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Il Mediterraneo è un mare nero
Maurizio De Giovanni
"La Lettura - Corriere della Sera", 21 luglio 2013
C’è qualcosa, nel mare. Qualcosa di oscuro.
Non mi riferisco alle chiazze di carburante lasciate dalle petroliere, né agli scarichi inquinanti delle fabbriche e degli antiquati impianti fognari: qui si discute di narrativa, e specificamente di narrativa nera.
Il mare e la narrativa nera sembrano fatti l’uno per l’altra. Il mare è fatto di vicoli, di cattiva illuminazione, di stradine tagliate ametà dalla luce del sole; di aria appestata da pesce e alghe in decomposizione, dal sapore di legno umido e ammuffito; dal rumore equivoco delle onde sulla scogliera, dalle grida di gabbiani a caccia di topi, da una massa buia nella notte, in perenne oscuro movimento. Il mare è un obbligo, un richiamo: conosciuto e sempre ignoto.
Il romanzo nero, da parte sua, è l’indagine della parte buia; è lo spauracchio della violenza, il fantasma della propria rabbia che il lettore vede emergere da una storia altrui, che potrebbe benissimo essere la sua. È il fascino dell’altro da sé, lontano eppure così vicino da essere sovrapposto. È il mistero dell’eroe oscuro, e delle vicende che comunque vadano a finire non finiscono mai.
Eppure la violenza non è certo lesinata dalla cronaca; di questi tempi la realtà offre avvenimenti che sono più efferati e illogici di quelli che si trovano nei romanzi. Possibile che la gente non sia stanca, e che cerchi anche nella fiction le stesse cose che trova nei giornali e in tv? Possibile, evidentemente. Possibile che il pubblico non voglia abbellimenti, possibile che per completare il processo di immedesimazione che la lettura richiede abbia bisogno di storie che sembrino vere, che ti gettino in fretta in un contesto così simile al tuo da farti sentire protagonista della vicenda che raccontano. D’altra parte cos’è un libro, se non un biglietto per un viaggio? Per una passeggiata in un altro posto, in un altro tempo, che consenta di andare altrove senza muoversi, di sentire altre passioni e altre emozioni?
Il romanzo nero, perciò, costituisce il più veloce dei viaggi: dipingendo una realtà assolutamente verosimile, proponendo il lato oscuro dell’animo umano senza cercare di immaginare rassicuranti catarsi. Una storia nera non finisce bene, almeno non necessariamente: il lettore non sa mai come si chiuderà e spesso, come accade nella realtà, la conclusione prelude a un nuovo inizio e riserva brutte sorprese.
In questo contesto si può tentare di ritrovare alcune atmosfere comuni, elementi di somiglianza tra gli autori più amati di un genere che per sua natura è polifonico e incline alla ricerca a volte ossessiva dell’originalità. Uno di questi elementi è, forse, proprio il mare. La costruzione di una realtà verosimile, un cardine della narrativa nera, parte dall’ambientazione. Strade, suoni, aria, clima: un vento insistente, profumi di cucina, morbide musiche e canzoni dolenti, notti calde o gelide. Descrizioni necessarie di un contenitore che conserva e orienta la storia che viene raccontata. I paesaggi innevati e la natura ostile del grande Nord sono un elemento costitutivo della narrativa svedese, islandese e norvegese e determinano un aspetto non certo secondario del fascino che gli autori di quelle lande mantengono, e del loro successo. Si può dire lo stesso del nostro Mediterraneo, per restare nel Vecchio Continente?
Il nuovo romanzo nero europeo ha molti padri; tra essi devono essere certamente annoverati Manuel Vázquez Montalbán e Jean-Claude Izzo. È con loro che il genere giunge in riva al mare, abbandonando le nebbie oscure della Parigi di Simenon e della Londra gotica e l’illusoriamente tranquilla campagna inglese della Christie; e il nero assume nuove sfumature, immergendosi negli odori e nelle luci abbaglianti di Marsiglia e Barcellona.
Pepe Carvalho, l’investigatore privato che percorre le ramblas tenendo per mano il suo creatore Vázquez Montalbán, è così intimamente connesso con la propria realtà da risultare ormai una vera e propria risorsa turistica di Barcellona. La progressiva immedesimazione dello scrittore col personaggio, evidente fin dal principio con la corrispondenza della data di nascita immediatamente successiva alla fine della guerra civile e con la detenzione per antifranchismo, raggiunge l’estremo con la previsione della morte dell’autore stesso (Pepe Carvalho, l’addio, del 2003, anno della morte di Vázquez Montalbán). I romanzi con Carvalho protagonista si connettono intimamente con la città attraverso molti canali, primo fra tutti la gastronomia: passeggiamo con il fantastico Biscuter, cuoco e aiutante del detective, per botteghe e mercati di una Barcellona magmatica e sotterranea, in perpetuo movimento portuale, coi traffici impliciti ed espliciti tipici delle città di mare. Il piatto che delizierà Carvalho non è uno strumento narrativo, e nemmeno una nota di colore: è una precisa finalità, la conclusione di un processo che corrisponde alla costruzione di un’ambientazione assolutamente indistinguibile dalla storia stessa.
Così come connaturata alla storia è la Barcellona nera di Alicia Giménez-Bartlett e della sua Petra Delicado, ispettrice di polizia il cui nome stesso è un ossimoro e rappresenta la duplicità della sua natura, e della città che percorre. Una città femmina, accogliente e misteriosa, mai univocamente interpretabile, bellissima e infida; piena di contraddizioni che la stessa autrice, castigliana della Mancia, sembra indagare, romanzo dopo romanzo, con il proprio personaggio, attraverso storie che propongono una perenne dialettica tra l’evoluzione del crimine e quella dell’educazione sentimentale della protagonista. E il mare, col suo movimento, il suo rumore e le attività che sostiene, ne è la costante colonna sonora.
Lo stesso mare che bagna Marsiglia, palcoscenico delle storie di Izzo e soprattutto vero e proprio personaggio principale della trilogia che ha come protagonista Fabio Montale. La narrazione di Izzo, partecipe e accorata in ogni singolo rigo, è tra le più poetiche e delicate del genere e propone l’autore come uno scrittore tout court, narratore di razza che non ha mai difficoltà a immergere il lettore in un paesaggio e in una vicenda lasciandolo con un senso di straniamento al termine della lettura, attanagliato da un’inspiegabile nostalgia per qualcosa che rimane comunque irrisolto, come dev’essere in una storia nera che si rispetti. Il crimine non viene mai sanato, e Izzo lo sa più di chiunque altro: la ferita sociale non può che essere mal ricucita, e lascerà un’orribile cicatrice in ricordo del male dal quale è nata. Il secondo romanzo della trilogia di Montale, Chourmo (Ciurma), descrive il cuore di Marsiglia (che non a caso è il sottotitolo) meglio di ogni altro. La compresenza della prima e della terza persona conferisce al romanzo una pluralità di punti d’osservazione che lo rende corale, profondo, mobile come il mare; e dal mare, che ospita le riflessioni di un protagonista che passa il proprio tempo a pescare, viene la storia stessa, introducendo una tematica che è diventata una costante della narrativa mediterranea: i flussi migratori.
In Izzo prima e in moltissimi autori successivamente, il confronto tra culture diverse, il differente peso della religione, dell’onore, dell’orgoglio, le necessità economiche, il degrado e la povertà, il fantasma dei campi profughi, sono spesso all’origine dei crimini sui quali gli investigatori sono chiamati a indagare; così l’indagine, e i tortuosi percorsi all’interno del ventre delle città e dei sentimenti che si intrecciano fino a diventare una matassa inestricabile, sono anche il modo degli scrittori di analizzare la società. Il solo fatto di mettere certe situazioni al centro della storia diventa un giudizio di merito.
Non a caso è proprio Marsiglia la capitale del noir mediterraneo, fin dagli anni Settanta di Jean-Patrick Manchette: in bilico tra il Sud in rincorsa e il ricco Nord, diventa il territorio di una guerra interculturale prima ancora che economica. E lo stesso Massimo Carlotto ambienta a Marsiglia gran parte del suo Respiro corto, a dispetto del titolo un romanzo di respiro ampio e internazionale, dove i grandi interessi economici incontrano le terribili storie di degrado personale e sociale del nostro tempo. Il mare; lo stesso mare sul quale si affaccia, per venire al nostro Paese che è diventato un luogo «istituzionale» della narrativa nera mediterranea, la Genova di Bruno Morchio e del suo Bacci Pagano, investigatore sofferente e sensibilissimo che porta attraverso i carruggi della città vecchia uno sguardo apparentemente cinico e invece tormentato e dolente. E, con un salto di molti chilometri, l’avvocato Guerrieri di Gianrico Carofiglio, che con una scrittura raffinata e innovativa porta il legal thriller in casa nostra, adeguando il genere a mentalità e a modalità di dialogo calde e appassionate, lontane da quella freddezza procedurale e dai tecnicismi che caratterizzano i romanzi d’oltreoceano.
È come se la nostra narrativa sentisse la necessità del mare, l’essenza di un simbolo del disordine, dell’inaffidabile, del mobile e dell’incertezza, pur nella enorme diversità dei linguaggi: Marco Malvaldi, col suo irresistibile Bar-Lume, che fa molto sorridere emolto riflettere sulla piccola provincia partendo dal litorale pisano, impreziosito dalla pineta che dialoga ininterrottamente con le onde. E naturalmente il grande Andrea Camilleri, lo scrittore che ha dato inizio all’età dell’oro del romanzo di genere italiano, sdoganando una narrativa fino a lui ospitata, pur con grandissime eccezioni come Scerbanenco, Veraldi, Fruttero e Lucentini, negli scaffali nascosti delle librerie. L’autore siciliano, con la voce inconfondibile dall’immaginaria e assolata Vigata, ha una scrittura fatta di mare; quel mare nel quale il suo Montalbano va a nuotare per trovare e schiarire le idee, come se volesse, lui catanese in trasferta, ritrovare un liquido amniotico che è casa sua più di ogni altro luogo.
Mare che è anche isolamento, introspezione, tradizione di solitudine e talvolta di violenza, come testimoniato dalla narrativa sarda di Fois, Todde, Murgia, Niffoi. Mare che sa diventare una cortina impenetrabile, mare che copre luoghi mortalmente affascinanti e poco disponibili a essere compresi, mare che racconta nella propria lingua, senza porsi il problema di piacere a chi ascolta. Mare che diventa una necessità narrativa anche per chi non ce l’ha, come lo scrittore tedesco Veit Heinichen che fa adottare da Trieste il suo poliziotto salernitano Proteo Laurenti, che insieme ai delitti analizza la storia e la tradizione di un luogo che fa del vento e dell’acqua la propria identità.
Verso Oriente la scottante, violenta attualità dell’ateniese Petros Markaris, che con una narrazione vertiginosa e rapidissima in prima persona e al presente si serve del veicolo del commissario Kostas Charitos per squarciare il velo sugli effetti della crisi sul popolo e sulla nazione che hanno costruito la nostra cultura, e nei confronti dei quali costantemente dimentichiamo l’enorme tributo dovuto. Il caso di Markaris è paradossale: greco di padre armeno, ha studiato in Germania e scrive romanzi e saggi, oltre che nella lingua madre, in turco, tedesco, inglese e francese.
Il più europeo degli scrittori è anche quello che la congiuntura corre il rischio di estromettere dall’unità economica continentale. Nel suo ultimo romanzo, Resa dei conti, immagina appunto un gennaio 2014 in cui Spagna, Italia e Grecia devono tornare a peseta, lira e dracma perché espulse dall’euro; uno scenario drammaticamente realistico, in cui il crimine percorre come un demonio le strade di una città straziata da conflitti generazionali e manifestazioni di piazza, da una sopraggiunta condivisa povertà e dall’orgoglio ferito di una nazione che porta il peso della propria storia. La materia di un saggio di macroeconomia resa fruibile e incredibilmente interessante, riferita attraverso le storie delle persone, il loro sangue, la loro dannazione. Uno svelamento, attraverso il linguaggio quotidiano, di ciò che sta avvenendo di là dal nostro mare, a tiro di traghetto: e che ci può dire di noi stessi molto più di quanto siamo disposti ad ammettere.
La funzione del romanzo nero è del resto questa: raccontare in termini concreti, individuali e familiari la ricaduta sulla gente dei grandi disagi collettivi; e il mar Mediterraneo è teatro e tessuto connettivo dell’incontro tra popoli diversi. Un confronto, a volte scontro, frutto di un’astrazione politica ed economica che si chiama Europa e che di fatto è sempre più lontana da se stessa; ma che il mare ha raccontato, e continuerà a raccontare com’è, attraverso i suoi autori neri, senza alcun tributo all’etica e all’estetica.
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