A Oslo arriva Disperazione, prototipo del dipinto più celebre
Inediti a Venezia, mentre tutt'Europa celebra l'artista
Sebastiano Grasso
"Corriere - La Lettura", 2 giugno 2013
Ha sempre vissuto come se si muovesse su un sentiero che costeggiava un precipizio, mentre una sorta di forza sovrumana lo costringeva a guardare nell'abisso, procurandogli attacchi di panico. Era l'ignoto, l'inafferrabile ad attrarre Edvard Munch (1863-1944), del quale la Norvegia celebra i 150 anni dalla nascita con una serie di manifestazioni della durata di un anno. Clou, la grande rassegna di Oslo che apre oggi, domenica 2. Altre mostre a Stoccolma (Thielska Galleriet), Zurigo (Kunsthaus), Venezia (Fondazione Bevilacqua La Masa), Genova (Palazzo Ducale).
Oslo presenta 250 opere divise fra il Museo Nazionale (lavori 1882-1903), a cura di Nils Ohlsen e Mai Britt Guleng, e il Museo Munch (1904-1944), a cura di Jon-Ove Steihaug e Ingebjørg Ydstie. Naturalmente, sono presenti anche tre delle quattro versioni de L'urlo, che fa parte della serie Il fregio della vita. Ma a Oslo, fra i prestiti provenienti dalla collezione Ernest Thiel di Stoccolma, c'è anche una grande sorpresa: Disperazione, del 1892. La qual cosa permetterà al visitatore un accostamento interessante. Il dipinto, che precede di un anno la prima versione de L'urlo, in realtà ne è il prototipo.
Differenze? Il personaggio principale, che porta il cappello, è visto di profilo, mentre si affaccia dal ponte di Nordstrand (città oggi diventata uno dei quartieri di Oslo), e non è terrificante come il volto, simile a un teschio, del celebre quadro di Munch. Sullo sfondo di entrambi, invece, le due persone che parlano fra di loro e che, forse, non si sono rese conto dell'angoscia del pittore.
Ricordate la spiegazione dell'artista norvegese? «Passeggiavo con due amici quando il sole tramontò e improvvisamente il cielo si tinse di rosso-sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanchissimo al parapetto. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c'erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuarono a camminare mentre io tremavo ancora di paura; sentii un urlo infinito che pervadeva la natura».
Ossessione e tragedia, angoscia e morte. Ecco i binari su cui scorre la vita e la pittura di Munch. Parte dei titoli ne sono testimoni: Morte nella stanza della malata, Bambina malata, Angoscia di vivere, Morte, La madre morta e la bambina, e così via, rappresentano una discesa agli inferi di un uomo nel mondo pagano. Avevano tutti qualcosa in comune, anzi, come ha scritto egli stesso, erano «apparentati».
Gli era sembrato persino che, una volta accostati, «una stessa nota musicale li unisse. Da qui, una vera e propria sinfonia». Sin da bambino, Munch viene colpito da una serie di lutti familiari (la madre, la sorella Sophie, il fratello Andreas). Nato a Løten, segue il padre, medico dell'esercito, a Christiania (come si chiamava Oslo prima del 1925).
Pur non essendo la Norvegia una protagonista dell'arte moderna, accoglieva gli artisti che, rientrando in patria, portavano con sé le istanze europee di rinnovamento. Un clima, questo, che serve a formare il giovane Edvard. Si registrava uno scambio continuo fra pittori e scrittori. Kierkegaard sosteneva che l'arte doveva trarre la linfa dalle proprie vicende personali.
Nel 1889, un viaggio a Parigi convince ancora di più Munch a guardare dentro di sé. Le emozioni prendono colore sulla tela. Una buona mano gliela dà la letteratura. Come Gauguin, preferisce dipingere le cose che ricorda, evitando di farlo nel momento in cui le vede. Sente il bisogno di farle sedimentare e di tradurle, dando loro «un senso di scopo ed emozione».
Sempre al 1889 risalgono la conoscenza di Van Gogh e la morte del padre, con cui i rapporti non erano stati idilliaci. Da qui quel senso di colpa che accrescerà la sua angoscia. Edvard abbandona i ritratti, gli interni. «L'arte si nutre del sangue dell'artista», dice. Per questo, adocchiando impressionismo e simbolismo, Munch ingrana la marcia che lo porterà ad una sorta di espressionismo sui generis, cui guardano un buon numero di artisti tedeschi. Catapultatosi a Berlino, Edvard conosce una grande popolarità. Anche stavolta le letture hanno una notevole incidenza (Strindberg, Ibsen, Nietzsche e Freud), così come la musica (Wagner). La sua pittura diventa una sorta di diario autobiografico e la sua angoscia acquista una valenza universale.
Talvolta ripete gli stessi soggetti con varianti, sino a quando gli sembra di avere esaurito la raffigurazione delle proprie emozioni («Spesso riprendo un tema per scandagliarlo sempre di più»). I suoi dipinti guardano non solo dentro l'uomo, ma anche nelle realtà sociali. Munch allarga i suoi interessi alla grafica e alla fotografia. Quest'ultima, addirittura, quando è casuale, diventa la base dei quadri.
Anche se il successo gli arride (mostre, riconoscimenti vari), è soggetto a crolli psicologici. Viene persino ricoverato in una clinica di Copenaghen. I suoi personaggi diventano sempre più sfatti, assomigliano a fantasmi circondati da ombre. E come fantasmi rappresenta spesso le sue donne, con le quali ha rapporti piuttosto difficili.
C'è di più: proprio nel 1913, la Norvegia concede alle donne il voto e Munch registra questa trasformazione sociale che non avviene senza traumi. Per lui, che le considera sante, puttane e amanti infelici, esse vivono avvolte dal mistero.
E proprio Attenzione alla puttana: Edvard Munch e Lene Berg è il titolo dell'omaggio (curato da Marta Kuzma e Angela Vettese) che Venezia — nell'ambito della Biennale — fa all'artista norvegese e alla connazionale Berg (Oslo, 1965), autrice di un film sull'emancipazione. In mostra 28 lavori poco noti: disegni e anche un paio di dipinti inediti, fra cui Bambini e anatre, del 1906.
Attenzione alla puttana riprende esattamente il titolo del film di Fassbinder, uscito nel 1971, interpretato da Eddie Constantine, Hanna Schygulla e Lou Castel.
Non si capisce, però, quale rapporto ci sia fra i due artisti norvegesi e il regista tedesco.
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