sabato 13 luglio 2013

E Verdi scriveva: "La Traviata? È una puttana..."


Escono le lettere del musicista, 
dove se la prende con la censura 
che ha edulcorato il personaggio di Violetta 
senza mezzi termini.


Marco Filoni

"Il Venerdì", 12 luglio 2013


È un'icona pop. O meglio, avrebbe potuto esserlo. Giuseppe Verdi, di cui quest'anno si festeggia il bicentenario della nascita, è stato un genio. Ora, la categoria ha tutta una sua grammatica. Il genio sprizza creatività da ogni poro, sbadataggine per le cose del mondo, disagio in ogni occasione e inadeguatezza nella gestione quotidiana. Soprattutto è incompreso. Magari pure un po' austero. Ecco che invece Verdi smentisce tutto di questo vecchio adagio duro a morire. Il suo destino ha voluto che fosse un genio compreso: non vi è elemento nella sua carriera che non abbia contribuito a renderlo popolare e noto a un vastissimo pubblico.
Una perfetta sintonia, senza tempo: dal nome e cognome, nulla di più comune; al volto perfettamente e tipicamente italiano; sino a l'orecchiabilità di quelle cinque o sei arie riconoscibili da tutti, persino dai più avversi alla musica classica. Tutto ha contribuito a fare del musicista un campione nazionale, la rappresentazione perfetta dell'italico talento da esportare e di cui andare fieri. Un'icona pop, appunto. Che non ha mai smesso di assolvere il suo ruolo. Fra gli anni Sessanta e l'inizio degli anni Ottanta tutti l'hanno tenuto in mano o in tasca: il bel volto baffuto del musicista ha campeggiato, col capello ondulato, sulle mille lire prima dell'introduzione dell'euro. E poi la toponomastica la dice lunga: a oggi sono 3036 le strade, piazze, vie e viali e vicoli dedicati a Verdi - secondo soltanto a Dante fra gli artisti.
I festeggiamenti per il bicentenario sono una buona occasione per rileggere le sue lettere. Per anni il musicista, appena sveglio, ha dedicato diverse ore a sbrigare la corrispondenza. Altro che austero: le sue missive restituiscono un Verdi allegro e giocoso, amante del divertimento e con una buona dose di ironia. Si potrà leggere l'intera corrispondenza, un epistolario impressionante che svela i diversi aspetti della personalità del maestro, nella sontuosa edizione che Einaudi ha preparato lo scorso anno (Lettere, pp. 1165, euro 90). Oppure si può prendere in mano il più agile e stuzzicante volumetto dal titolo, esplicito, 
È così bella cosa il ridere. Lettere di un genio compreso (L'Orma editore, pp. 64, euro 5) in libreria. In questo libello il curatore Eusebio Trabucchi (che poi, sarà forse un caso, Eusebio era il nome con il quale Gianfranco Contini chiamava Montale; e Trabucco era l'epiteto con il quale Montale apostrofava Contini) ha selezionato le lettere più divertenti accludendo una gustosissima introduzione, tutta da leggere.
E si ha l'impressione di gustare appieno la sanguigna verve del maestro, il suo ostinato rigore, la letizia nel raccontare i successi tali che un'intera nazione si identificherà nella sua musica. E pensare che avrebbe potuto essere una storia diversa e tragica: dagli esordi difficili («io passo la mia più bella gioventù nel niente» scrive Verdi nel 1836) fino a una tristissima vicenda familiare. In poco più di tre anni, fra il 1837 e il 1840, il compositore perde entrambi i suoi figli e la moglie, appena ventiseienne. Avrebbe distrutto chiunque, pure un animo determinato come Verdi. Eppure (leggenda agiografica o verità storica?), afflitto dalla disperazione, intento in una triste serata a spostare gli oggetti di casa cercando di ingannare il dolore, ecco che un libretto inviatogli e di cui ha già deciso di rifiutare il metterlo in musica, cade e si apre. Va', pensiero, sull'ali dorate, recita la frase del coro. Segue una notte insonne, un lampo, un innamoramento. Il Nabucco.
Poi la Scala di Milano: un trionfo, sessantaquattro repliche. Ecco che il genio è esploso, compreso. Il maestro inizia a viaggiare fra i più grandi teatri d'Europa. E le descrizioni dei posti, delle innate disposizioni d'animo dei suoi ospiti, del carattere degli inglesi o dei tedeschi. Cui segue un'attenta disamina gastronomica dei cibi, nonché degli spiriti assaporati o incontrati. Non manca qualche malizia: giudizi solenni, veementi tirate d'orecchie e qualche indiscrezione da malalingua - troppo ironica per non essere più che intelligente.
All'amico scultore Vincenzo Luccardi che lo aspetta a Roma raccomanda di fargli trovare un ottimo pranzo, un pianoforte come si deve e soprattutto uno stato d'animo che si convenga: «Ricordati che vogliamo ridere» ammonisce scherzoso. L'allegra ironia accompagna Verdi anche nei momenti di astio. Rivolgendosi ancora a Luccardi lamenta l'intervento della censura sulla Traviata, che per l'improbabile riscrittura di anonimi e grigi burocrati era diventata Violetta. Ecco allora il maestro annunciare che non andrà alla prima romana: «Non verrò a Roma per più motivi. Il primo perché l'Impresario è uno spilorcio: il secondo perché la Censura ha guastato il senso del dramma. Han fatto la Traviata pura ed innocente. Tante grazie! Così han guastato tutte le posizioni, tutti i caratteri. Una puttana deve essere sempre puttana. Se nella notte splendesse il sole non vi sarebbe più notte. In somma non capiscono nulla».
Altrettanto dirette le lettere destinate a Francesco Maria Piave, amico sincero del maestro e autore di ben dieci libretti delle sue opere più famose. Ecco Verdi lamentare le lungaggini nella redazione del libretto del Macbeth: «Mio bel Mona te la prendi comoda con questo Macbet!!.. Sappia addumque mio Signor Mona dei Mona che io non posso più aspettare che a momenti ho finito il primo atto e che non voglio perder tempo per Lui Signor Mona dei Mona Monissimo - Mandami subito il secondo atto e studia subito per il terzo! Hai capito? - In quanto alla prima donna non voglio crucciarmene né tagliarmelo via perciò. Sia anche il diavolo non m'importa - Se non ne trovo una a modo mio faccio tagliar i coglioni a te Sior Mona e tu farai da Lady Macbet! Che bella figura! E che effetto faresti? Con una vocina e colla tua grande attitudine al canto! Per Dio che fortuna per te?!!».
E sempre scrivendo allo sventurato Piave, eccolo annunciargli la sua prossima visita: «Io mi fermerò a Padova e se tu non vi sarai sarai un Ludro un porco un gatto un coccodrillo un sorcio: fa' preparare una buona cena (perché talvolta a Padova non si trova) un buon fuoco un buon letto... Guarda che non abbia da bestemmiare perché divento col crescer degli anni sempre più furente. Una volta o l'altra già t'ammazzo».
Insomma, un Verdi come non te l'aspetti. Spiritoso e vero, per nulla noioso, anzi, sempre divertente e divertito. E meno male. Forse anche grazie a questa sua attitudine goliardica la sua icona è sfuggita all'abbraccio della retorica tutta italica che soffoca i suoi eroi. Lui ancora risplende, la sua musica ha illuminato il pubblico di ogni generazione e dopo duecento anni non annoia per nulla. Del resto, ecco cosa scriveva al suo editore Ricordi: «Sia dunque; faremo della musica per... per far quello che fanno tant'altri: annojarsi a morte colla maggior parte della così detta musica classica, colla differenza però che io quando m'annojo dico m'annojo mentre altri fingono estasi per bellezze che non vi sono, o che per lo meno eguali si trovano nella musica nostra. Tant'è; l'epoca attuale parla, si dimena, si affaccenda molto, produce poco, e tende a fabbricarsi una musica nuova con della cipria e delle ossa da morto. Se dentro però vi sarà un po' di Sole, evviva allora la musica nuova».

Nessun commento:

Posta un commento