Maurizio Cattelan, Untitled, 2007 |
Le opere fanno i conti con l’economia E i documenti sostituiscono l’estetica
Maurizio Ferraris
"La Repubblica", 15 giugno 2013
Si dice che l’arte dell’ultimo secolo è prevalentemente concettuale, ma in che senso lo scolabottiglie di Duchamp sarebbe più concettuale della Scuola di Atene di Raffaello, che riesce, con un semplice gesto della mano di Aristotele levata a metà, a illustrarci il carattere di medietà proprio delle virtù etiche? Il “concetto” dell’arte concettuale, a ben vedere, è una nozione giuridica. Così, nella coppia “legge e arte” che intitola il libro di Alessandra Donati (Law and Art. Diritto e arte contemporanea, Giuffrè, ma si veda anche il volume, curato con Gianmaria Ajani, I diritti dell’arte contemporanea, Allemandi) la giuridicità non è estrinseca, come sarebbe, poniamo, il tentativo di spiegare le opere a partire dalle patologie degli autori nella coppia “psichiatria e arte”. L’arte concettuale dell’ultimo secolo è, in effetti, un’arte contrattuale: fa i conti con il dato economico (il mondo dell’arte è anzitutto il mercato dell’arte) e insieme cerca di allargare la definizione di arte, rinegoziando l’implicito contratto tra committente, autore, fruitore, sino al punto da diventare essa stessa un contratto. Perché il solo concetto con cui lavora l’arte concettual-contrattuale è, dopotutto, la legge dell’arte, l’idea canonica che un’opera sia una cosa fisica, con un autore, con una gradevolezza estetica. Dunque, bisogna contraddire i canoni, aggirarli, smontarli, e il tutto, piuttosto perversamente, avviene attraverso uno strumento che è associato al canone e alla legalità, il contratto.
Grandi sono i poteri del contratto, che gode di una dimensione performativa e permette di fare cose con le parole, come suggeriva il filosofo inglese John L. Austin (1911-1960), il teorico degli atti linguistici, che osservava come la parola “sì” in un matrimonio, non si limitasse a descrivere un matrimonio, ma producesse due nuovi oggetti sociali, un marito e una moglie. E come sistematicamente avviene nei documenti, che permettono di attestare, documentare, archiviare, secondo una duplice modalità che si può ricondurre alle tipologie del “documento debole” (come registrazione di un fatto) e del “documento forte” (come iscrizione di un atto). Per intenderci, tutti gli artisti che registrano performance altrimenti destinate a scomparire producono documenti deboli, e lo stesso avviene quando gli artisti sfruttano il fascino estetico delle scartoffie e il potere magico dell’archivio, come Gordon Matta-Clark, che realizza collage con carte legali e catastali.
Ma il documento può essere adoperato in forma più forte, cioè letteralmente per produrre atti: Theodore Fu Wan modifica contrattualmente il proprio nome in Saskatche Wan, Alix Lambert in sei mesi si sposa con cinque mogli differenti, Maria Eichhorn concepisce la propria attività artistica come la redazione di contratti per tutelare zone urbane minacciate dalla speculazione. E il potere attributivo del documento è al centro di pratiche come quelle di Stefan Bruggemann, e di Robert Barry, che dispongono che due loro opere siano assegnate ogni cinque anni all’uno e all’altro. Il contratto può spingersi sino alla messa in scena di una sovversione delle regole che non sono più quelle dell’arte, ma del codice penale, come per esempio quando
l’artista dà l’ordine di rubare in un supermercato, o, come in Corruption Contract del gruppo Superflex, l’acquirente — in evidente deroga rispetto alla teoria del bello come simbolo del bene morale — si impegna a estorcere o corrompere. Si può fare anche di più: costruire opere per mero fiat contrattuale. Già nel 1959 Yves Klein aveva realizzato Vuoto d’artista, una mostra senza opere, nella quale veniva rilasciato un contratto di cessione di una “zona di sensibilità pittorica immateriale”, e molto più tardi, nel 2010, Étienne Chambaud ha realizzato un’opera che consiste soltanto in contratti, certificati e dichiarazioni di autenticità. Ma l’iperbole si tocca forse nel contratto di Robert Morris del 1963, che si compone di due parti: a sinistra, una placca di piombo con qualche riga incisa, a destra una dichiarazione in cui l’artista ritira il carattere di opera d’arte all’opera, trasferendo l’aura artistica sul documento di disconoscimento.
Kant aveva detto che il carattere proprio dell’arte consiste nel far “pensare molto”. Ma quali pensieri suscitano queste opere? Interrogativi di indole essenzialmente giuridica. Per esempio: chi è l’autore, se si limita a rilasciare delle istruzioni? Certo una figura che può essere dispotica se, come Seth Siegelaub, prescrive nel contratto di esecuzione che anche il minimo cambiamento comporta una alterazione irreversibile dell’opera. O persino più dispotica, in modo perverso: è il caso di Daniel Buren che si astiene dal firmare o autenticare le proprie opere. E ancora: il curatore di una mostra o di un museo è un autore, nel momento in cui la sua responsabilità va molto oltre la gestione di uno spazio espositivo? E davvero la performance è un’opera senza supporto che si sottrae al mercato? Così era nell’ideologia originaria, ma ora il mondo è pieno di registrazioni di performance. E ancora di “scripta”, opere che si montano e smontano accompagnate da istruzioni per l’uso. O opere che consistono soltanto in documenti, come il foglio della denuncia presentata da Cattelan alla Questura di Forlì, che lamentava il furto dalla sua macchina di un’opera d’arte invisibile.
Tuttavia, l’arte contemporanea si limita a portare in primo piano un carattere proprio delle opere di ogni tempo e tipo. Una dimensione documentale ha sempre definito l’orizzonte del-l’arte, che è costituzione di oggetti sociali. Per cui, come ogni altro oggetto sociale, l’opera è definita da una legge che ho provato a formalizzare nei termini di Oggetto = Atto Iscritto. Vale a dire che gli oggetti sociali sono il risultato di atti sociali caratterizzati dal fatto di essere iscritti, su un pezzo di carta, un file di computer, o anche solo nella testa delle persone. Perciò la dimensione contrattuale non è una rottura rispetto all’essenza dell’arte tradizionale, che in quanto tale postula la cooperazione tra autore e fruitore suggerita più di trent’anni fa da Umberto Eco in Lector in fabula.
La piena realizzazione delle aspettative comportava spesso un fattore di sorpresa, di lieve trasgressione della norma, per dare un soffio di autorialità e di novità in quelle arti che (diversamente da tradizioni codificate) lo prevedono.
La variante contemporanea è per l’appunto il brivido contrattuale, in cui l’artista si sente tanto più rivoluzionario quanto più sviluppa sofisticatezze da azzeccagarbugli. Qui la trasgressione e la sorpresa divengono l’elemento prioritario dell’opera, e il frisson burocratico prende il posto di altri elementi (informazione, emozione, soddisfacimento estetico) costitutivi delle opere nella tradizione. La trasformazione del mondo in opera d’arte sognata dai romantici si è realizzata nelle scartoffie, e l’arte scende davvero nella vita. Il barista che non ti dà lo scontrino del caffè è potenzialmente un performer assoluto, ma l’evento risulta ancora più sublime se accompagnato da una denuncia della finanza. Aspettiamo tutti il momento in cui una riunione di condominio potrà diventare un’opera d’arte, il cui vestigio, il verbale, potrà ornare le pareti di casa. Nell’arte contrattuale si realizza la vecchia vignetta di Giuseppe Novello, che raffigura un giovanotto che la nobile famiglia voleva a tutti costi compositore, ma che di notte — sotto gli occhi accigliati di un busto di Beethoven — dava sfogo alla sua vera Musa, la ragioneria. Niente di strano. Dopotutto, Jeff Koons lavorava in borsa, ma ovviamente la perfezione dell’arte contrattuale sarebbe quella per cui Cattelan ricevesse una cattedra di diritto commerciale mettendo a frutto l’expertise accumulata nei suoi anni di militanza artistica.
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