TOM STANDAGE
"La Repubblica", 12 luglio 2013
I social network oggi vengono additati come nemici della produttività. Secondo un popolare quanto discutibile infografico che gira in rete, l' uso di Facebook, Twitter e altri siti del genere durante l' orario di lavoro costa all' economia americana 650 miliardi di dollari all'anno. I nostri intervalli di attenzione si stanno atrofizzando, i nostri punteggi ai test sono in calo: e tutto a causa di queste «armi di distrazione di massa». Ma non è la prima volta che si sentono lanciare allarmi di questo genere. In Inghilterra, alla fine dei Seicento, c'erano timori simili su un altro ambiente di condivisione dell' informazione, che esercitava un' attrattiva tale da minare, apparentemente, la capacità dei giovani di concentrarsi sugli studi o sul lavoro: i caffè, il social network dell' epoca.
Come il caffè stesso, anche il caffè inteso come locale era stato importato dai paesi arabi. La prima coffeehouse in Inghilterra fu inaugurata a Oxford all'inizio degli anni Cinquanta del Seicento e negli anni successivi spuntarono centinaia di locali simili a Londra e in altre città. La gente andava nei caffè non solo per consumare l' omonima bevanda, ma per leggere e discutere gli ultimi pamphlet e le ultime gazzette, e per tenersi al corrente su dicerie e pettegolezzi. I caffè erano usati anche come uffici postali: i clienti ci si recavano più volte al giorno per controllare se erano arrivate nuove lettere, tenersi aggiornati sulle notizie e chiacchierare con altri avventori.
Alcuni caffè erano specializzati in dibattiti su argomenti come la scienza, la politica, la letteratura o il commercio navale. Dal momento che i clienti si spostavano da un caffè all' altro, le informazioni circolavano con loro. Il diario di Samuel Pepys, un funzionario pubblico, è costellato di varianti dell' espressione «lì nel caffè». Le pagine di Pepys danno un' idea della vasta gamma di argomenti di conversazione che venivano trattati in questi locali: solo nelle annotazioni relative al mese di novembre del 1663 si trovano riferimenti a «una lunga e accesissima discussione fra due dottori», dibattiti sulla storia romana, su come conservare la birra, su un nuovo tipo di arma nautica e su un processo imminente.
Una delle ragioni della vivacità di queste conversazioni era che all'interno delle mura di un caffè non si teneva conto delle differenze sociali. I clienti erano non solo autorizzati, ma incoraggiati ad avviare conversazioni con estranei di diversa estrazione sociale. Come scriveva il poeta Samuel Butler, «il gentiluomo, il manovale, l' aristocratico e il poco di buono, tutti si mescolano e tutti sono uguali». Non tutti approvavano. Oltre a lamentare il fatto che i cristiani avessero abbandonato la tradizionale birra in favore di una bevanda straniera, i detrattori del fenomeno temevano che i caffè scoraggiassero le persone dal lavoro produttivo. Uno dei primi a lanciare l'allarme, nel 1677, fu Anthony Wood, un cattedratico di Oxford. «Perché l' apprendimento serio e concreto appare in declino, e nessuno o quasi ormai lo segue più nell' Università?», chiedeva. «Risposta: a causa dei caffè, dove trascorrono tutto il loro tempo». Contemporaneamente, a Cambridge, Roger North, un avvocato, lamentava la «smisurata perdita di tempo originata da una semplice novità. Perché chi è in grado di applicarsi seriamente a un argomento con la testa piena del baccano dei caffè?». Questi posti erano «la rovina di tanti giovani gentiluomini e mercanti seri e di belle speranze», secondo un pamphlet pubblicato nel 1673 e intitolato Ecco la spiegazione del grande problema dell' Inghilterra. Tutto questo riporta alla mente i duri moniti lanciati da tanti commentatori moderni. Un comune motivo di preoccupazione, allora come oggi, è il fatto che le nuove piattaforme di condivisione dell' informazione possano rappresentare un pericolo in particolare per i giovani.
Ma qual era l' impatto effettivo dei caffè sulla produttività, l'istruzione e l' innovazione? In realtà i caffè non erano nemici dell' industria: al contrario, erano crocevia di creatività perché facilitavano la mescolanza delle persone e delle idee. I membri della Royal Society, la pionieristica società scientifica inglese, spesso si ritiravano nei caffè per prolungare le loro discussioni. Gli scienziati spesso realizzavano esperimenti e tenevano conferenze in questi locali, e dato che l' ingresso costava solo un penny (il costo di una singola tazza), i caffè venivano definiti a volte penny universities. Fu una discussione con altri scienziati in un caffè che spinse Isaac Newton a scrivere i suoi Principia mathematica, una delle opere fondamentali della scienza moderna. I caffè erano piattaforme per l' innovazione anche per il mondo degli affari. I mercanti li usavano come sale di riunione, e nei caffè nascevano nuove aziende e nuovi modelli d' impresa. Il Jonathan' s, un caffè londinese dove certi tavoli erano riservati ai mercanti per realizzare le loro transazioni, diventò poi la Borsa di Londra. Il caffè di Edward Lloyd, popolare luogo d' incontro per capitani di nave, armatori e speculatori, diventò il famoso mercato di assicurazioni Lloyd's. Inoltre, l'economista Adam Smith scrisse buona parte della sua opera più famosa, La ricchezza delle nazioni, nella British Coffee House, un popolare luogo di incontro per intellettuali scozzesi, ai quali sottopose le prime bozze del libro per avere il loro parere. Sicuramente i caffè erano anche posti dove si perdeva tempo, mai loro meriti sono di gran lunga superiori ai loro demeriti. Offrirono un ambiente sociale e intellettuale stimolante, che favorì un flusso di innovazioni che ha dato forma al mondo moderno.
Non è un caso che il caffè sia ancora oggi la bevanda per eccellenza della collaborazione e del networking. Ora lo spirito dei caffè rinasce nelle nostre piattaforme di social network. Anche queste sono aperte a tutti e consentono a persone di diversa estrazione sociale di conoscersi, discutere e condividere informazioni con amici e sconosciuti allo stesso modo, forgiando nuovi legami e stimolando nuove idee. Sono conversazioni interamente virtuali, ma che offrono potenzialità enormi di produrre cambiamenti reali. Certi capi deridono l' uso di questi strumenti durante il lavoro dicendo che non si tratta di social network, ma di social NOTwork, ma altre aziende, più lungimiranti, stanno adottando i «social network d' impresa» (sostanzialmente versioni aziendali di Facebook) per incoraggiare la collaborazione, scoprire talenti e competenze nascosti fra i dipendenti e ridurre l'uso dell' e-mail. Uno studio pubblicato nel 2012 dalla società di consulenza McKinsey & Company ha scoperto che l' utilizzo dei social network all'interno delle aziende ha incrementato del 20-25 per cento la produttività dei «lavoratori della conoscenza». L'uso dei social media nell'istruzione, peraltro, è sostenuto da studi che dimostrano che gli studenti imparano più efficacemente quando interagiscono con altri studenti. L'OpenWorm, un rivoluzionario progetto di biologia computazionale, è partito da un singolo tweet e ora coinvolge collaboratori di tutto il mondo che si incontrano attraverso Google Hangouts.
Chi sa quali altre innovazioni stanno fermentando nel caffè globale di Internet? C'è sempre un periodo di aggiustamento quando compare una nuova tecnologia. Durante questa fase di transizione, che può richiedere anni, le tecnologie sono spesso oggetto di critiche perché sconvolgono il modo tradizionale di fare le cose. Ma la lezione dei caffè ci insegna che le moderne paure sui pericoli dei social network sono esagerate. In realtà questo tipo di comunicazione ha una lunga storia: l' uso dei pamphlet da parte di Martin Lutero durante la Riforma getta nuova luce sul ruolo dei social media nella Primavera Araba, per esempio, e ci sono paralleli fra le maldicenze in versi che circolavano nella Francia prerivoluzionaria e l' uso del microblogging nella Cina moderna. Per affrontare le problematiche sollevate dalle nuove tecnologie, è al passato che dobbiamo guardare.
© 2013 The New York Times, Distributed by the New York Times Syndacate. Tom Standage è direttore digitale dell' Economist e l' autore del libro di prossima pubblicazione Writing on the Wall: Social Media - The First 2000 Years. Traduzione di Fabio Galimberti
Social Networking in the 1600s
LONDON — SOCIAL networks stand accused of being enemies of productivity. According to one popular (if questionable) infographic circulating online, the use of Facebook, Twitter and other such sites at work costs the American economy $650 billion each year. Our attention spans are atrophying, our test scores declining, all because of these “weapons of mass distraction.”
Yet such worries have arisen before. In England in the late 1600s, very similar concerns were expressed about another new media-sharing environment, the allure of which seemed to be undermining young people’s ability to concentrate on their studies or their work: the coffeehouse. It was the social-networking site of its day.
Like coffee itself, coffeehouses were an import from the Arab world. England’s first coffeehouse opened in Oxford in the early 1650s, and hundreds of similar establishments sprang up in London and other cities in the following years. People went to coffeehouses not just to drink coffee, but to read and discuss the latest pamphlets and news-sheets and to catch up on rumor and gossip.
Coffeehouses were also used as post offices. Patrons would visit their favorite coffeehouses several times a day to check for new mail, catch up on the news and talk to other coffee drinkers, both friends and strangers. Some coffeehouses specialized in discussion of particular topics, like science, politics, literature or shipping. As customers moved from one to the other, information circulated with them.
The diary of Samuel Pepys, a government official, is punctuated by variations of the phrase “thence to the coffeehouse.” His entries give a sense of the wide-ranging conversations he found there. The ones for November 1663 alone include references to “a long and most passionate discourse between two doctors,” discussions of Roman history, how to store beer, a new type of nautical weapon and an approaching legal trial.
One reason these conversations were so lively was that social distinctions were not recognized within the coffeehouse walls. Patrons were not merely permitted but encouraged to strike up conversations with strangers from entirely different walks of life. As the poet Samuel Butler put it, “gentleman, mechanic, lord, and scoundrel mix, and are all of a piece.”
Not everyone approved. As well as complaining that Christians had abandoned their traditional beer in favor of a foreign drink, critics worried that coffeehouses were keeping people from productive work. Among the first to sound the alarm, in 1677, was Anthony Wood, an Oxford academic. “Why doth solid and serious learning decline, and few or none follow it now in the University?” he asked. “Answer: Because of Coffea Houses, where they spend all their time.”
Meanwhile, Roger North, a lawyer, bemoaned, in Cambridge, the “vast Loss of Time grown out of a pure Novelty. For who can apply close to a Subject with his Head full of the Din of a Coffee-house?” These places were “the ruin of many serious and hopeful young gentlemen and tradesmen,” according to a pamphlet, “The Grand Concern of England Explained,” published in 1673.
All of which brings to mind the dire warnings issued by many modern commentators. A common cause for concern, both then and now, is that new media-sharing platforms pose a particular danger to the young.
But what was the actual impact of coffeehouses on productivity, education and innovation? Rather than enemies of industry, coffeehouses were in fact crucibles of creativity, because of the way in which they facilitated the mixing of both people and ideas. Members of the Royal Society, England’s pioneering scientific society, frequently retired to coffeehouses to extend their discussions. Scientists often conducted experiments and gave lectures in coffeehouses, and because admission cost just a penny (the price of a single cup), coffeehouses were sometimes referred to as “penny universities.” It was a coffeehouse argument among several fellow scientists that spurred Isaac Newton to write his “Principia Mathematica,” one of the foundational works of modern science.
Coffeehouses were platforms for innovation in the world of business, too. Merchants used coffeehouses as meeting rooms, which gave rise to new companies and new business models. A London coffeehouse called Jonathan’s, where merchants kept particular tables at which they would transact their business, turned into the London Stock Exchange. Edward Lloyd’s coffeehouse, a popular meeting place for ship captains, shipowners and traders, became the famous insurance market Lloyd’s.
And the economist Adam Smith wrote much of his masterpiece “The Wealth of Nations” in the British Coffee House, a popular meeting place for Scottish intellectuals, among whom he circulated early drafts of his book for discussion.
No doubt there was some time-wasting going on in coffeehouses. But their merits far outweighed their drawbacks. They provided a lively social and intellectual environment, which gave rise to a stream of innovations that shaped the modern world. It is no coincidence that coffee remains the traditional drink of collaboration and networking today.
Now the spirit of the coffeehouse has been reborn in our social-media platforms. They, too, are open to all comers, and allow people from different walks of life to meet, debate, and share information with friends and strangers alike, forging new connections and sparking new ideas. Such conversations may be entirely virtual, but they have enormous potential to bring about change in the real world.
Although some bosses deride the use of social media in the workplace as “social notworking,” more farsighted companies are embracing “enterprise social networks,” essentially corporate versions of Facebook, to encourage collaboration, discover hidden talents and knowledge among their employees, and reduce the use of e-mail. A study published in 2012 by McKinsey & Company, the consulting firm, found that the use of social networking within companies increased the productivity of “knowledge workers” by 20 to 25 percent.
The use of social media in education, meanwhile, is backed by studies showing that students learn more effectively when they interact with other learners. OpenWorm, a pioneering computational biology project started from a single tweet, now involves collaborators around the world who meet via Google Hangouts. Who knows what other innovations are brewing in the Internet’s global coffeehouse?
There is always an adjustment period when new technologies appear. During this transitional phase, which can take several years, technologies are often criticized for disrupting existing ways of doing things. But the lesson of the coffeehouse is that modern fears about the dangers of social networking are overdone. This kind of media, in fact, has a long history: Martin Luther’s use of pamphlets in the Reformation casts new light on the role of social media in the Arab Spring, for example, and there are parallels between the gossipy poems that circulated in pre-Revolutionary France and the uses of microblogging in modern China.
As we grapple with the issues raised by new technologies, there is much we can learn from the past.
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