lunedì 22 luglio 2013

L'IMPORTANZA DI PATIRE INSIEME



Valerio Magrelli

"La Repubblica", 20 luglio 2013
Da tempo Antonio Prete rappresenta una fra le presenze più singolari del panorama culturale italiano e francese. Amatissimo docente di Letterature comparate all'Università di Siena, fondatore della rivista Il gallo silvestre, è uno dei massimi studiosi di Leopardi e dei più noti traduttori di Baudelaire. Non sorprende perciò la simultanea uscita di due suoi testi, Meditazione sul poetico (Moretti e Vitali, pagg. 187) e Compassione. Storia di un sentimento (Bollati Boringhieri, pagg. 189). Se il primo raccoglie una parte dei suoi scritti sulla poesia, il secondo chiude una sorta di triangolazione lessicale iniziata con Nostalgia. Storia di un sentimento (Cortina, 1992) e proseguita con Trattato della lontananza (Bollati Boringhieri, 2008). Nostalgia, lontananza, compassione: sulla scia di Aby Warburg e Jean Starobinski, abbiamo insomma tre figure contigue sul piano della psicologia, dell'antropologia, dell'espressione artistica.
Quanto alla prima, essa nacque nel 1688, quando lo studente di medicina Johannes Hofer si laureò all'Università di Basilea. Hofer attinse al greco (con nóstos, "ritorno", e álgos, "dolore"), per sostituire il tradizionale Heimweh tedesco (cioè "rimpianto per la casa"). Sorto in ambito clinico, il termine migrò verso orizzonti letterari, musicali e artistici, per poi iscriversi nella riflessione psicanalitica. Prete applica il sostantivo "nostalgia" a miti, autori, funzioni dell'intera tradizione occidentale, dal nóstos di Ulisse alla descensio ad inferos di Orfeo, dalla peregrinatio dantesca alla ricordanza leopardiana o al souvenir baudelairiano. Ma il riferimento più significativo è quello all' amor de lonh provenzale ("amore lontano, irraggiungibile"), poiché proprio da qui partirà l'indagine successiva.
Secondo Prete, oggi la lontananza non è più lontana, ma prossima, transitabile, domestica. La ritroviamo sul monitor del computer, sul display dei cellulari. La nostra è infatti una "tecnica del lontano", visto che i suoi strumenti rimandano all'avverbio greco "tele-" ("lontano"). Tutto ciò che è distante «viene oggi verso di noi, bruciando il tempo e lo spazio della lontananza». Di fronte a tutto ciò, dovremmo reagire recuperando la lontananza attraverso la narrazione, la poesia, le arti, esigendo la collaborazione immaginativa del lettore o dell'osservatore. Solo così, ha notato Piero Boitani, si possono dischiudere figure letterarie, pittoriche, musicali o filosofiche quali l'addio, l'orizzonte, il cielo, l'esilio, l'amore e l'ombra.
E qui si situa l'ultima tappa del cammino di Prete, che spiega: «La compassione è un sentire in relazione con l'altro, e Schopenhauer non esita a definirla come il fondamento stesso della morale. È una passione condivisa. Ma anche un patire insieme. Una prossimità all'altro, alla sua ferita». Assai vasta è la letteratura su questo tema: dalla tragedia greca (Antigone o Filottete) a L'idiota di Dostoevskij, da Dante a Cervantes. Ma anche l'arte, specie con l'immagine della Mater dolorosa. Per questo, il modo migliore per segnalare un saggio del genere, è forse rimarcarne la parte finale, laddove con Bellini e Michelangelo, Tiziano e Caravaggio, El Greco e Goya, Van Gogh e Chagall, viene a delinearsi una vera e propria Storia della Pietà nell'arte.


Dall'introduzione a Compassione. Storia di un sentimento di Antonio Prete:

La compassione: una passione condivisa. Ma anche un patire in comune, un patire insieme. Una prossimità all'altro, alla sua ferita. 
La compassione è tuttavia un sentimento raro. Perché rara è l'esperienza in cui il dolore dell'altro diventa davvero il proprio dolore. La parola compassione spesso copre, come un confortevole velo, un sentire in cui l'attenzione all'altro, alla sua pena, si accompagna a un certo compiacimento del soggetto compassionevole, a una silenziosa conferma della sua bontà d'animo. 
Accade che il gesto visibile del soccorso possa ferire il pudore col quale l'altro ha nascosto la propria sofferenza, sottraendola con fatica all'altrui indiscrezione. Accade che la compassione possa invadere il doloroso silenzio di chi ha deciso di portare su di sé, con dignità, e forse fierezza, il fardello della propria pena : essere compassionevoli, è stato detto, in fondo è come disprezzare l'altro, non credere alle sue capacità di reggere l'afflizione senza il lamento. E succede anche che dalla propria quieta soglia si guardi all'affanno dell'altro come si osserva dalla sponda il dibattersi del naufrago nelle onde: il sottile, inconfessato piacere di trovarsi al sicuro può sovrastare e rendere fievole l'ansia per il pericolo in cui si trova l'altro. La compassione, ha ancora scritto qualcuno, è spesso soltanto una pacificazione di sé. 
Può persino essere, la compassione, maschera di un orgoglio, esibizione della propria sicurezza, delle sue salde radici. E' quel che La Fontaine mette in scena nella favola La Canna e la Quercia, dove le parole ipocritamente compassionevoli del forte albero che invita il cespuglietto di canne a crescere all'ombra del suo potente fogliame per potersi meglio difendere dal vento, ricevono presto una smentita: una tempesta impetuosa e violenta sradica la quercia ma non la canna, che sa invece piegarsi, ondeggiando sotto la bufera. 

Da qui la storica diffidenza dei filosofi - di quasi tutti i filosofi - per la compassione. Esclusa dall'albo delle forti virtù e del forte sentire. Non sempre catalogata tra le passioni. Osservata piuttosto come un sentimento proprio dei deboli. O risospinta nella terra nebbiosa delle religioni. Rinviata alle indecifrabili increspature di una sensibilità incline alla commozione o, femminilmente, al pianto (c'è sempre qualcuno che associa la lacrima alla donna). Oppure - e qui, bisogna ammettere, non mancano le ragioni - considerata come elusione, non sempre innocente, della domanda di giustizia e di eguaglianza. Come elusione di un compito che dovrebbe essere anzitutto politico : in effetti, la giustizia, non la compassione, può, o potrebbe, mettere ciascuno nella condizione di sopportare da se stesso gli oltraggi dell'esistenza. Ma anche questa posizione, che oppone giustizia sociale a compassione, si arresta dinanzi alle ferite che non hanno un' origine per dir così materiale, che non appartengono all'ordine dei bisogni e dei diritti: il dolore, del resto, ha un tale ventaglio di forme, visibili e nascoste, che ogni suo regesto appare provvisorio, parzialissimo. 
E, infine, la compassione può essere vista come una perdita del proprio stesso coraggio (o della propria spavalderia?) :  "è una storia la compassione un poco come la paura: se uno la lascia prender possesso, non è più uomo", esclama il Nibbio, nei Promessi Sposi, quando, consegnando Lucia all'Innominato, confessa d'aver quasi provato, lungo il trasporto, compassione per la povera ragazza rapita. 
La filosofia - quando non ha assunto il sentire della compassione a fondamento stesso di una morale, come è avvenuto con Rousseau e con Schopenhauer - ha mostrato di volta in volta gli aspetti ambigui, autoconsolatori, dolciastri, della compassione. 
Scrittori e artisti hanno invece rappresentato, della compassione, i gradi e le forme del suo manifestarsi, la lingua, i gesti, la tensione conoscitiva. Hanno mostrato la grande scena in cui la compassione prende forma: la comunità dei viventi, la finitudine che unisce nello stesso cerchio tutti i viventi, uomini e animali. Con la singolarità dei loro corpi, e desideri, e ferite. 
La rappresentazione letteraria, artistica e teatrale della compassione è l'ininterrotto racconto di una presenza, quella dell'altro, del suo volto, delle sue insondabili profondità. Una presenza che corrobora la stessa identità di colui che è soggetto dello sguardo. E smuove un sentire, che dal soggetto torna verso il sentire dell'altro. Diventa, infine, riconoscimento del legame che trascorre tra tutti gli esseri. Nell'orizzonte di questa comune appartenenza il dolore dell'altro non chiama l'indifferenza ma la prossimità. 
Questo libro vuole mostrare, come per allineati tableaux di un'immaginaria esposizione, alcune figure di una storia della compassione, così come la scrittura e l'arte ce le hanno consegnate. Ho detto storia, ma è davvero un azzardo che si possa fare storia dei sentimenti, o storia delle passioni. Perché sentimenti e passioni hanno tante modulazioni e vibrazioni quanti sono gli individui viventi. E così è della loro rappresentazione, variegatissima. Ci si può soltanto affacciare sulla lingua del sentire, sulla lingua del patire, sui segni del loro apparire, sulle stazioni e le forme del loro svolgimento. Questo sguardo, e questo ascolto, possono a loro volta diventare racconto. Un racconto tessuto con le parole e i pensieri dei classici. Con le immagini che provengono dal mito, dalle sue interpretazioni, dall'antica tragedia greca, dalle narrazioni moderne, dalla terra della poesia e dell'arte. Perché in questi linguaggi l'altro - che abbia un volto familiare o ignoto - è fonte di costante interrogazione. È il respiro del corpo, con la sua irripetibilità, a farsi lingua, figura, ritmo. 
La scrittura e l'arte ci restituiscono, della compassione - come del resto di ogni altro sentimento - insorgenze e vibrazioni, segnali e compimenti, sospensioni e deviazioni, eccessi e attenuazioni. Se la compassione muove anzitutto dal riconoscimento dell'altro in quanto corpo e linguaggio, pensiero e desiderio, c'è un tempo in cui questo riconoscimento s'incrina o scompare. E' il tempo tragico. La guerra è il nero trionfo di questo tempo tragico. E con la guerra, con l'oblio della compassione, l'esercizio sistematico della spietatezza. La tecnica, che ha affinato i modi della distruzione, si mette a servizio di questa morte della pietà. (...) Narrazione e poesia hanno tuttavia mostrato come, nel cuore del tragico, e contro il furore dell'annientamento, si possa levare, proprio a partire dallo sguardo sul dolore altrui, il tu di una ritrovata fraternità. La compassione è lo spazio in cui, dal fumo della distruzione, si leva e disegna il profilo di questo tu.

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