martedì 9 luglio 2013

Filosofia dei giramondo



"Domenica - Il Sole 24 ore", 19 maggio 2013

Sembra impossibile, ma una sosta particolarmente amata nel corso del Gran Tour settecentesco è Cento, un paesotto della bassa padana allora ammorbato dal tanfo delle marcite di canapa. Ma in quel luogo è nato il Guercino, il pittore più amato dai forestieri, e vi sono conservate molte sue opere. Goethe s'inerpica sul suo campanile per vedere chi sa che, mentre con la tipica iperbole del viaggiatore Anna Miller dice di avervi scoperto i dipinti più belli del mondo. Nell'ultimo scorcio del Settecento, altri inglesi battevano le campagne di Cento: erano mercanti di canapa che fornivano il cordame per la marineria britannica. Per cui, oltre che arricchire le quadrerie inglesi, Cento ha permesso a James Cook di veleggiare verso la barriera corallina e alla Gran Bretagna di «governar le onde», come canta l'inno imperiale.
I due generi di viaggiatori che s'incontrano a Cento segnano l'apogeo del secolo d'oro dei viaggi. I nipoti e i pronipoti di Anna Miller sarebbero diventati dei turisti pronti a rubare con gli occhi quei capolavori che gli antenati trafugavano con pochi soldi. Quelli di Cook avrebbero narrato le esplorazioni più ardimentose ammantandole di eroica follia. È forse un caso che le morti di grandi navigatori come Magellano o come Cook per mano dei nativi delle Filippine, il primo, e delle Hawaii il secondo, vengano tramandate sulla falsariga del dio che s'immola per la redenzione degli uomini? Con quelle morti salvifiche si metteva in scena l'apoteosi dell'europeo portatore della parola divina e della civiltà in un mondo selvaggio.
Il fascino autentico di ogni genere di viaggio nasce dalla sua ambiguità, dal propagandare un valore, materiale o immateriale che sia, lasciando simultaneamente balenare il suo contrario. Approdato a Tahiti poco prima di Cook con l'idea che le ricchezze del globo appartengono all'Europa in nome del suo primato scientifico, Louis-Antoine de Bougainville viene ricevuto con affabilità dal capotribù e dalle sue donne. Solo il padre del capo, un vecchio impassibile come un idolo, non risponde ai segni di amicizia dell'ospite inatteso. La sua aria trasognata e pensosa lascia forse intendere che i giorni felici dell'isola sono finiti per sempre con l'arrivo di una nuova razza di uomini? Nella scena rievocata da Bougainville, il vecchio assume su di sé le imbarazzate riflessioni dell'ospite venuto dal mare, come se sul suo immobile volto si rispecchiasse il senso di colpa di chi è consapevole di stare contaminando un lembo di paradiso.
Parlare dei viaggi di esplorazione e di quelli di commercio significa mettere a nudo non solo le responsabilità dell'Occidente europeo nella creazione di grandi imperi coloniali, ma le ideologie attraverso le quali vengono promulgate simili imprese. Quando gli spagnoli prendono brutale possesso del Nuovo Mondo a Occidente e, quasi negli stessi anni, i portoghesi impiantano il monopolio commerciale delle spezie a Oriente, nell'Oceano Indiano, invocano entrambi Santiago Matamoros, proiettando su popolazioni imbelli e perfino impreviste l'ombra dei Mori, gli antichi nemici contro i quali promossero un tempo la crociata della Reconquista. Ma con i loro viaggi, i mercanti sono pur sempre gli antropologi e gli etnografi del passato. Annunciando la fine dei viaggi, Lévy-Strauss ricordava con rimpianto l'Oriente «non ancora infangato» di Tavernier e del veneziano Manucci. Estromessi dai monopoli commerciali creati dalle potenze atlantiche, proprio gli italiani erano diventati, fra Cinquecento e Seicento, dei mercanti anomali, avventurieri capaci di progettare il giro del mondo per ricavarsi spazi commerciali autonomi con incredibile intraprendenza. Ma proprio il ruolo di liberi battitori, svincolati dalla politica degli Stati, permetteva a mercanti fiorentini come Filippo Sassetti e Francesco Carletti di cogliere la drammatica cancellazione del sostrato etnografico che la presenza europea aveva determinato nelle civiltà orientali e in quelle occidentali del pianeta. Essi sono forse i primi ad avere coscienza delle devastanti conseguenze che i processi di colonizzazione e i monopoli commerciali hanno provocato a livello globale. Inoltre essi appaiono non indegni compagni di quegli avventurieri, come Ludovico di Varthema o Gemelli Careri, che nello stesso lasso di tempo viaggiano per vedere il mondo e «strofinare il cervello» contro quello degli altri, mercanteggiando naturalmente alla bisogna.
Un residuo dell'istinto di colonizzazione condiziona lo sguardo del più disinteressato dei viaggiatori. Giunto travestito da afgano alla Mecca, la città proibita ai non mussulmani, Richard Francis Burton, principe degli esploratori, volge lo sguardo alla Kaaba, la "Casa del Signore" coperta dal drappo funereo. Ne rimane affascinato e annichilito allo stesso tempo, perché tutti i suoi parametri di riferimento si rivelano incongrui. Nulla che abbia a che fare con la maestosità dell'arte egizia, né con la barbarica magnificenza dell'India e tanto meno con la sublime armonia della Grecia e dell'Italia. Gli sembra addirittura che nessuno degli adoratori che premono il cuore pulsante contro la sacra dimora possa provare un'emozione più intensa della sua, del pellegrino venuto dal Nord. Il fatto è, riflette fra di sé Burton, che la loro è l'emozione intensa della fede, la sua è l'estasi arrogante della sfida vinta.
Solo la discrezione di Henry James può allora dare un senso al viaggio sollecitando il viaggiatore ad auscultare lo spirito del luogo e a fingersi la sua storia e le sue trame dimenticate. Esiste ancora un pellegrino appassionato, si chiedeva sulle sponde fatali del Trasimeno, il quale, muovendosi in questo luogo in un meriggio d'estate, sia in grado di percepire il languore della brezza carica di ossessivi fantasmi? Gli risponde Aldous Huxley per bocca di due americane che viaggiano fra Firenze e Roma. «Che bel lago! Come si chiama?» fa una, e l'altra risponde: «Non me lo ricordo, ma ci deve essere successo qualcosa!».



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