La biografia di Simon Norton autore di scoperte decisive
e inventore degli “scacchi” a tre giocatori
Piergiorgio Odifreddi
"La Repubblica", 26 giugno 2013
Se uno vuole giocare a scacchi su una sola scacchiera, può farlo solo con un altro giocatore per volta. Lo sanno tutti, eccetto coloro che, non adattandosi all’evidenza dei fatti e alla necessità delle cose, decidono di inventare una versione degli scacchi a tre giocatori. E per farlo, concepiscono una scacchiera a caselle romboidali di tre colori, adattano opportunamente i pezzi e le regole di mossa e di cattura, e incominciano a divertirsi con un nuovo tipo di scacchi a tre giocatori, invece che a due.
Questa capacità di “cambiare le regole del gioco” è uno dei modi in cui si estrinseca la creatività, fino ai limiti estremi della genialità. Nel caso degli scacchi ci si cimentò persino Bobby Fisher, che pure non giocava male alla versione usuale. Egli propose infatti una nuova versione del gioco, oggi chiamata appunto “scacchi di Fisher”, che mantiene la scacchiera, i pezzi e le regole solite: come unica eccezione, si dispongono agli inizi i pezzi in maniera casuale, sulle prime due righe, invece che nella maniera normale.
Fisher era certamente un genio, con tutti i vantaggi e gli svantaggi che questo comporta. E lo è anche l’inventore degli scacchi a tre giocatori: il matematico inglese Simon Norton, di cui è appena uscita la biografia Un genio nello scantinato di Alexander Masters (Adelphi). Naturalmente, uno degli svantaggi che il genio comporta è di essere e rimanere “incompreso” dalle persone comuni: in particolare, da coloro che ne scrivono le biografie senza essere all’altezza delle vette che vogliono scalare. E il rischio esiste per il biografo di qualunque genio: se non altro, perché in genere gli altri geni si dedicano alle proprie attività, e non alla scrittura delle biografie dei loro rivali in genialità.
Per fare un esempio concreto, ogni volta che si parla di un altro genio della matematica, l’indiano Srinavasa Ramanujan, tutti raccontano questo famoso aneddoto, che viene ripetuto anche dal biografo di Norton. Un giorno che era ammalato, l’indiano ricevette una visita del matematico inglese Godfrey Hardy, che gli disse di essere arrivato con un taxi dal numero poco interessante: 1729. Ramanujan rispose immediatamente che invece si trattava di un numero molto interessante, essendo il primo che si può scrivere in due modi diversi come somma di due cubi: rispettivamente, 12 al cubo (1728) più 1 al cubo (1), oppure 9 al cubo (729) più 10 al cubo (1000). Stupore generale, soprattutto dei biografi! I quali non sanno, e se lo sanno (come Hardy) non lo dicono, che qualunque studioso dei numeri degno di questo nome, e soprattutto uno sommo come Ramanujan, poteva non metterci molto a fare questa associazione. I cubi di 9 e di 12 si imparano infatti già alle elementari, e i teorici dei numeri non li dimenticano, anche perché li usano spesso. I cubi di 1 e di 10 sono invece delle banalità, anche per i non addetti ai lavori. Dunque, la cosa non è così sorprendente come può apparire a prima vista. E non è un caso che sia proprio il 1729 a ricomparire nelle gesta di un altro genio dello scorso secolo: il fisico Richard Feynman, che nella sua autoagiografia Sta scherzando, Mr. Feynman! (Zanichelli, 2007) racconta un episodio che gli successe in una bettola brasiliana, quando un avventore che non sapeva con chi aveva a che fare lo sfidò a fare radici cubiche, e “per combinazione” gli propose quel numero come test.
È chiaro comunque che, poiché anche piccole osservazioni matematiche come queste possono risultare presto eccessive per un lettore generico, di libri o di giornali, le biografie dei geni non vanno molto oltre aneddoti come quelli citati. Col risultato, com’è appunto il caso di Un genio nello scantinato, di concentrarsi soltanto sugli aspetti più folcloristici della vita di una mente eccelsa, all’insegna del benevolo motto “genio e sregolatezza”, o del più crudo “genio e follia”. Il più noto esempio recente di questa banalizzazione dell’intelletto a favore dell’eccentricità è sicuramente il film A beautiful mind, che narra la tragica storia del matematico John Nash. Romanzando la sua schizofrenia, fino al punto di inventarsi allucinazioni visive che egli non ha mai avuto. Ma lasciando lo spettatore nel dubbio atroce di cosa mai egli abbia potuto fare per mancare di un soffio la medaglia Fields per la matematica, nel 1958, e vincere un premio Nobel per l’economia, nel 1994. La biografia di Simon Norton prosegue in questa scia, dettagliando fino alla nausea caratteri secondari quali la sua trasandatezza e il suo disordine, o abitudini balzane quali le sue continue peregrinazioni sugli autobus, ma lascia il lettore nell’altrettanto atroce dubbio di cosa mai egli fatto in matematica, per meritarsi l’onore di una biografia. E cerca di distrarre da questa mancanza con impaginazioni “creative”: come alle pagine 152-153, che contengono solo la parola “cavolo” in varie dimensioni e caratteri. O con sospette rivendicazioni, quali: «la biografia è il modo in cui l’autore sceglie di rappresentare quelli che per lui sono i fatti», e «riguarda talmente poco il soggetto, che è meglio fingere che esso non esista e inventare le sue risposte ». Forse per ingenuità, Masters infarcisce il racconto con le giustificate proteste del matematico, che non riconoscendosi nelle descrizioni si lamenta dicendogli: «se posso accettare il concetto di licenza d’autore, non vedo alcun motivo valido per molti degli errori fattuali che hai inserito». O: «sarebbe meglio se i lettori potessero acquisire un minimo di informazioni utili dal tuo libro ».
Ciò che emerge dalle nebbie di questa caricaturale invenzione letteraria è che Simon Norton è stato un bambino prodigio, il cui primo ricordo riguarda il calcolo delle potenza di 2 fino alla trentesima: che, per la cronaca, è 1.073.741.824. Benché l’autore dichiari che per lui «dai dodici anni in su Simon è incomprensibile», il bello viene ovviamente dopo. Anzitutto alle superiori, a Eton, quando Norton vinse per tre volte consecutive la medaglia d’oro alle Olimpiadi di matematica, stabilendo una volta il record assoluto del punteggio pieno e senza errori. O all’università, a Cambridge, dove egli entrò con vari anni di anticipo rispetto alla norma. Ma soprattutto da ricercatore, quando insieme all’altro genio John Conway studiò le proprietà di un oggetto matematico singolare, chiamato non a caso “il mostro”: un insieme di circa 10 alla 54 elementi, con un’operazione definita da una tabella avente altrettante righe e colonne, e rappresentabile in uno spazio a 196.883 dimensioni. Una congettura a proposito di questo oggetto, enunciata da Conway e Norton, fu dimostrata nel 1992 da Richard Borcherds, in un lavoro che gli valse la medaglia Fields nel 1998.
Di tutto questo Un genio nello scantinato non lascia che trasparire qualche flebile traccia, ma forse non dobbiamo preoccuparci troppo. Infatti, «solo un computer può apprezzare i sonetti scritti da un computer», disse il genio dell’informatica Alan Turing, e ripeté il letterato Raymond Queneau nell’esergo dei suoi Centomila miliardi di poemi. Analogamente, solo un genio può apprezzare i pensieri di un genio. Gli altri, cioè le persone normali come noi, devono accontentarsi delle biografie: tutte inadeguate, come un sonetto che cerca inutilmente e impotentemente di descrivere il sorgere del Sole o il sorriso di un bambino.
Nessun commento:
Posta un commento