Vittima dell'avidità e in conflitto con i surrealisti e la modernità
manipolando la sua arte depistò i giudici, i mercanti e se stesso
Tommaso Pincio
"Corriere - La Lettura", 2 giugno 2013
La vicenda è assai nota nell'ambiente dell'arte. All'epoca ebbe una risonanza internazionale, vuoi per la notorietà delle persone coinvolte, vuoi perché su di essa pesava l'ipotesi di un complotto. Il principale attore le dedicò ampio spazio nelle sue memorie, uno spazio pari a quello che riservò agli anni cruciali della sua vita, gli anni compresi tra il 1911 e il 1915, quelli che Giorgio de Chirico (giacché di lui parliamo) trascorse per lo più a Parigi, dipingendo opere destinate ad avere un'incidenza fondamentale sugli sviluppi dell'arte contemporanea.
Il fatto in questione risale però all'immediato secondo dopoguerra. Era un pomeriggio d'aprile del 1947 quando una signora si presentò nello studio dell'artista per mostrargli una Piazza d'Italia, ossia un tipico esempio della pittura metafisica che egli era andato elaborando proprio nel suo periodo parigino. La firma datata sulla tela diceva infatti: «1913». Appena vide il quadro, de Chirico comprese però che si trattava di un falso e, d'imperio, lo sequestrò: «Il meno che potevo fare era di fermarlo onde non circolasse più. Non l'avessi mai detto: quella signora cominciò a strillare e a dire che quello che volevo fare era una cosa gravissima, che il quadro era stato affidato a lei, che lei ne era responsabile, che il quadro aveva un valore enorme, ecc. ecc.».
Per chi compra arte o se ne fa garante, per chi colleziona o si dichiara esperto, quel che de Chirico liquida con un «ecc. ecc.» è l'insidia peggiore. E non sono tanto i danni materiali, ai quali in fondo si può trovare rimedio, quanto quelli morali, il vero problema. Lo smacco, l'umiliazione, la perdita di credibilità. Diceva Friedrich Winkler, storico dell'arte, che per affinare la propria capacità di distinguere ciò che è autentico, il migliore esercizio è riconoscere ciò che è falso. Ed è così. Disquisendo attorno alle opere autentiche si corrono rischi scarsissimi. Sull'effettiva bellezza di un'opera autentica si può bisticciare all'infinito, come pure sul suo significato, su quel che l'artista ha inteso comunicare. Ma quando ci si imbatte in un falso, le opinioni contano poco o nulla. Un'opera o è buona o non lo è. Non riconoscere un falso significa annientare d'un colpo la propria reputazione di intenditore, di connoisseur a vario titolo.
Ferite che lasciano cicatrici. Il grande pubblico ancora sghignazza se ripensa alla sicumera con cui certi critici insigni scorsero la mano di Modigliani in tre false sculture riemerse dalle acque di un canale livornese. Meno noto, ma ancor più sconcertante, è l'infortunio capitato al Victoria Museum di Melbourne; soltanto nel 2007 si è scoperto che un Van Gogh orgogliosamente esposto nelle sue sale per ben 67 anni era un falso. In realtà, si dovrebbe essere più comprensivi. Riconoscere un'opera d'arte contraffatta è a sua volta un'arte. Un'arte difficile per di più. Persino più difficile dell'arte della falsificazione stessa, che pure richiede abilità non indifferenti. Non per nulla Eric Hebborn, leggendario contraffattore inglese scomparso nel 1996, ricorda che in passato «non soltanto gli artisti si formavano eseguendo copie e imitazioni, ma anche gli studiosi e tutti coloro che volevano diventare esperti». Tirando per i capelli il principio di Aristotele per cui l'arte è in primo luogo imitazione, il famigerato Hebborn cercò di nobilitare il proprio mestiere sostenendo che la sola differenza tra artisti e falsari è che i primi imitano la natura, mentre i secondi imitano l'arte.
Il caso de Chirico è tuttavia più ingarbugliato. L'eccetera eccetera ebbe un lungo strascico fatto di carte bollate, tribunali e verdetti contrastanti. L'artista sbandierò ai quattro venti la sentenza della Cassazione per avvalorare il teorema che l'ossessionava da tempo: erano i surrealisti a invadere il mercato di sue tele apocrife e ciò allo scopo di screditarlo. In prima istanza, però, i giudici si erano espressi diversamente, stabilendo che il pittore aveva mentito. Ma, se così stavano davvero le cose, perché mai l'artista avrebbe negato l'autenticità del dipinto? E soprattutto: perché mai gli premeva tanto toglierlo dalla circolazione?
Domande cui danno risposta definitiva Paolo Baldacci e Gerd Roos, profondi conoscitori del maestro, che hanno ricostruito la vicenda in Piazza d'Italia. Con un piglio da legal thriller, il libro (pubblicato da Scalpendi Editore per conto dell'Archivio dell'Arte Metafisica, in libreria da domani, pagine 112) risolve un mistero dell'arte moderna e fa luce sul lato oscuro di un genio. Racconta la storia di un uomo dal carattere fragile e irriflessivo che per turlupinare galleristi e collezionisti divenne il principale falsario di se stesso. Ai «veri» falsi che già inquinavano il mercato, si aggiunsero quindi i falsi veri realizzati da de Chirico stesso. Da un certo momento in poi, il pittore cominciò infatti a realizzare copie del periodo metafisico delle Piazze d'Italia. Copie spesso mal dipinte che retrodatava per venderle a un prezzo più alto, perché il periodo metafisico era quello che tutti volevano. Lo fece sia per lucro, ovvio, sia per vendicarsi del mondo, della modernità che detestava. Così facendo si screditò, ma dimostrò al contempo che il falso può avere un suo doppio, qualcosa di autentico che, alla maniera di un lapsus, lo rende più rivelatore del vero.
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