lunedì 10 giugno 2013

Lesbia, mio disperato eterno amore


Elsa Morante

"Domenica - Il Sole 24 Ore", 9 giugno 2013

Gaio Valerio Catullo, poeta, da Verona, fu, al pari del suo concittadino Romeo, come tutti sanno, un amante infelice. Ma l'infelicità di Catullo fu, noi crediamo, assai più amara di quella di Romeo. Per un tenero amante, infatti, le crudeltà della sorte sono, sebbene feroci, più tollerabili tuttavia di quelle inflittegli dalla persona stessa ch'egli adora e da cui sola può venirgli il nettare, o il balsamo, o il veleno.
Due grandi consolazioni aveva Romeo Montecchio nella sua trista sorte: la prima, e suprema, quella di sapersi corrisposto da Giulietta; la seconda, quella di sentirsi un eroe da tragedia. Ora, il sentirsi eroi da tragedia consola di tante cose: gli eroi possono atteggiarsi in pose regali, declamare monologhi illustri… È concesso, infine, ai Romei, di morire fra le braccia di Giulietta, e, se i superstiti non saranno proprio spietati, di giacere nella medesima tomba. Ma nessuna di simili consolazioni toccò al povero Catullo: per lui soltanto la mortificazione e la vergogna, e i fittizi piaceri sempre contesi, sempre traditori, pagati ogni volta con lagrime umilianti. Il caso di Catullo fu, se non erriamo, di quelli che il vicinato sensibile suole commentare così: «Ah, che peccato! Quel pazzo Catullo avrebbe "tutto": è un bel giovane, di ottima famiglia, benestante, si fa onore coi versi. Ci sarebbero tante ragazze per bene che lo vorrebbero, e invece si perde con quella…»; e qui avrebbe posto una parola di più, che preferiamo non trascrivere, perché verrebbe cancellata dai censori.
Com'era, Catullo, di aspetto? Confessiamo che, dal tempo della scuola, non ci siamo più occupati molto di lui, né abbiamo, nella presente occasione, consultato le Storie per cercarvi una descrizione veritiera di questo infelice poeta. Per cui seguiteremo a raffigurarcelo come ci piacque pensarlo allora, al tempo che avevamo quattordici anni di età. Grazioso, ma un po' sbattuto e pallido, sia per la passione che lo strugge, e sia per la morte che lo incalza e lo raggiungerà ai suoi trent'anni. Senza contare la vita disordinata che ama condurre, e le cattive compagnie che frequenta e alle quali, nelle sue poesie, non risparmia ogni sorta di contumelie e parolacce. È di un'eleganza un po' trasandata, e i suoi capelli son profumati d'unguenti, ma spesso, tuttavia, scomposti. Ha, insomma, la spavalda e patetica apparenza di quei personaggi romantici che cercano di castigare nel libertinaggio le loro difficili passioni.
E Lesbia, com'era? Gli storici affermano che in realtà si chiamava Clodia, ed era bellissima e corrottissima. Sebbene fosse una donna maritata, Catullo la chiama mea puella, «la mia ragazza». E da principio, nei suoi versi, Lesbia si mostra in atti così delicati da farsi davvero credere una buona ragazza, e non la donna infame ch'è passata alla storia. Il suo ritratto più famoso, che pure i bambini conoscono, ce la dipinge puerile e affabile mentre gioca col suo amico passerotto, che le mordicchia il dito. E quando, per sua mala sorte, il passero muore, Lesbia è un'immagine di materna pietà: «Gli occhietti della mia ragazza» racconta l'attristato Catullo «son gonfi e rossi dal piangere».
Ben più maliziosa si dimostrò, in una occasione analoga, la «donna cattiva» d'un altro poeta. Alludo alla Eugène di Verlaine; la quale, mortole l'adorato fringuellino, dopo averli dato essa stessa gloriosa sepoltura nel Pantheon, non poté tenersi dall'osservare: «Forse, conveniva meglio metterlo sul mio cappello!».
Dicevamo che da principio Lesbia è tutta grazie e generosi abbandoni, e Catullo, quasi presentando il breve corso dei suoi piaceri, vorrebbe accumularli senza tregua, con avarizia smaniosa e forse già disperata: «O Lesbia mia, i soli seguiteranno a sorgere e tramontare; ma a noi, tramontato una volta per sempre la nostra breve luce, toccherà dormire una eterna notte. Oh, dammi mille baci, e poi altri cento, e poi mille ancora, e poi cento altri ancora. E adesso, tutte queste migliaia di baci, mischiamole insieme in fretta, senza contarle, per paura che l'invidia, al conoscere un tal numero di baci, non ci getti la mala sorte». I timori superstiziosi di Catullo han presto ragione. Incominciano le discordie e quelle separazioni che, sebben passeggere, paiono ogni volta definitive e fatali agli amanti, cui nessuna esperienza basta: «Ah, miserabile Catullo!» grida il poeta a se stesso «finiscila di fare il pazzo e rassegnati a considerare perduto ciò che non tornerà mai più. Per te splendettero un tempo candidi soli, esisté un tempo in cui, dovunque la ragazza fra tutte più amata ti conducesse, là tu andavi. E una volta solo con lei, facevate insieme quei giochi squisiti che tu volevi, e lei non disvoleva. Allora, allora splendettero candidi soli per te. Adesso lei non vuol più saperne; e dunque, poiché non v'è altro da fare, o Catullo, fatti forza e non voler più saperne tu pure. Non correre dietro a chi fugge, e non cedere a questa angoscia. Resisti, fatti un animo risoluto, sii inflessibile. Addio, fanciulla. Catullo ormai è inflessibile, non ti cercherà e non ti pregherà se tu rifiuti. E tu, quando non sarai più pregata, incomincerai a rimpiangere. Ah, guai a te, poverina! Quale vita ti resta! Chi verrà dunque a cercarti? a chi sembrerai bella? chi amerai? a chi dirai: "sono tua" ? chi bacerai? Basta; ma tu, Catullo, bada, non cedere, sii inflessibile».
Simili accenti son certo pietosi, ma si avverte in essi, tuttavia, un sapore di scherzo e d'idillio e, di là dal drammatico litigio, s'intravvede la riconciliazione. Ma quale amarezza nuova ci svela il Carme Undicesimo, là dove Lesbia è smascherata e la spaventosa realtà si spoglia d'ogni lusinga! Ivi Catullo prega compagni e amici di gridare a tutti i venti, sì che penetri fin tra gli ircàni e gli arabi, e valichi le Alpi, e corra alla Gallia e alla Britannia remota, questo messaggio che lui medesimo, Catullo, manda a Lesbia: «Viva ella e prosperi coi suoi trecento amanti, che abbraccia tutti in una volta, non amandone alcuno. E non si curi più dell'amore mio, che per sua colpa è caduto come il fiore del prato che l'aratro schiaccia passando».
Dopo un tal messaggio dell'infelice Catullo i «candidi soli» son davvero tramontati per sempre. Anche se un sole si riaffaccerà talvolta sui miraggi dell'amante, sarà un sole infido, presto infestato da torbide nubi o accecato da eclissi nere. Ormai la preziosa Lesbia che già vedemmo profumata d'unguenti a lei forniti da Veneri e Amori, non disdegna di scendere a gozzovigliare fin nelle taverne. E la già pretesa impassibilità di Catullo fu una chimera; ché egli non sa ricacciare l'indegna gelosia dinanzi a tali infamie, e va tempestando in giro. Simile, ahimè, piuttosto a un Don Chisciotte gesticolante che un vindice Otello: «Ah, voi, gentaccia d'osteria» grida egli ai suoi trecento rivali «la mia ragazza se n'è fuggita dal mio petto e siede nella vostra taverna schifosa. Ma, perché siete due o trecento in fila, credete di farmi paura, scemi? Illudetevi, illudetevi pure; e vedete invece se non vi romperò il muso coi bastoni a tutti quanti». Altrove, poiché la promessa del bastone si rivela insufficiente a sterminare i suoi rivali, Catullo ricorre a un'arma più acconcia ai poeti: minaccia di usare i suoi giambi. Ma nessun'arma è buona a polverizzare la stirpe degli amanti di Lesbia: che sembra moltiplicarsi, al pari della magnanima stirpe di Remo, e pullulare intorno alla infedele per trivii e angiporti. Né si creda che un simile spettacolo serva a guarir dall'amore l'affascinato Catullo. Al contrario, i «candidi soli» si sono ormai trasformati in un astro maledetto che abbaglia Catullo di giorno e di notte coi suoi splendori ambigui.
Sarebbe lungo ripetere tutte le elegie, le invettive, i sospiri dell'inguaribile amante. «Odio e amo» egli va dicendo «bestemmio Lesbia, eppure ch'io possa morire se non l'amo». Ma tradurremo infine, ecco qui, il suo canto più patetico, nel quale con semplici modi egli racconta il proprio romanzo a Lesbia, e per essa a tutta la popolare progenie delle Grete, Marlène e Rite. (Chi dunque, fra costoro, potrà ascoltare una simile confessione a occhi asciutti?).
«O Lesbia, tu dicevi un tempo di non aver conosciuto altro uomo fuor di Catullo, e che non mi avresti preferito neppure lo stesso Giove. Allora io mi affezionai a te non al modo che il volgo suole affezionarsi all'amica, ma come un padre s'affeziona ai figli e al suo proprio sangue. Adesso t'ho conosciuta; e, in conseguenza, brucio più di prima per te; ma pure tu sei per me una cosa molto più leggera e vile. Come può essere?, dici tu. Perché, ti rispondo, un'offesa come quella che tu m'hai fatto costringe l'amante ad amare di più, ma a voler bene di meno».

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IL LIBRO 
La tiratura è di 375 copie cucite a mano e numerate in macchina, stampate su carta Zerkall Bütten, con caratteri Garamond monotype corpo 11, formato cm 12 x 18,50, per un totale di 28 pagine. Il testo della Morante era comparso per la prima volta nell'antologia Storie d'amore (Edizioni radio italiana, 1950) insieme ad Ero e Leandro di Massimo Bontempelli (anche questo edito da Henry Beyle) e ad altri brevi interventi di Bassani, Trompeo, Valeri, Tecchi, Jovine, Maria Bellonci.

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