lunedì 8 luglio 2013

Da Svevo a Moravia, classici autoprodotti

Luca Mastrantonio

"Corriere - La Lettura", 7 luglio 2013

Nella biblioteca della grande letteratura c’è uno scaffale lungo e sottile che s’imbarca sotto il peso di nomi importantissimi. È quello dei libri pubblicati a spese dell’autore. Scaffale che crea un doppio problema al dibattito sul self-publishing: da una parte crea malcelati imbarazzi a chi è ideologicamente contrario, in nome della qualità, dall’altra fornisce alibi di ferro a chi è favorevole.
Qualche nome? Edgar Allan Poe e Walt Whitman. Il primo esordì a sue spese nel 1827 con Tamerlano e altre poesie; il secondo pagò di tasca sua, nel 1855, l’uscita di Foglie d’erba. E poi, in un’intervista del 1888 alla rivista «The Signal», invitò gli aspiranti poeti a diventare stampatori esperti perché chi scrive testi non conformisti può aver bisogno di pubblicarli da sé — o a proprie spese. Scelta cui ricorse, tra gli altri, Marcel Proust per il primo volume della Recherche (Dalla parte di Swann, 1913). In Italia, un abbonato all’editoria a pagamento era Italo Svevo, che pubblicò a proprie spese Una vita (1892) e Senilità (1898) presso l’editore triestino Ettore Vram (una copia di Senilità è stata recentemente battuta per la cifra record di 32.500 euro), mentre il suo capolavoro, La coscienza di Zeno, uscì nel 1923 dal bolognese Cappelli, sempre a pagamento. Autoprodotti anche gli esordi di Umberto Saba, Poesie (1911), i Canti orfici (1914) di Dino Campana e Gli indifferenti (1929) di Alberto Moravia.
Il catalogo potrebbe continuare, se non suonasse blasfemo inserire Whitman & Co. nella lista degli sfigatissimi Aps, gli Autori a Proprie Spese raccontati da Umberto Eco nel Pendolo di Foucault (1988), dove vengono raggirati da editori senza scrupoli: «Fatturato altissimo, spese di gestione nulle. Poche inserzioni sui quotidiani locali, le riviste di categoria, le pubblicazioni letterarie di provincia. Spazi pubblicitari di media grandezza, con foto dell’autore e poche righe incisive. A questo punto la rete è tesa».
Finora ci sono caduti in tanti. Coloro che pur di realizzare il sogno narcisistico di diventare autori si rivolgono a finti editori che pubblicano a prezzi molti alti volumi senza distribuzione. Ma si tratta di quella che nel mondo anglosassone viene definita «vanity press», per differenziarla dal self-publishing; un mercato, quest’ultimo, vero, che fa gola sia agli editori che vogliono ridurre i costi, sia ai grossi autori che vogliono aumentare i profitti saltando la mediazione tradizionale. E la qualità letteraria? Rischia, ovviamente, di andarci di mezzo.
Ne è convinto l’ampio fronte italiano contrario al self-publishing. Sono soprattutto giovani scrittori, critici e intellettuali che lavorano o gravitano attorno a case editrici piccole e medie. Tra gli altri, Vincenzo Ostuni, poeta ed editor di Ponte alle Grazie, lo scrittore Giorgio Vasta, gli scrittori ed editor di minimum fax Christian Raimo e Nicola Lagioia, il critico Andrea Cortellessa che, pur dichiarandosi «non catastrofista», vede nel self-publishing una «mutazione genetica», un «colpo micidiale alla credibilità e alla dignità dell’editoria» (così al forum della «Lettura», coordinato da Paolo Di Stefano nel 2012).
Tra i pochi non ostili, c’è Stefano Petrocchi, coordinatore del premio Strega. Non condivide «l’interdizione» di quanti vogliono decidere «chi abbia il diritto a pubblicare un libro e chi no». Una prospettiva «corporativa-ideologica» fondata sulla presunta «infallibilità» di giudizio e l’«imprescindibile» ruolo di mediazione con il pubblico degli addetti ai lavori. Giuseppe Genna, autore prolifico e pioniere delle scritture digitalizzate, è addirittura entusiasta del suo esperimento di self-publishing. Su Lulu.com nel 2007 ha pubblicato in formato elettronico Medium, la «storia di mio padre, della sua morte e di cosa ho scoperto, dopo, su quanto accaduto prima. Il download era gratis—racconta l’autore in chat via Facebook —, mentre per il cartaceo i lettori pagavano spese di stampa e spedizione. Il mio guadagno? Zero. Però i miei lettori lo hanno quasi tutti preso, mi hanno chiamato carceri e scuole… È stata la cosa più bella riservatami dall’editoria».
Chi ha fatto, per fortuna, ricorso al self-publishing è Francesco Targhetta (Treviso, 1980), autore del romanzo in versi Perciò veniamo bene nelle fotografie (2012), pubblicato con ottimi risultati di critica e pubblico (3 mila copie) dalla Isbn di Massimo Coppola; casa editrice dove furono notate e apprezzate le poesie che Targhetta si era pubblicato da solo. Il titolo? Fiaschi (ExCogita, 2009). «Ho speso più di 2 mila euro — racconta Targhetta alla “Lettura” —. Nessuno degli editori a cui avevo mandato il manoscritto mi aveva risposto. E nessuno mi avrebbe risposto mai. Per la poesia d’altronde è la regola: il primo libro di Corrado Govoni (Le fiale del 1903) uscì a sue spese e fu finanziato grazie all’eredità (800 lire) che gli aveva lasciato la nonna. Le 250 copie dei Fiaschi che avevo dovuto comprare le ho comunque rivendute quasi tutte». Targhetta ricorda che quanti demonizzano il self-publishing sono «quasi tutti interni al mondo editoriale. Io, come esordiente in versi che viveva in provincia e non aveva alcun aggancio, non sarei mai riuscito a trovare un editore non a pagamento. I grandi editori, in ambito lirico, pubblicano quasi esclusivamente autori già affermati: non rischiano mai. Il lavoro “critico” di selezione non è legato in alcun modo a valori di merito; negli ultimi anni, in poesia, molto di ciò che conta è uscito fuori dalle grandi collane».
La lezione di Whitman è ancora valida.

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