domenica 9 giugno 2013

Arte e filosofia, il grande armistizio

Millenni dopo la condanna di Platone, ora il pensiero si inchina alla pittura


Bernard-Henry Lévy

"Corriere della Sera", 6 giugno 2013

I due testi che seguono fanno parte del libro «Le avventure della verità»: esce oggi in Francia e accompagna la mostra che verrà inaugurata il 29 giugno alla Fondazione Maeght di Saint-Paul de Vence, in Provenza.

Nietzsche è lui. Il Nietzsche di Torino di cui, dieci anni prima di questo quadro, ha ripercorso i passi. Il Nietzsche di Palazzo Carignano e della statua equestre di re Carlo Alberto di cui ha seguito le orme. Poi il Nietzsche greco, il Nietzsche apollino-dionisiaco della Nascita della tragedia. Il Nietzsche per il quale è sempre stato molto chiaro: che da un lato ci sono «Socrate-e-Platone», la loro malattia, la loro decadenza e, dall'altro, «i filosofi greci», i poeti anteriori a Platone, gli oracoli anteriori a Socrate, che si chiamano Eraclito, Parmenide, Anassagora, Empedocle, Alcmeone di Crotone; e che tanto meno bisogna confonderli in quanto i secondi sono l'antidoto al veleno dei primi, il rimedio da contrapporre, la parola giusta da ritrovare se si vuole guarire l'umanità, come vuole lui, Nietzsche, dal nichilismo che essi le hanno inoculato.
Sono loro, certo, che de Chirico ha rappresentato. Sono i corpi senza volto, perché senza opera realmente accertata (si sa solo, grosso modo, quel che ne riferiscono Aristotele e Platone. È tutto dire!) che anch'egli chiama, senza altra forma di processo, «i» filosofi greci. Sono quei nomi leggendari, necessariamente mascherati perché senza identità certa, e di cui si percepisce bene che, anche per lui, sono enigmatici e tali devono restare.
Cosa fanno? Dove sono? Perché quei corpi in vetro o in trompe l'oeil, issati su trampoli, mal articolati? Si direbbe che hanno la testa fra le nuvole. Hanno i piedi su uno strano pavimento, ma le teste sono altrove, lassù, nella nebbia; è come un vestibolo del cielo, dove già si trovano. Si direbbe anche che si divertano. O addirittura che si torcano dal ridere per il destino di statua che si addice loro così poco? Per il marmo pieghettato con cui li hanno agghindati, loro, i pezzenti, i filosofi da strada e da taverna? O per i cattivi greci, per i greci avvelenati che, come vedono da lassù, gli corrono dietro, e tentano di sfigurarli?
Per fortuna tuttavia, il pittore, una volta incaricato dagli dei, si preoccupa di dare il cambio e di vendicarli.



«Alkahest», Anselm Kiefer

Non è più a dio che Kiefer fa concorrenza, è alla geologia. Ma la geologia in atto. Ma la geologia in movimento. Ma una geologia impazzita i cui processi, le generazioni e degenerazioni, gli smottamenti, la formazione delle ondulazioni, dei gessi e degli scisti, i crateri e le cime, le colate di fango o di neve, le eruzioni, i detriti, le furie di solito silenziose, le convulsioni gigantesche, i caos in sospensione e in profondità, fossero stati accelerati. Un'accelerazione resa possibile solo dal fatto che il pittore-geologo fa concorrenza anche — nello stesso tempo e sulla stessa tela — agli alchimisti, cioè a quelli che, con le loro formule sacre, i loro alambicchi e, qui in primo piano, le bilance su cui dosano sale e solfuro, elementi e contro-elementi, poi, più in là, forme e antiforme, hanno fatto concorrenza, durante il Medio Evo in generale e il Medio Evo ebraico in particolare, al dio delle soluzioni e delle dissoluzioni, al dio che guida tutte le cose, al dio che le trasforma e, quando lo fa, le resuscita.
Faust richiama in vita non più Elena e Paride, ma il folle di Sils-Maria, di cui non posso fare a meno di indovinare, nella parte sinistra del quadro, la silhouette. Non contento di trasformare il piombo in oro, o l'oro in argento, egli trasmuta tutti gli elementi, quindi tutti i valori, compreso quello di cui son fatti gli uomini e la cui forza di devastazione barbarica ormai non è, ahimè, da dimostrare.
Il paesaggio è Kiefer, non più le Alpi. È il suo desiderio d'essere montagna. È il suo stesso corpo che geme, ruggisce, vomita il detto maledetto della terra. È il pittore che, allucinato e tragico, demiurgo del mondo e di sé, entra in guerra con la materia o — è la stessa cosa — le fa buttar fuori la sua verità.
Non sono sicuro di sentirmi molto vicino a questa filosofia. Ma è certo che, se Contro-Essere ha un senso, se l'idea di un dire che non dice più la verità ma le succede, ha messo radici da qualche parte, è qui, su questa tela stupefacente che, come quelle di Newman, si avvicina anch'essa al sublime.
(traduzione di Daniela Maggioni)

Dall'antica Grecia a Kiefer cercando l'origine di tutto

Stefano Montefiori

PARIGI — Una grande mostra sulle «Avventure della verità»: dal 29 giugno all'11 novembre la Fondation Maeght di Saint-Paul de Vence illustra il rapporto tra pittura e filosofia nei secoli, da Platone a Anselm Kiefer, attraverso 126 opere scelte da Bernard-Henri Lévy, il commissario dell'esposizione.
Dopo l'impegno per la rivoluzione libica l'intellettuale francese ha raccolto la sfida lanciatagli un anno fa dal direttore della fondazione, Olivier Kaeppelin, che gli ha lasciato carta bianca per la tradizionale esposizione estiva. «Un filosofo oggi deve prendere esempio dall'arte e dalla pittura in particolare — sostiene Lévy —. L'arte non è più un semplice fenomeno culturale né, ancora meno, decorativo: non è più un ornamento della verità; è la sua instaurazione radicale, l'apertura all'essenza, all'origine; l'arte si trova al fondamento e alla fine di tutto».
Ogni opera viene accompagnata da un testo di Bernard-Henri Lévy, che ripercorre lo scontro tra pittura e filosofia partendo dalla celebre condanna che Platone fece dell'arte, imitazione della realtà sensibile a sua volta imitazione del mondo delle idee.
Il volume «Les Aventures de la vérité», che esce oggi in Francia co-edito da Fondation Maeght e Grasset, raccoglie quei testi facendoli precedere da una sorta di diario, la testimonianza di come la mostra è stata concepita e via via realizzata con l'aiuto, tra gli altri, di François Pinault, Miuccia Prada, Daniela Ferretti. Bernard-Henri Lévy ha chiesto a venti grandi artisti contemporanei di leggere, davanti alla telecamera, brani di altrettanti filosofi: i film saranno proiettati durante l'esposizione ma intanto, nel libro, Lévy racconta di quando, per esempio, Jeff Koons ha preteso di leggere Aristotele o come Marina Abramovic, in una sorta di anti-performance, a New York abbia perso d'un tratto la sua abituale sicurezza per intimidirsi di fronte alla lettura di Antonin Artaud.
Alla fine l'impostazione platonica è capovolta, l'arte ritrova tutta la sua centralità. Come già scrisse in La barbarie dal volto umano, oltre trent'anni fa, con la mostra alla Fondation Maeght «Bhl» ripete che di fronte alle tragedie del ventesimo secolo — fascismo, nazismo, Kolyma — «il filosofo deve tacere per lasciare la parola a Guernica, Fritz Lang, Solzenicyn».

Buono quel tulipano!

Anna Li Vigni

"Sole 24 ore", 23 dicembre 2012

Nel 1928 la scultura di Brancusi Bird in space fu fatta sbarcare a New York. Qui i doganieri si rifiutarono di catalogarla come opera d'arte, in quanto non assomigliava affatto all'uccello cui rinviava il titolo. Negli atti del processo che ne seguì, il giudice chiede al testimone di Brancusi: «Solo perché l'artista lo ha chiamato "uccello" questo le fa dire che è un uccello?» – «Sì, vostro Onore»; «E se lei lo avesse visto per strada, lo avrebbe chiamato uccello?» –. Che quel pezzo di metallo fosse un uccello era indimostrabile, eppure la corte riconobbe l'artefatto come opera d'arte; ciò perché, indipendentemente dal senso comune, per l'arte contemporanea rappresentare non significa produrre copie della realtà. Tiziana Andina, nel saggio Filosofie dell'arte, in uno stile che riunisce gusto per gli aneddoti e chiarezza argomentativa analitica, mostra come sia complicato per la filosofia odierna trovare un accordo sulla definizione del l'arte e delle sue finalità. Con la creazione dei ready-made, Duchamp ha messo in crisi la teoria bimillenaria dell'arte intesa come imitazione, trasformando l'arte – come nota Danto – in qualcosa di simile alla riflessione filosofica. Quando un oggetto d'arte coincide con un oggetto reale, come nel caso dell'Orinatoio, la questione del l'imitazione è fuori gioco. L'approccio teorico al l'arte contemporanea impone dunque una distinzione precisa tra estetica e filosofia dell'arte. L'estetica è, come indica l'etimologia, una «scienza della percezione sensibile» che solo talvolta si occupa d'arte, perché coi sensi si percepiscono tante altre cose. È la filosofia dell'arte, invece, a occuparsi a pieno titolo dell'arte nei suoi vari aspetti che non sempre hanno a che fare con la percezione. Si occupa, per esempio, degli aspetti istituzionali dell'arte quando essa è considerata – come fa Dickie – un oggetto sociale. Che un orinatoio diventi un'opera d'arte è un fenomeno sociale determinato da un "mondo dell'arte" (composto da artisti, critici, galleristi, collezionisti, fruitori, giornalisti) che attribuisce valore a un oggetto normale "trasformandolo" in arte da esporre in un museo. Quando un ready-made viene esposto da un artista, allora ha il "titolo" per essere considerato arte, ma se una persona normale espone una tazza WC nel salotto di casa sua, non può certo farla passare per arte. L'arte contemporanea assume quindi valore sulla base di funzioni che le vengono attribuite dal mondo dell'arte, spesso anche senza che vi sia alcun valore estetico. Un caso limite è quello dell'arte invisibile, cui è stata recentemente dedicata una mostra alla galleria Hayward di Londra. Altro caso è in un episodio dei Simpson, in cui un critico d'arte decreta che il rottame di barbecue che Homer sta trasportando alla discarica è un'opera da esporre in un museo: caso limite davvero, perché l'arte qui viene creata dal critico indipendentemente da un'intenzionalità dell'"artista". Un discorso a parte meriterebbe la questione della speculazione economica nel mondo dell'arte contemporanea, dove i collezionisti sono disposti a investire capitali su oggetti privi di valore estetico. Un fenomeno non dissimile dalla "follia" che nel '600 portò gli Olandesi a considerare i preziosi tulipani una moneta di scambio: nel 1633 fu venduta una casa per soli tre bulbi! Eppure un bulbo resta sempre un bulbo. Almeno così la pensava un marinaio che rubò un bulbo di tulipano dalla bottega di un mercante di Amsterdam e, scambiandolo per una cipolla, se lo mangiò in un boccone.

Tiziana Andina, Filosofie dell'arte. Da Hegel a Danto, Carocci, Roma, pagg. 222

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