Franco Marcoaldi
"La Repubblica", 12 giugno 2013
L’antologia di John Berger Contro i nuovi tiranni (Neri Pozza), che Maria Nadotti ha approntato con amorevole cura scegliendo il meglio della sua produzione lungo un arco di quasi sessant’anni (dal 1958 al 2012), è tanto interessante quanto problematica. Per svariate ragioni. Innanzitutto, perché un’opera così vasta e variegata ci costringe a fare i conti con quell’automatica e smaniosa necessità di noi lettori nel voler etichettare a tutti i costi l’autore che stiamo leggendo: davvero un irresolubile rebus, in questo frangente. Chi è John Berger? Uno scrittore, uno storico dell’arte, un giornalista d’inchiesta, uno sceneggiatore, un drammaturgo? Come costringerlo in un recinto predefinito, visto che queste pagine spaziano dalla fotografia all’economia, dalla storia alla filosofia, dall’arte alla poesia? Nell’età degli specialismi sempre più asfittici o per converso della fatua chiacchiera di un opinionismo ubiquo e ininterrotto, si fa fatica a risalire all’antica e nobile figura dell’umanista; di chi segue con perseveranza e metodo la strada indicata a suo tempo da Forster: «connect, only connect».
Tanto peggio poi se tutti i fili della tela finiscono per convergere in ultima istanza sulla politica, una gran brutta bestia, sempre meno amata dagli intellettuali di oggi. Berger però non ha mai rinnegato la sua originaria matrice marxista e continua a ritenere che la politica rappresenti comunque il punto di ricaduta di ogni pensiero. Da qui certe sue riflessioni fulminanti, come quelle contenute nelle due stringate paginette che danno titolo al volume. Berger, che ha cominciato facendo il pittore e allo sguardo ha sempre attribuito una funzione essenziale nella lettura del mondo, si chiede: quale sarà il volto di questi profittatori, il loro portamento? «L’abbigliamento è rassicurante, come la sagoma dei furgoni portavalori (…) Mani gesticolanti, che dimostrano formule e non toccano l’esperienza (…) L’assoluta fiducia in se stessi che traspare dai loro volti è pari alla loro ignoranza, che è anch’essa evidente». Ciascun lettore avrà modo di applicare con profitto questa silhouette ideale al primo uomo potente che gli venga alla mente. Uomo potente che, come i suoi pari, concluderà ogni suo discorso con l’immancabile formula di rito: «così stanno le cose, non c’è alternativa. Ogni altro scenario rientra nel mondo dei sogni». Da qui la gabbia, anzi, secondo Berger il carcere planetario in cui siamo finiti: sottomessi come siamo a un neoliberismo finanziario ed extraterritoriale che il Nostro, più sbrigativamente, chiama «fascismo economico». Saltata qualunque idea di sovranità nazionale e dunque qualunque possibile fondamento democratico, «il profitto liquido », che opera nel cyber-spazio, riduce i governanti, di destra o sinistra, a semplici “mandriani” che ammassano nei recinti i propri branchi. Ma la forza straordinaria dei nuovi tiranni, offerta per l’appunto dall’extraterritorialità, può trasformarsi anche in debolezza. Perché quei profittatori «non possono prestare ascolto alla terra. Sul terreno sono ciechi. Nello spazio fisico e locale sono persi». Ecco perché Berger va perennemente in caccia di tutte quelle sacche di resistenza che agendo nel “locale”, possono collegare il vicino e il lontano. Le cerca e le trova nei luoghi più disparati (la Palestina come il Messico, le Alpi francesi come l’India), e lo fa utilizzando le più diverse discipline, a cominciare dall’arte, leggendo ad esempio il Trittico del millennio di Bosch come profetica anticipazione dell’inferno contemporaneo: «l’orizzonte è del tutto assente. Non c’è continuità tra le azioni, non ci sono pause né percorsi, non c’è un disegno, un passato, un futuro».
Parrebbe una resa definitiva. Ma ogni volta che Berger delinea uno scenario apocalittico e sconfortato, subito si leva in lui un’altra voce che reclama comunque la disobbedienza e la lotta. Se è in atto un vero e proprio «sequestro del linguaggio», un racconto mediatico fittizio e manipolato della realtà, che spinge tutti verso un avvilito silenzio, c’è pur sempre la poesia da cui poter ripartire. Perché la sua parola è originaria, in un duplice senso. Rimanda all’inizio, dunque a tutto ciò che è stato generato in seguito. E assieme a quanto non ha ancora avuto luogo, non è ancora accaduto. È così che il passato e il futuro, il reale e il possibile, si tengono insieme. Come si devono tenere insieme i morti e i vivi. Maria Nadotti, nella sua appassionata introduzione, sottolinea giustamente questo punto, facendo riferimento a un racconto del 2005 che narra l’onirico incontro tra l’autore e la madre, scomparsa una decina di anni prima. La donna è più prudente del figlio e gli rimprovera un eccessivo entusiasmo verso attese palingenetiche e rivoluzionarie. «Accontentiamoci di riparare poche cose», gli dice. «Poche cose, è già molto. Una sola cosa riparata ne cambia altre mille…».
Già: riparare, che meravigliosa parola. Dai mille significati: proteggere, aggiustare, difendere, rimediare, risarcire, correggere, sanare. Se la politica ripartisse da qui:
questa sì che sarebbe una rivoluzione.
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