Piero Melati,
"Il Venerdì di Repubblica", 1 marzo 2013
Durante e subito la Seconda Guerra Mondiale, un drappello di militari alleati recupererò opere d'arte che sono tra i simboli della civiltà occidentale e che Hitler aveva dato ordine di distruggere.
Quando al Reichsmarschall Goering venne comunicato, durante il processo di Norimberga, che il suo amato Cristo e l'adultera di Vermeer, in cambio del quale aveva ceduto 150 quadri, era un falso, "sembrò che avesse scoperto per la prima volta in vita sua che nel mondo esisteva la malvagità", commentò un ufficiale americano.
Il numero due di Hitler era stato la mente del più grande saccheggio di opere d'arte che la storia abbia conosciuto. Non poteva sopportare di essere stato truffato. Aveva guidato una guerra dentro la guerra, invisibile, cruenta, carica di simboli, combattuta con ogni mezzo, rimasta in ombra, come la storia dei cosiddetti Monuments Men, il corpo speciale angloamericano che è riuscito a recuperare, e restituire ai Paesi legittimi proprietari, migliaia di capolavori dell'arte di ogni tempo e alcuni simboli assoluti della civiltà, come La Gioconda e la Dama con l'ermellino di Leonardo, o la Madonna di Bruges di Michelangelo, o ancora il polittico dell'Agnello mistico di Van Eyck.
Trecentocinquanta uomini, tra il '43 e il '51, prestarono servizio presso la Mfaa (Monuments, Fine Arts, and Archives), un po' task force investigativa, un po' nido di spie, quasi sempre esperti d'arte, affetti da eroici furori e sindromi di Stendhal, intenzionati a ogni costo a non far bruciare, nella grande fornace della guerra, anche gli esempi supremi della bellezza senza tempo.
A raccontarne le gesta degne di antichi cavalieri (due di loro persero la vita) è un singolare storico americano, Robert Edsel, in un volume pubblicato in Italia da Sperling & Kupfer, Monuments Men, dal quale George Clooney, in qualità di produttore, trarrà un film.
Racconta Edsel al Venerdì: "Diciassette anni fa ho venduto la mia azienda di esplorazioni petrolifere e ho lasciato casa mia, a Dallas, in Texas. Dopo aver soggiornato per brevi periodi a Parigi e Roma, mi sono stabilito a Firenze, dove ho iniziato a studiare arte e architettura. Un giorno dell'estate del 1997, mentre attraversavo Ponte Vecchio, mi sono soffermato a pensare in che modo così tanti magnifici tesori siano potuti sopravvivere alla Seconda guerra mondiale, il conflitto più devastante della storia, e chi fossero mai coloro che li misero in salvo. Quella domanda ha cambiato il corso della mia vita, mi ha portato a scrivere tre libri su questi eroi della civiltà".
Fu una corsa contro il tempo. Quegli uomini non solo dovettero scoprire i siti segreti dove i nazisti avevano occultato i capolavori sottratti (castelli inaccessibili sulle Alpi o miniere di sale nel ventre della terra), ma anche evitare che le opere venissero distrutte quando Hitler, dal bunker di Berlino, lanciò l'Operazione Nerone, che prevedeva che tutto venisse distrutto alle sue spalle, arte compresa. La squadra speciale ebbe meno di due anni di tempo per compiere il lavoro, all'incirca dallo sbarco alleato in Sicilia alla grande offensiva nelle Ardenne. Dopo, impedire che brillasse la dinamite con cui le SS avevano armato i covi fu spesso un miracolo.
Non era stato solo Goering, con la sua ossessione (aveva avvolto con tele e dipinti persino i mobili di casa), a determinare la grande razzia. Per Hitler, predare l'arte aveva uno scopo politico.
Intanto il capo del nazismo sognava di edificare a Linz, la città austriaca dei suoi anni giovanili che aveva dato i natali a Keplero, la più grande esposizione permanente d'arte dell'universo. Il plastico del progetto, con il quale stressò a lungo il suo architetto Albert Speer, lo portò anche nel bunker, ammirandolo fino ai suoi ultimi giorni. E del progetto parlò nel testamento, invocando che venisse realizzato. Ma non basta. Una delle più importanti scoperte dei Monuments Men fu una grotta allucinante nella miniera di Bernterode, in Turingia, protetta da quattrocentomila tonnellate di esplosivo. Circondate da 225 bandiere e stendardi, c'erano le grandi bare con le spoglie trafugate di Federico Guglielmo I, il re soldato, morto nel 1740, considerato da Hitler il fondatore del moderno Stato tedesco. Accanto, le sepolture del Feldmarschall von Hindenburg, il più grande eroe tedesco della Prima guerra mondiale, e della moglie, mentre una quarta bara conteneva i resti di Federico il Grande, il figlio del re soldato.
Era una sala per la futura incoronazione a imperatore d'Europa di Hitler, suppose un ufficiale. No. Era peggio. In altre tre casse c'erano la spada del Reich di Alberto I, forgiata nel 1540, lo scettro, il globo e la corona usati nel 1713 per l'incoronazione del re soldato. E infine libri, foto e 271 quadri provenienti dai palazzi di Berlino e dal palazzo Sanssouci di Potsdam dello stesso Federico. Gli studiosi, alla fine, conclusero che non era una semplice "sala del trono", quanto piuttosto un sacrario, 500 metri sotto terra, come uno di quei templi ctoni dei miti di Cthulhu raccontati dalla fantascienza horror di H. P. Lovecraft. Un sacrario per il prossimo Reich millenario, dove il successore di Hitler avrebbe tratto ispirazione per proseguire l'opera dei predecessori.
L'idea di una squadra speciale era maturata in Africa. Nell'ottobre del '42 gli inglesi raggiunsero Leptis Magna, il più grande sito archeologico a cento chilometri dalla capitale libica, dove era sorta la maestosa città dell'imperatore Lucio Settimio Severo. L'Inghilterra aveva alle spalle la vittoria di El Alamein. Ora i carri armati, ignorando la storia del luogo, marciavano dentro i resti del tempio. Un ufficiale, Mortimer Wheeler, ricordò ai comandi militari che, quando due anni prima australiani e britannici avevano preso il luogo, prima di esserne respinti, la propaganda del Duce aveva attribuito loro i danni causati al sito. In realtà, erano dovuti a un'usura di duemila anni. Ma la "macchina del fango" si era rivelata efficace, provocando lo sdegno della comunità internazionale. Il nodo si ripropose in occasione dell'assedio di Montecassino, il cui monastero fu alla fine bombardato. Salvare i monumenti o la pelle dei soldati? La questione era sul tappeto. Il generale Ike Eisenhower, comandante degli Alleati, la codificò nel maggio '44: in guerra i capolavori non varranno mai una vita umana, ma devono essere tutelati.
L'avventura del museo del Louvre fu l'allegoria di questo atteggiamento. Nel 1940 Goebbels rese operativo il Rapporto Kummel, ovvero l'elenco delle opere che spettavano di diritto alla Germania, secondo una codificazione elaborata dallo stesso Hitler. Non era possibile, neppure da parte nazista, operare saccheggi senza pezze legali. Il direttore del Louvre, Jacques Jaujard, fu l'unico alto funzionario francese trovato al lavoro dai nazisti quando le truppe occuparono Parigi. Stava tentando di salvare i capolavori dall'invasore, compresa la Nike di Samotracia, portata in spalla lungo le scale a rischio di distruzione.
Jaujard riuscì spesso ad aggirare i diktat dell'ambasciatore tedesco a Parigi, Otto Abetz, grazie all'aiuto di un gerarca, il conte Franz von Wolff-Metternich, che scelse di difendere i capolavori dalla voracità del Reich. E, sempre dal Louvre, emerse l'eroina Rose Valland, che aveva visto il museo Jeu de Paume saccheggiato da Goebbels e poi, in quei giardini, aveva assistito ai roghi delle opere bollate come "indegne". Fu lei a carpire ai nazisti la mappa dei siti dove erano nascosti i capolavori. Consentì di scoprire il deposito nel castello di Neuschwanstein, costruito da Ludovico II di Baviera nelle Alpi bavaresi, e quelli di arte e lingotti nelle miniere di Heilbronn, Buxheim e Hohenschwangau. Fu un modo per riparare ai roghi. "Prima bruciarono le cornici, poi dalle fiamme si alzarono i colori" raccontò. Erano quelli di Klee e di Picasso.
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