giovedì 13 giugno 2013

Elogio della follia. Nella schizofrenia il segreto della letteratura


Perché racconto i segreti della follia
Lo scrittore racconta come è nata la vocazione 
a mettere il disagio mentale al centro della sua opera

Patrick McGrath

"La Repubblica", 12.6.13

Uno psichiatra mi ha iniziato alle riflessioni sulla follia quando avevo otto anni. Era mio padre. Per venticinque anni è stato direttore del Broadmoor, un ospedale psichiatrico di massima sicurezza vicino a Londra. Non ho mai sofferto di schizofrenia, ma da ragazzino ho imparato da lui molte cose su questa malattia. Dico “malattia”. Oggi si pensa che la schizofrenia sia un insieme di sintomi collegati fra loro, più che una singola patologia: una sindrome, non una malattia. Un tempo si credeva che comportasse una personalità divisa, ma mio padre mi spiegò che più esattamente lo schizofrenico era caratterizzato da una personalità frantumata. Potrebbe essere stata quella conversazione, o una simile, a mettermi sulla strada per scrivere la follia.
Ricordo che una volta, da giovane, ero con lui al crepuscolo, attraversavamo un cortile all’interno delle mura di Broadmoor. Un grido giunse dalle finestre in alto del Blocco Sei. Lì andavano i nuovi arrivati, uomini che per la maggior parte, in preda alla psicosi, avevano commesso atti di grande violenza, spesso omicidi. Ma non era un grido di demenza furiosa quello che sentii quella sera; era un grido che esprimeva la più profonda infelicità.
«Povero John», disse mio padre, e io capii che lui capiva la sofferenza del suo paziente, e il fatto che capisse privava il grido del suo carattere spaventoso. Per poter scrivere la follia bisogna prima riconoscere l’umanità di chi soffre, e poi stabilire perché soffre.
Le mie prime letture sono state in gran parte racconti horror. Divoravo i libri di Algernon Blackwood, M. R. James e Sheridan Le Fanu, e più tardi quelli di Ambrose Bierce e Edgar Allan Poe, che svilupparono in me un gusto duraturo per la letteratura gotica. In seguito giunsi alla conclusione che con Poe si ebbe nella storia del gotico un momento di svolta, quando il genere largamente identificato con i fenomeni soprannaturali si rivolse alle disfunzioni psicologiche e scoprì nella mente che si disintegra un filone d’oro nero. Con Poe, infatti, la dote e la funzione particolare della narrativa gotica divenne l’esposizione dei meccanismi inconsci. Un mondo di incubi e fantasmi, di sublimazione, regressione e spaesamento, di Doppelgänger e altri mostri dell’Id fu abbondantemente esplorato più di un secolo prima che Freud organizzasse il materiale in base a una teoria e scrivesse la follia dall’interno di un paradigma scientifico. La teoria psicoanalitica e i case studies che la puntellano sono la continuazione del romanzo gotico con altri mezzi.
Nei suoi racconti horror Poe offrì al mondo una bella collezione di nevrotici, paranoici e psicopatici. Penso in particolare ai narratori dementi del Cuore rivelatore e del Gatto nero, e anche a Roderick Usher e a William Wilson. Ma non credo che nessuno dei personaggi di Poe sia spaventosamente pazzo quanto Montresor, colui che narra La botte di Amontillado.
Il resoconto, da parte di Montresor, della sua esacerbata amicizia con un uomo di nome Fortunato incomincia, nella prima frase del testo, con una minaccia. «Le mille offese di Fortunato le avevo sopportate come meglio potevo, ma quando arrivò all’insulto giurai di vendicarmi». Che ricchezza patologica rivelano queste parole! – giacché ben presto appare chiaramente che le “mille offese” di cui parla Montresor sono per lui meno gravi dell’“insulto” che dichiara di aver subito.
Che cosa sono dunque queste mille offese? Sono gesti di disprezzo? Allusioni, magari, accenni e sussurri? Man mano che il racconto si dipana, con crescente disagio incominciamo a capire che è a causa di questo disprezzo, e dell’insulto che ne consegue, che Montresor ha murato l’amico nelle cantine di un palazzo veneziano in rovina e l’ha lasciato lì a morire. Questo è uno scrivere la follia di altissimo livello.
È anche uno dei primi buoni esempi di narratore inattendibile. Dopo averci introdotto nella paranoia di Montresor con quella prima frase, Poe non ci lascia più scampo. Come il povero Fortunato, anche noi siamo rinchiusi in una struttura soffocante da cui solo la morte – o la fine del racconto – può liberarci. Fino a quel momento, siamo prigionieri di una logica perfetta, se non fosse che è costruita su una premessa falsa, folle.
I miei esperimenti, nell’arte oscura di scrivere la follia, incominciarono con un romanzo che riecheggiava alla lontana Poe. Voleva essere il semplice racconto di un idraulico londinese che uccide la moglie per potersi portare in casa l’amante, una prostituta. Ebbi l’idea di far raccontare la storia al figlio bambino dell’idraulico. Poi decisi che il bambino doveva ricordare questi fatti da adulto, ma che la sua rievocazione non corrispondeva a ciò che era accaduto. Poi mi venne in mente che il mio narratore non fosse semplicemente inaffidabile, ma psicotico. Soffriva di schizofrenia.
Qui il problema di scrivere la follia mi si presentò per la prima volta forte e chiaro.
La narrativa d’invenzione e la psicosi sono entità che si escludono a vicenda. Il figlio del mio idraulico non possedeva l’agghiacciante rigore intellettuale del Montresor di Poe, ma era nondimeno malato, una creatura disorganizzata i cui pensieri saltavano di palo in frasca a seconda di ciò che gli era intorno e delle associazioni apparentemente casuali che scattavano nella sua mente confusa. Soprannominato “Spider” dalla madre – prima della morte prematura di costei – il suo cervello non curato era un insieme incoerente di irrazionalità, allucinazioni e illusioni sensoriali.
Immaginai che il mio personaggio, Spider, sprofondasse nella follia per tappe, e in conseguenza di un’ipotesi sbagliata. Immaginai che tornasse nel quartiere orientale di Londra in cui era cresciuto, un uomo sparuto, che parla da solo e che nel suo vagabondare solitario si accorge che il suo sguardo è attratto in maniera irresistibile dall’incombente struttura circolare di un gasometro, una vista non insolita in quella parte della città. E che lo riempie di orrore. Immaginai anche che, anni prima, sua madre fosse tornata a casa dal pub una sera tardi, si fosse addormentata in cucina e fosse morta per le esalazioni del gas. Il lettore però lo scopre solo dopo un po’.
Una notte, mentre Spider è seduto nella sua squallida stanza in un centro di accoglienza della zona, percepisce un odore sgradevole. Si accorge che proviene da lui stesso e che è odore di gas. Si strappa di dosso i vestiti e sì, non c’è dubbio: è gas!
Il lettore capisce che per quest’uomo fragile e disturbato il gas ha un significato terribile. Ma perché? Quella notte Spider prende i fogli di giornale ingiallito che rivestono i cassetti della sua stanza e se li attacca sul torace con della plastilina e dello spago. Quando è avvolto nei giornali dal collo all’inguine si rimette i vestiti, tutti i vestiti, per sopprimere meglio che può quell’odore raccapricciante.
In seguito giungerà a convincersi che puzza di gas perché sta andando a male dentro. I suoi organi stanno atrofizzandosi e marcendo, incominciano a scomparire – e così via. A questo punto spero che il mio lettore veda Spider non come un mostro di irrazionalità, e neanche come un triste caso di comune follia. No, io vorrei che il lettore interpretasse il tormento di Spider, comprendesse come la convinzione di puzzare di gas sia connessa alla certezza della propria cattiveria, della propria colpa. Sembra roba da matti, e lo è. Ma nessuno psichiatra che abbia curato la schizofrenia resterà sorpreso da questa fioritura di illusioni sensoriali.
Mentre facevo ricerche sulla schizofrenia mi sono imbattuto in una frase de L’Io diviso di R. D. Laing, forse il miglior testo sulla schizofrenia mai scritto. Lo schizofrenico, diceva Laing, «muore di sete in un mondo d’acqua». Io vedevo un uomo che viveva in un quartiere di Londra, ma così isolato, così profondamente separato, da non riuscire a stabilire contatti umani e a conoscere l’amore, o anche l’amicizia, o anche il semplice calore che si ricava dalla normale interazione quotidiana con gli altri. Spider muore di sete in un mondo d’acqua e per uno scrittore della follia questa era un’intuizione senza prezzo.
(Traduzione Alberto Cristofori)

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