Riti esoterici, miti e terapia: così Greci e Romani spiegavano la vita onirica
Maurizio Bettini
"La Repubblica", 14 giugno 2013
«Due sono le porte dei sogni fluttuanti, una è fatta di corno, l’altra di avorio. I sogni che attraversano l’avorio tagliato sono ingannevoli, portano vani messaggi; ma quelli che varcano la soglia di lucido corno dicono il vero, quando un mortale li vede». Benché enigmatici, o meglio proprio perché tali, questi versi dell’Odissea esprimono già perfettamente l’ambivalenza, se non l’inquietudine, che caratterizza il fenomeno onirico nel mondo antico. Quando ci si sveglia, infatti, come si fa a sapere se ciò che si è “visto” (i Greci i sogni li “vedevano”, non li “facevano”) è uscito dalle porte di avorio o dalle porte di corno? Nessuno può dirlo. Il sogno è ambiguo, lascia intendere, ma non dà certezze. Se premoniva o meno, e se la premonizione era fondata o falsa, solo il tempo potrà confermarlo.
Ed ecco entrare in scena l’Enea di Virgilio. Compiuto il suo viaggio oltremondano — che gli ha fatto incontrare l’ombra muta e sdegnosa di Didone, quella affettuosa del padre, perfino i futuri eroi della città di Roma — Enea si appresta finalmente a rivedere la luce: «Due sono le porte del sogno» spiega il poeta «la prima, si dice, è di corno, da dove le ombre vere hanno facile uscita; splende l’altra di candido avorio, ma da qui i Mani inviano al cielo sogni ingannevoli. Anchise, parlando, accompagna il figlio assieme alla Sibilla, e dalla porta d’avorio li fa uscire».
Omero non ci aveva detto dov’erano le fatidiche porte, Virgilio ci rivela che sono all’Ade. Le immagini che popolano le nostre notti altro non sarebbero, dunque, se non simulacri sfuggiti dal regno dei morti? Non basta. La cosa che più colpisce è un’altra: perché mai Enea, quando abbandona l’Ade, viene fatto uscire dalle porte di avorio, quelle da cui escono i sogni fallaci? Come si può immaginare questa oscura precisazione virgiliana ha suscitato le spiegazioni più disparate. Forse Virgilio aveva semplicemente sbagliato porta? Difficile crederlo. Dato poi che, come sappiamo, le ombre false escono prima della mezzanotte, secondo alcuni Virgilio avrebbe semplicemente inteso dire che Enea era uscito dall’Elisio prima di allora.
Ma possibile che il poeta avesse escogitato un episodio così affascinante, così enigmatico, solo per dire che ore sono? Proviamo piuttosto a chiederci: se Enea esce dalle porte da cui escono i sogni ingannatori, questo mondo dei morti l’ha visitato davvero? E ancora: forse Virgilio intendeva addirittura insinuare il sospetto che non solo il viaggio di Enea, ma lo stesso Ade da lui descritto altro non era se non un sogno fallace? Se così fosse, ci troveremmo di fronte a uno dei numerosi casi in cui la poesia dichiara la propria meravigliosa falsità.
Sia come sia, queste antiche porte danno ora il titolo a uno fra gli studi più completi che il sogno dei Greci e dei Romani abbia mai ricevuto: William V. Harris, Due son le porte dei sogni. (“L’esperienza onirica nel mondo antico”, Laterza). Harris, professore di Storia antica alla Columbia University, ha esplorato in lungo e in largo l’universo di credenze, teorie, aneddoti ed epifanie in cui Greci e Romani hanno racchiuso la propria esperienza onirica. Il fatto è che nell’antichità il sogno ha interessato tutti. I poeti che ne narrano le meraviglie e i medici che non solo elaborano teorie per spiegarne l’origine, ma li trasformano addirittura in terapia. Elio Aristide, un retore greco del II secolo d. C., ci ha anzi lasciato un minuzioso diario delle sue esperienze terapeutiche presso il santuario/ospedale di Asclepio, dove il mal di pancia si alterna con le visioni del dio, e l’onirica prescrizione dell’assenzio con i bagni, sempre oniricamente imposti, nell’acqua gelata. Ci si stupisce anzi che, a dispetto di ciò, Aristide fosse campato fino a ottant’anni.
Poi naturalmente vi erano i filosofi, come Platone, che attraverso l’impalpabile sostanza dei sogni cercavano di esplorare le profondità dell’“anima”, e con loro gli interpreti come Artemidoro di Daldi che elaboravano arzigogolati prontuari onirici capaci, alla maniera della Smorfia, di fornire risposte alle domande di inquieti sognatori. Che cosa significa sognare una capra? Niente di buono. Questi animali infatti son tutti dannosi, né favoriscono nozze o amicizie. Non è forse vero che le capre pascolano l’una lontano dall’altra e al pastore procurano solo difficoltà, quando si tratta di radunarle?
«Capita spesso» spiegava ancora Artemidoro «che un’intera città o un’intera comunità sogni la stessa cosa». Per quanto ciò possa sembrarci strano, l’esperienza onirica antica non è solo individuale, può essere anche collettiva. Difficile dire se questo misterioso potere del sogno possa dar conto di un’altra singolare coincidenza. Da Cortina è uscito un altro libro dedicato allo stesso tema: Il compagno dell’anima (“I Greci e il sogno”), di Giulio Guidorizzi. Forse i due autori, o i due editori, avevano ricevuto (in sogno) la medesima ispirazione? Fatto sta che questo saggio di Guidorizzi — uno dei migliori conoscitori non solo del sogno antico, ma della cultura greca in generale — non si sovrappone affatto a quello di Harris, piuttosto lo completa. Tanto quanto il primo procede attraverso una messe impressionante di dati, alternandoli con i risultati della ricerca più recente nel campo della cultura antica — non che con brillanti ironie anglosassoni — il secondo predilige invece un discorso fluido, compatto, profondo nella sua apparente semplicità.
L’accurato esame delle testimonianze greche emerge così da un tessuto che serba memoria di Freud, di Jung, di Schnitzler, ovvero del Sogno della camera rossa, il romanzo cinese del XVIII secolo. Quello in cui Pao-Yu sognò di essere se stesso, nel suo stesso giardino, e di incontrare due ancelle perfettamente simili alle sue, che si stupirono di vederlo lì. «Pao-Yu, come hai fatto a venire fin qui? » gli avevano chiesto. Allora Pao-Yu era entrato in una casa, perfettamente simile alla sua, dove aveva visto un giovane addormentato. «Perché sospiri, Pao-Yu, stai forse sognando? » avevano chiesto le ancelle al dormiente. «Sì» aveva risposto il secondo Pao-Yu «stavo facendo un sogno molto strano. Mi pareva di essere nel mio giardino…». E questo infinito gioco di specchi rivela forse la natura più intima e più segreta del sogno.
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