lunedì 22 luglio 2013

Il Museo del mondo: l'enigma di Munch davanti alla Sfinge


Melania Mazzucco

"La Repubblica", 21 luglio 2013

La vita è nemica delle ambizioni e si affretta a spegnerle. Solo i giovani osano concepire progetti smisurati, perché non si preoccupano delle difficoltà, degli ostacoli o della resistenza inerziale che opporranno la tradizione, i pregiudizi, il mondo. Fragile di salute, Munch si credeva braccato dalla morte: temendo di avere poco tempo fu da subito audace. A meno di trent'anni, mentre in Francia con una borsa di studio si perfezionava nel mestiere della pittura, concepì un ciclo di quadri che poi intitolò il Fregio della Vita: in essi intendeva raccontare ogni aspetto di quella battaglia tra uomo e donna chiamata amore. La vita di ogni anima, ma in primo luogo la sua. Credeva nell'arte come esame di coscienza, comprensione della realtà attraverso la rielaborazione delle esperienze personali: insomma, autobiografia.
Il Fregio della Vita lo realizzò nei febbrili anni successivi: includeva le sue opere più celebri - fra cui Madonna, Il Bacio, Vampiro, L'Urlo. Munch sperava che qualche istituzione lo acquistasse per decorare un edificio pubblico, ma incontrò solo scherno e disprezzo. Quando lo espose nel 1902, a Berlino, inserì Sphinx fra Gelosia e Malinconia, nel capitolo "Fioritura e declino dell'Amore". Lo aveva dipinto nel 1894 - un anno turbolento di indigenza, intossicazioni alcoliche, dispute filosofiche e spiritistiche con gli amici della bohème di Berlino, scrittori come Strindberg e Przybyszewski, donne votate al libero amore, satanisti e anestetisti che sperimentavano fluidi al cloroformio con cui lui voleva spegnere le tinte dei suoi quadri.
Sphinx è un modello di semplificazione e sintesi. Gli esseri umani e i tronchi formano linee verticali, come colonne. La frontalità rende le figure solenni e remote. Solo l'onda sinuosa della spiaggia rompe la staticità della composizione e suggerisce lo spazio. Ma la natura è diventata astrazione e simbolo. Il quadro, dai colori smorti, è diviso radicalmente in due dalla luce - di qua il chiarore di un'estiva notte boreale, di là ombra e tenebra fitta. È da questa che bisogna partire: a destra, contro un tronco, c'è un uomo pensoso e melanconico. La colatura rossa allude al suo cuore sanguinante. È l'Edipo al bivio, che come l'eroe mitico per salvarsi deve rispondere al quesito della Sfinge. Nel suo caso: cos'è, la donna? Le tre figure femminili rappresentano la sua risposta. «Quella scura che sta frai tronchi degli alberi», spiegava Munch, «è la suora - sorta di ombra della donna - tristezza e morte - e la nuda è una donna col gusto per la vita. La pallida bionda che cammina verso l'oceano, l'eternità - è la donna dello struggimento». Dunque la fanciulla sulla riva del mare è la donna angelo, idealizzata. Il bianco dell'abito e il mazzolino di fiori segnalano l'innocenza, la purezza; l'assenza di volto la sua funzione archetipica. La nuda sfacciata dai capelli rossi che campeggia al centro, le braccia incrociate dietro la testa (come nel quadro Le Mani, per cui posò l'affascinante Dagny Juel, femme fatale del circolo del Porcellino Nero, e in Ceneri, laica rilettura della caduta di Adamo ed Eva),è la donna erotizzata, forza primigenia della sessualità. È l'unica che ci guarda. La nera figura con le palpebre abbassate, ieratica come un idolo di Gauguin, è la donna-dolore.
Santa, puttana, vittima. Sono tre donne, colte in diverse epoche della vita - ma anche una sola, negli aspetti molteplici della sua psiche. Perché «tutte le altre sono una, tu sei mille», recitava il sottotitolo che Munch appose al quadro nella mostra di Stoccolma. Era tratto dal Balcone, dramma di Gunnar Heiberg, in cui una donna mostrava tre differenti personalità ai tre amanti.
La donna come Sfinge, enigmatica custode della vita e della morte, avrebbe rappresentato il tema ossessivo dell'arte di Munch - e anche della sua vita. Quando nel 1895 fu esposta a Christiania (oggi Oslo), Sphinx suscitò la riprovazione dei benpensanti e, insieme al resto del Fregio della Vita, scatenò un dibattito pubblico sulla sanità mentale del pittore. Munch avrebbe voluto essere uno scrittore. Il Fregio della Vita era stato pensato come opera letteraria. Ma già a 7 anni disegnava a carboncino sulle ricette del padre, medico militare; a 17 dipingeva e poco dopo esponeva in pubblico: la pittura divenne presto il fulcro della sua esistenza. La famiglia Munch era prediletta dalla morte e dalla follia: la madre morì di tubercolosi quando lui aveva 5 anni, la sorella Sophie quando ne aveva 14, la sorella Laura fu internata per malattia mentale, il padre vedovo soffriva di depressione, il fratello Andreas morì giovane.
Munch stesso flirtava con la follia - almeno fino al ricovero in una clinica psichiatrica. Ma la sua era anche una famiglia di lettori. Agli inizi, posarono per i suoi ritratti il padre, la sorella Inger, il fratello, la zia. Tutti in poltrona, con un libro in mano. I Munch leggevano di tutto - la Bibbia, i giornali, storie di fantasmi, romanzi di Dostoevskij. In seguito Munch ripudiò il "ritratto con libro", sterile prodotto del naturalismo borghese, incapace di cogliere le pulsioni che ribollono nelle persone. Ma la letteratura continuò ad alimentare la sua immaginazione, e lui seminava parole sui fogli caotici dei suoi diari. Quei frammenti di narrazioni, le epifanie,i dialoghi, i ricordi, gli aforismi, i versi - che accompagnavano la creazione delle sue opere e ne fissavano la genesi - rivelano un talento. Lo scrittore Munch era notevole quanto il pittore. E non per caso il primo estimatore di Sphinx fu Ibsen. Incompreso e denigrato in Norvegia per il suo teatro "immorale", Ibsen si era inflitto un lungo esilio. Nel 1895 visitò la mostra di Munch e lo incoraggiò a resistere: nel connazionale bistrattato in patria, più giovane di 35 anni, rivedeva se stesso.
Guardarono i quadri insieme, uno per uno. Ibsen trovò particolarmente interessante Sphinx, e Munch glielo spiegò (con le parole sopra citate). Nel 1899, notò che Ibsen se ne era servito per concepire Quando noi morti ci destiamo. Le tre donne del quadro erano diventate le protagoniste del dramma. Munch invece non aveva più bisogno delle parole. Aveva trovato un altro modo per narrare la vita. Ma anche in pittura «voler raccontare non è un errore», osservò: «tutto sommato il racconto è lo scopo di ogni arte».

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