Orgoglio Joyce, sì Ma non è soltanto una pinta di birra
John McCourt
"Corriere della Sera - La Lettura", 16 giugno 2013
La festa carnevalesca e laica, nota oggi come Bloomsday, nacque, quasi clandestinamente, a Dublino il 16 giugno 1954 in occasione del cinquantesimo anniversario dall'ambientazione dell'Ulisse, che si svolge appunto in un'unica giornata, in un'Irlanda ancora incerta se abbracciare o rinunciare a uno scrittore così controverso. Un certo Flann O'Brien, allora negletto romanziere (oggi considerato parte della triade dei grandi modernisti irlandesi con Joyce e Beckett e per questo al centro del convegno internazionale che si terrà all'Università Roma Tre dal 19 al 21 giugno) fu uno degli ideatori delle prime celebrazioni dublinesi. Grande ammiratore di Joyce, O'Brien, come molti altri, soffriva nell'ombra, preoccupato che Joyce avesse già detto tutto. Si inquietava per il culto di cui Joyce era già oggetto e allo stesso tempo lo turbava il fatto che erano stati in pochi a leggere i suoi romanzi. Più che con Joyce, O'Brien ce l'aveva con il crescente gruppo di studiosi americani che, dal suo punto di vista, avevano invaso Dublino. Questa invasione globale dell'Hibernian Metropolis continua ancora oggi e Joyce è diventato anche un prodotto da esportazione. È divertente pensare che questo scrittore solitario e difficile oggi attragga folle di persone ansiose di celebrare il suo Ulisse bevendo fiumi di Guinness (che egli, come il protagonista del romanzo, Leopold Bloom, non consumò mai), convinte di rendergli omaggio. Cosa penserebbe O'Brien delle odierne celebrazioni joyciane che si svolgono in moltissime città del mondo? E cosa ne dovremmo pensare noi? Un rischio c'è, ed è grosso: che il personaggio Joyce venga sfruttato per ragioni commerciali che nulla hanno a che fare con la letteratura, e che Joyce diventi un vacuo simbolo del contemporaneo, in sostituzione dell'ormai defunto Lucky Leprechaun, che per anni ha rappresentato l'Irlanda nel mondo. Ancora più c'è da chiedersi se questo Joyce pride porti davvero i lettori a confrontarsi con i difficili e scomodi testi joyciani. Non c'è forse il pericolo che, festeggiando Joyce in modo divertente e popolare, si possano svuotare le sue opere del loro potenziale rivoluzionario? Perché l'Ulisse, fra le altre cose, è anche una grande opera comica che demolisce in un solo colpo il romanzo tradizionale, restituisce vitalità alla lingua inglese, offre spunti e spazi di meditazione e incita il lettore a riflettere su se stesso e sul mondo, su quel che vi è in esso di privato e di pubblico e sull'intreccio che li collega. I diciotto episodi dell'Ulisse, anche con l'aiuto di una critica sveglia e non robotizzata, ci aiutano a porre delle domande rilevanti, come per esempio: cos'è una nazione? Cos'è l'Europa? Cosa significa la religione nel mondo moderno? Come capire la sessualità umana? Come sopravvivere dopo la morte delle grandi ideologie, e con cosa sostituire le loro narrazioni ormai vuote? Divertiamoci pure con questo Global Joyce, ma non esauriamo il nostro contatto con un eccezionale scrittore nello spazio/tempo di una pinta di Guinness e tentiamo di non negargli, voltando subito lo sguardo altrove, la capacità di offrire, attraverso le sue opere, uno specchio impietoso della società.
John McCourt insegna all'Università Roma Tre. È presidente del Comitato scientifico della Trieste Joyce School, dell'Università degli Studi di Trieste, che ha luogo dal 30 giugno al 6 luglio: http://www2.units.it/triestejoyce/
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