giovedì 11 luglio 2013

Gli operai della poesia


Vivono appartati, spesso in provincia, e operano in silenzio 
per difendere un’arte fra le più antiche. 
Se scrivere versi è un lavoro che mette ordine nel mondo

Piergiorgio Paterlini

"La Repubblica", | 10 luglio 2013 

«Cosa fai nella vita?». «Il poeta». Loro potrebbero rispondere così, senza tema di essere smentiti. E senza scadere nel ridicolo, o nel patetico. Decido di cominciare da Ferruccio Brugnaro, classe 1936. Brugnaro vive al terzo piano di un condominio popolare a Spinea, sette chilometri da Mestre. Per noi sessantottini era stato più che un simbolo. Faceva l’operaio al Petrolchimico di Porto Marghera, un uomo tutto lotte e unità sindacale ma soprattutto un operaio che scriveva poesie e le distribuiva a mo’ di volantini e le attaccava alle bacheche della fabbrica. Insomma, lavoro manuale e lavoro intellettuale, il maoista all’italiana perfetto.
Oggi è in pensione, partecipa ai reading, in Italia e all’estero, dove le riviste lo pubblicano con regolarità, dagli Stati Uniti alla Francia, dalla Spagna alla Grecia, dalla Germania alla Cina. Scoperto in Italia da Zanzotto, apprezzatissimo poi da Roversi, Fortini, Betocchi. Negli Stati Uniti da Jack Hirschman poi da Ferlinghetti. Per lui la poesia è rivolta, e fatto collettivo non personale, «per mettere insieme le persone e cambiare il mondo, perché saremo felici tutti o nessuno», mi ripete ancora oggi. Ma perché proprio la poesia? Perché la poesia e non un comizio? «Ero poco più che un bambino, abitavamo in campagna, mia madre amava la poesia, la musica, il teatro. Mi leggeva Dante, Pascoli». Ecco il perché. E il come. Come la poesia entra nel cuore di Brugnaro e non lo lascia più, diventa la sua vita, anche se ciò che scrive è lontanissimo da ogni lirismo. «La parola deve scottare, bruciare – dice – i versi sono spezzoni sanguinanti di vita. Scrivo solo quando mi sento ferito». «Lo sa – mi dice alla fine – che mio figlio Luigi è stato fino a pochi giorni fa il presidente della Confindustria di Venezia?». Sì, lo so. Solo di fama, ma lo conosco.
Chi non conoscevo, invece, è Pierluigi Cappello, il più giovane fra coloro che incontrerò in questo breve viaggio. Centotrenta chilometri, dal Veneto al Friuli. Cappello abita a Tricesimo, in provincia di Udine. Ha 46 anni, vive da solo in uno dei prefabbricati lasciati in eredità dal terremoto, di fianco a una struttura per anziani. La prima volta l’ho visto e sentito parlare in un video su youtube, dall’Academiuta di lenga furlana, il centro studi pasoliniano di Casarsa. Cappello scrive in italiano e in friulano. «Bilinguismo perfetto», dice. È lui a darmi la risposta che posso trascrivere senza riascoltare la registrazione o consultare gli appunti: «La poesia dà ordine al nostro brusio interiore, e in questo modo dà ordine all’universo ». La poesia è creativa, nel senso di “Creazione”, traduco. Dal caos al cosmo. Cappello è entusiasta che io abbia capito. E aggiunge che poesia è anche «uscire dall’impasse di un silenzio che nasce non dal vuoto, ma dal troppo pieno che abbiamo dentro, compreso il mistero della vita e della morte che ci avvolge senza risposte possibili. Dare gerarchia a questo caos costruisce un modo diverso, ordinato appunto, di rapportarsi a se stessi e agli altri». Ma a me interessa l’origine di tutto questo, non l’origine del mondo quanto la nascita di una vocazione – come altrimenti chiamarla? – che segnerà per tutta la vita persone come lui. Anche per Cappello si comincia presto, dall’infanzia, e da una situazione di solitudine. «Abitavamo in cima a un colle, stretti dalle montagne, isolati dal mondo. A sette anni passavo interi pomeriggi a leggere». L’incontro con la poesia per lui è l’incontro con l’epos, con la Chanson de Roland, poi nella primissima adolescenza Rimbaud e Verlaine, e solo dopo Montale, Quasimodo, Ungaretti, fino a Caproni e Sereni, «riducendo i toni, cercando l’esattezza della parola, un incantamento senza fine». Mai più disarcionato da Cavaliere della Tavola Rotonda, a sedici anni Cappello viene disarcionato dalla moto di un amico lanciata a tutta velocità. Rimarrà per sempre paralizzato, su una sedia a rotelle. Un folto gruppo di lettori, amici, veri e propri fan sta chiedendo per lui la legge Bacchelli, ma fino a oggi l’ha spuntata la burocrazia. Cappello pubblica con piccoli e grandi editori, è studiato dai critici, ha vinto il Bagutta, il Montale, il Viareggio-Rèpaci e da qualche mese Francesca Archibugi sta girando un docufilm su di lui.
Il riferimento a Pasolini mi porta a Roma, a casa di Elio Pecora, all’Eur. Pecora è del 1936, come Brugnaro, come Gio Ferri che incontrerò subito dopo. Arriva da Napoli a Roma a trent’anni, lavora nella libreria Bocca di piazza di Spagna dove passano, tutti i giorni o quasi, e non solo a comperare libri ma per chiacchierare di arte e di letteratura, Moravia, Morante, Palazzeschi, Penna, Siciliano, Bassani. Pasolini, appunto. E Fellini. E musicisti, pittori, critici. Diventa amico di tutti. Con nessuno però – tiene a sottolineare – condiscendente. E anche per Elio Pecora c’è una madre, all’inizio. Una madre che suona il pianoforte, che canta per casa le romanze, con una malinconica voce da contralto, letteralmente rapita da Leopardi. E poesie mandate a memoria «che mi invaghivano di musicalità, suoni, parole prima ancora ne capissi un qualche significato ». E infinite letture. Perché «la poesia è lavoro, la scrittura un’officina». Elio Pecora oggi viene invitato nelle scuole, anche elementari. Dice: «Non credo alla creatività dei bambini, occorre solo leggere, imparare, avere dei modelli, e spiegare che la poesia esiste per rappresentare la totalità della vita, il bene e il male, un esercizio straordinario della psiche». Pecora è uno di quei poeti che lavora più per gli altri che per se stesso e con questo spirito dirige da dieci anni la rivista “Poeti e poesia”. 
Una rivista è anche l’attività principale di Gio Ferri (al secolo Giorgio Ferrari), “Testuale. Critica della poesia contemporanea”, fondata nel 1983 insieme a Gilberto Finzi e a Giuliano Gramigna, ora soltanto online, perché i soldi non ci sono più. Veronese trapiantato a Milano, Gio Ferri abita in una casa appiccicata alla stazione di Lambrate, ma ama lavorare in un appartamento tra il verde a Lesa, sul lago Maggiore. Fino all’età di cinquantacinque anni ha lavorato come dirigente di una grande compagnia di assicurazioni, poi si è dedicato a tempo pieno alla poesia. Ferri è anche poeta visivo, autore per il teatro musicale, critico, un artista che ha cercato di intrecciare militanza politica, poesia, neoavanguardia, ma che oggi dice: «Sono un uomo deluso dalla politica fin dagli anni Settanta, e poi deluso dalla storia. La storia che non è maestra di vita, anzi non insegna un bel niente a nessuno, e che fondamentalmente significa morte. Solo la poesia è immortale». Perché? «Perché la poesia è inutile per definizione, perciò assoluta, è energia, ambiguità, sensualità, opera aperta, nessun significato pragmatico, dunque nessun ambito temporale finito. La poesia è comunione contro il disvalore della comunicazione ». «La parola poetica – si appassiona Gio Ferri – assassina l’utilitaristico e falso discorso quotidiano, e la storia medesima». Deve essere per questo che ha intitolato il poema cui lavora da oltre dieci anni L’assassinio del poeta.
Alla fine è curioso come tutti loro mi dicano che potrebbero anche non scrivere o non pubblicare. Me lo dice Brugnaro, per il quale i riconoscimenti che contano sono quelli dei suoi ex compagni più che dei critici. Me lo dice Pecora: «Non è necessario che scriva io, ci sono tanti libri da leggere e rileggere, e arte e musica». Me lo dice Cappello: «Si può scrivere anche senza pubblicare, lo sguardo della poesia appartiene all’interiorità dell’individuo».
Ce ne sarebbero altri, in questa terra desolata, da raccontare. Altri che, come loro, hanno fatto della poesia, qualunque cosa voglia dire, non il senso della vita, ma un lavoro, e un peculiare sguardo sul mondo. Un’altra volta, casomai.

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