sabato 6 luglio 2013

Yves Bonnefoy. "Diffidate degli artisti solitari, il vero poeta ha bisogno di amici"



L'autore francese, che ha appena compiuto 90 anni, 
ricorda i compagni di viaggio ed esce con un nuovo libro.

Fabio Gambaro

"La Repubblica", 5 luglio 2013


Un classico della contemporaneità. Yves Bonnefoy, il più grande poeta francese vivente, il cui nome è stato spesso evocato per il Premio Nobel, ha appena compiuto novant'anni. E per l'occasione giunge in libreria la sua ultima raccolta di versi e prose, L'ora presente (trad. di Fabio Scotto, Mondadori, pagg. 189), in cui ancora una volta s'impone tutta la forza evocatrice della sua poesia densa di riflessioni e di tracce oniriche, percorsa sempre - come ha scritto Starobinsky - da «un'esigenza ontologica assai più che estetica». Nel suo studio pieno di libri e carte, nel quartiere di Montmartre, il poeta, che è professore onorario del Collège de France, ce ne parla, riflettendo al traguardo appena raggiunto: «A novant'anni, posso tranquillamente guardarmi indietro e provare a fare un bilancio del mio lavoro. Pur avendo lavorato in molte direzioni, dalla poesia alla critica, dalla traduzione al racconto, mi sembra che il mio percorso non manchi di coerenza, dato che al centro c'è da sempre la preoccupazione della poesia».



Il mondo della poesia è però cambiato rispetto agli anni Quaranta e Cinquanta, quando lei ha iniziato a scrivere. Quali le sembrano le differenze maggiori?
«Quella che io chiamo la "poesia fondamentale" in realtà non è cambiata. Vale a dire la capacità di ogni individuo d'instaurare con il mondo, con gli altri e con se stesso un rapporto di tipo poetico, capace di cogliere la piena presenza dell'altro da sé. Ciò che è cambiato è il discorso della società nei confronti della poesia. Oggi la cultura dominante - dove prevalgono le tecnoscienze e le preoccupazioni commerciali - emargina la parola poetica. Questa visione della cultura ha imposto schemi mentali che intimidiscono - e perfino censurano - la sensibilità poetica degli individui».


Si può fare qualcosa per invertire questa tendenza?

«Occorrerebbe una profonda riflessione filosofica e sociale, capace d'inspirarsi alla paideia dell'antichità classica, dove la poesia in senso lato era il filtro di accesso alla società e ai suoi problemi. Oggi occorrerebbe inventare una nuova paideia capace di aiutarci ad affrontare la condizione contemporanea».


Lei però ha scritto «la parola non salva, talvolta sogna»...

«La poesia, al di là di ogni rappresentazione predefinita, tenta di ricreare la pienezza di un rapporto immediato con l'altro nella sua totalità. È però un atto difficile da realizzare, perché occorre liberarsi da tutte le suggestioni intellettuali che invitano a guardare il mondo attraverso le scienze umane, la politica, la lingua, ecc. Tutto ciò, seppure ci aiuta a comprendere alcuni aspetti dell'altro, non ci consente però d'incontrarlo nella sua immediatezza. Occorre dimenticare tutte queste rappresentazioni e affidarsi al sogno, ma liberandosi dei sogni più facili, per accedere a quelli più profondi e più veri. Insomma, la poesia sogna sempre».


La centralità del sogno nella sua poesia è un retaggio della sua esperienza con i surrealisti?

«Fu proprio l'interesse per il sogno che mi spinse ad avvicinarmi ai surrealisti, anche se capii in fretta che essi si limitavano alla superficie dei sogni, come dimostra la loro pratica della scrittura automatica basata sulle libere associazioni. In realtà, occorre scendere nella profondità dei sogni, liberandoli dalle stratificazioni successive. Solo così si accede alla verità della poesia».


Che ricordo ha di André Breton?

«Ho sempre rispettato molto Breton. Per me è uno dei grandi poeti del XX secolo. Quando lo conobbi, subito dopo la guerra, iniziava ad interessarsi all'esoterismo, nei cui confronti io ero molto diffidente. Mi sembrava una prospettiva regressiva. Fu per questo che mi allontanai dal gruppo, pur restando in buoni rapporti con Breton. A differenza di altri, non ho mai litigato con lui. Anzi, da un certo punto di vista, sono rimasto fedele allo spirito iniziale della sua ricerca. Il paradosso dei surrealisti è che professavano la libertà assoluta, ma poi abdicavano volentieri di fronte al padre padrone del gruppo, vale a dire Breton».


Quello con Breton fu il primo di una lunga serie d'incontri con artisti e intellettuali che hanno segnato la sua vita...

«È vero, sono stato amico di Octavio Paz, Paul Celan, Pierre Jean Jouve, Philippe Jaccottet. Ho frequentato Giacometti, su cui ho anche scritto un libro. Ho conosciuto Mario Luzi, anche se fui più amico di Piero Bigongiari. Oggi, in Italia, mi considero amico di poeti come Roberto Mussapi, Valerio Magrelli, Eugenio De Signoribus o Fabio Scotto».


Per un poeta è importante avere attorno a sé una comunità di altri poeti e artisti? Oppure è meglio la solitudine?

«La vera poesia è il contrario della solitudine, proprio perché mira a rendere più intenso il rapporto con l'altro. L'artista solitario, rinchiudendosi nella propria differenza, finisce per non sopportare più gli altri. La vicinanza di altri poeti è invece sempre benefica alla poesia. Io ne ho beneficiato tutta la vita. Come pure dell'amicizia con alcuni critici, ad esempio Jean Starobinski, la cui intelligenza mi ha aiutato moltissimo».


I grandi avvenimenti storico-politici sembrano assenti dai suoi versi. Come mai?

«La preoccupazione politica è fondamentale nella mia poesia, anche se non si manifesta mai in maniera diretta. Personalmente, considero la poesia come il fondamento di una vera politica per il bene comune. Riaffermando la relazione e il riconoscimento dell'altro, la poesia è il fondamento stesso della democrazia. Deve però rimanere se stessa, altrimenti rischia di cadere nell'eloquenza o nella propaganda. Quando vuol far parlare la sofferenza degli altri, il poeta rischia la parodia o la superficialità. Le anime belle si dichiarano solidali con tutte le sofferenze del mondo, ma occorre ben altro».


Vale a dire?

«Occorre una poesia vera, che sappia offrire occasioni concrete di mutua riconoscenza, ricostruendo così la trama del mondo. Occorre sottolineare l'utilità della poesia in nome di una nuova paideia ».


La parola poetica è sempre sinonimo di libertà?

«La vera libertà non è nell'uso delle parole che spesso si risolve in un semplice gioco esteriore di sonorità. La vera libertà è quella che si concentra sul tempo e sul luogo dell'esistenza vissuta. È una libertà difficile da raggiungere. La poesia, più che un atto di libertà, è un atto di ricerca della libertà. È un tentativo di liberazione personale, che però non si conclude mai».


Lei è stato definito un classico contemporaneo. Come reagisce a questa definizione?

«Mi fa piacere, perché significa che il mio lavoro può continuare ad avere un senso anche per le altre generazioni. La poesia deve cercare le costanti eterne al di là delle contingenze, ma per riuscirvi non deve lasciarsi scoraggiare. Ci sono opere molto importanti, ad esempio quelle di Beckett, che però si lasciano travolgere dal non senso del mondo. L'essere umano non è fatto per morire sul posto come i personaggi di Godot. Per questo, dobbiamo sempre conservare e trasmettere il principio della speranza che è il cuore della vita. La poesia è la speranza nel linguaggio ».

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