distanza che consentono di realizzare quello che è il nostro obiettivo: formazione personalizzata. Per ottenerla abbiamo bisogno di informazioni sul ciclo di apprendimento degli studenti così da valutare le loro performance, capire dove sono deboli e dove invece dimostrano più attenzione. Facciamo tanto lavoro di raccolta dati per incrociare le informazioni collettive e individuare, ad esempio, all’interno della classe i leader».
Si tratta di data-mining, ovvero di estrazione e analisi dei dati. Come lo effettuate?
«Grazie alle piattaforme, ai siti e alle applicazioni a cui si registrano studenti e insegnanti. I seimila italiani registrati a MyEnglishLab, ad esempio, sono valutati costantemente dai loro docenti grazie al monitoraggio delle informazioni che rilasciano online. Sento di poter dire che il gruppo Pearson diventerà a breve il più grande provider di dati sugli studenti di tutto il mondo».
Una promessa per qualcuno che può suonare come minaccia per la privacy…
«Abbiamo progetti sofisticati in corso che richiedono competenze tecnologiche di altissimo livello, questo significa anche garantire, e avere come priorità, la sicurezza e la privacy delle persone coinvolte».
Sebbene il 50% dei ricavi di Pearson arrivi dal digitale e l’obiettivo sia arrivare al 70% entro il 2014 puntando sui mercati emergenti, l’altra metà della cassa aziendale dipende da produzioni «analogiche»: questo è l’anno della fusione tra Penguin Books, casa editrice di vostra proprietà, e Random House, controllata dalla media company tedesca Bertelsmann. Una joint venture che porterà a coprire il 25% del mercato editoriale americano.
«Penguin Books è con Pearson da quasi 40 anni. Visto che il mondo è cambiato e Pearson è cambiata, anche la nostra casa editrice “speciale” deve avviare una trasformazione digitale. Anche perché i fatti parlano da soli: a partire dal 2004 la vendita di testi nelle librerie ha cominciato a diminuire e il processo è irreversibile. Parallelamente però è cresciuta moltissimo la distribuzione online di libri cartacei, sul modello Amazon. Un mercato che nel 2004 valeva il 5% oggi per noi costituisce il 30%».
Farete concorrenza ad Amazon anche sugli ebook?
«Il mercato degli ebook nel 2009 praticamente non esisteva e adesso prende il 20% dei lettori negli Stati Uniti. Seguono Australia e Inghilterra. Sono convinto che esploderà anche in Europa e da voi in Italia molto presto. È inevitabile: attualmente i canali di distribuzione online e gli ebook prendono la metà del mercato editoriale. Noi ci saremo».
Che progetti avete per il «Financial Times»?
«Nel 2012 per la prima volta gli abbonamenti digitali del quotidiano hanno superato le vendite e gli abbonamenti cartacei. Ci sono in questo momento più persone che sottoscrivono un abbonamento online di quelle che si recano in edicola a comprare il giornale. Abbiamo studiato formule di sottoscrizione “premium” per offrire al lettore contenuti multimediali esclusivi. Peraltro anche in questo settore stiamo lavorando moltissimo per capire chi sono e cosa vogliono i nostri lettori».
In che modo?
«Studiando le abitudini di navigazione online: cosa leggono, per quanto tempo, quando. L’obiettivo è poter offrire loro prodotti sempre più personalizzati, contenuti ad hoc per interessi e bisogni, e indirizzare al meglio anche la pubblicità».
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