Melania Mazzucco
"La Repubblica", 9 giugno 2013
È il muso di un cane, che affiora su un piano inclinato e si staglia contro uno spazio vuoto, color ocra chiaro. Nient’altro: il quadro è tutto qui. Eppure quel cane, confinato nella parte bassa del rettangolo, perso nell’immensità dorata che lo circonda e sembra sul punto di inghiottirlo, comunica una vertigine quasi metafisica. Il pittore usa una tavolozza povera, di pochi colori, e ha eliminato tutto il superfluo. Non esiste paesaggio, né realtà riconoscibile. Nessun dettaglio, quasi un’astrazione. L’immagine cattura una porzione esigua del visibile. È impossibile dire cosa stia accadendo al cane o dove si trovi. Se la macchia bruna che s’impenna verso destra e nasconde il suo corpo sia l’acqua fangosa di un fiume o la terra che lo seppellisce in una frana o la sabbia di una duna nel mondo ridotto a un deserto. Ma che qualcosa stia accadendo lo rivelano le pupille spaventate, il naso umido e nero, e le orecchie pelose, rese sommariamente con strisce di biacca. Gli occhi rivolti verso l’alto, il cane cerca un segno, o aspetta qualcosa. Che però non si materializza. Il cane è disperatamente solo. Questo quadro non ha titolo. Charles Yriarte, il primo studioso che lo citò, e che dedicò a Francisco Goya una monografia nel 1867, lo descrisse come “il cane che lotta contro la corrente”. Altri lo definirono il “cane semisommerso dalla sabbia”. Goya non vi fece mai cenno, e quando partì per Bordeaux lo abbandonò: apparteneva a un passato che intendeva lasciarsi alle spalle. Ci vuole un magnifico coraggio per andare in esilio a settantotto anni e per voler ancora creare, nonostante la fine del mondo in cui sei vissuto e che ti ha dato la gloria. Goya dipinse il Cane quando lasciò definitivamente Madrid e la corte dei Borboni che aveva servito per decenni, e si ritirò in una casa vicino al ponte di Segovia, sulla riva del fiume Manzanares. La casa aveva un nome profetico: Quinta del Sordo, poiché sordo era il precedente proprietario. E sordo era anche Goya, da quasi trent’anni, in seguito a una malattia. Goya vi si trasferì nel 1819, e quasi vi morì, perché fu colpito da un’altra gravissima malattia (immortalata nello scioccante Autoritratto col medico Arrieta). Quando si riprese, dopo il 1820, decorò le pareti della casa con quattordici pitture murali, dipinte a olio sull’intonaco secco. Sono note come pinturas negras, sia perché prevale il colore nero, sia perché le immagini stesse hanno a che fare con la tenebra, la malinconia saturnina, il lato oscuro del mondo: processioni notturne, stregonerie, congiure, duelli mortali. Quelle pitture - giocate su registri che variano dalla satira all’allucinata poesia - Goya non intendeva venderle. Le dipinse per sé, ignorando il gusto della sua epoca, nella solitudine e nella libertà più totale. La sarabanda di figure inquietanti che evocò in un rito privato, quasi una cerimonia segreta di cui era sacerdote e destinatario, apre uno squarcio su ciò che sarebbe stata la storia dell’arte occidentale se i pittori avessero dipinto per sé e non per i committenti. Goya proiettò sulle pareti di casa sua una sorta di lanterna magica della psiche. Le immagini, ricche di riferimenti culturali, trasudano angosce personali e collettive e si offrono a molteplici interpretazioni. Ma qualunque cosa significassero per lui, Goya portò con sé la chiave per decifrarle. A tutt’oggi, restano un enigma.
Il Cane si trovava al piano superiore, a destra della porta. Se Goya aveva pensato a un itinerario dello sguardo, allora era l’ultima immagine che si donava prima di lasciare la stanza. Quella testa protesa nel vuoto dell’universo era dunque il senso del percorso stesso. La Quinta del Sordo fu ereditata dal nipote, e in seguito venduta. Le pitture murali deperivano e il banchiere francese che ne era divenuto proprietario, il barone Émile d’Erlangen, decise di traslarle su tela. Le presentò al pubblico per la prima volta all’Expo di Parigi del 1878: suscitarono spavento e stupore. Nessuno le acquistò e il barone si convinse a donarle al Prado, dove sono ancora. In previsione dello strappo, ordinò delle fotografie. Studiate recentemente, esse mostrano che le pitture non erano esattamente come ora le vediamo, e che alcuni particolari sono andati perduti. Nel Cane, per esempio, quella che oggi è solo un’ombra verticale, sul lato destro, era leggibile come una rupe e, in alto, si riconoscevano due uccelli. Dunque quel chiarore luminoso era un cielo, ed erano gli uccelli che il cane stava guardando. Ma ciò non toglie all’immagine la sua ambiguità. Perché se si può avere l’impressione che il cane stia annegando, può essere vero anche il contrario. Cioè che il cane stia invece emergendo. Che stia lottando contro una corrente contraria per salvare la sua vita. Una vita insignificante e fragile come quella di un misero cane: e però degna, orgogliosa e irriducibile. Alla fine, per me non c’è niente di più drammatico del cane di Goya. Un essere sconfitto, abbandonato, rimasto solo, senza branco e senza compagni, lotta contro una forza superiore, che lo artiglia, lo trascina, sta per annientarlo. Alza il muso, aspetta un aiuto che non arriverà, eppure non si arrende. È debole, destinato alla sconfitta. E però resiste. Se si può dipingere un autoritratto dissimile, è questo. Nessuno meglio del “cane nella corrente” incarna lo spirito di un pittore come Goya. Un uomo libero che volle provare e conoscere tutto il fasto della corte e la miseria del popolo, l’erotismo e la violenza, la ragione dell’illuminismo e l’irrazionalità, il sogno della democrazia e della libertà e il fanatismo nazionalista. Che ogni illusione vide perire distrutta dalla storia. Quando recise il contatto col mondo, rimase solo con la pittura. A questa rimase fedele fino all’ultimo giorno. Il cane, nella pittura occidentale, è simbolo di fedeltà. Il cane di Goya è una creatura che solo accidentalmente ha la forma di un cane. Rappresenta invece chi lo guarda. Ognuno - solo, perduto - davanti alla morte: all’ignoto.
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