Scoperte scientifiche e il sogno di «Avatar»
La lunga ricerca di pianeti simili al nostro
Sandro Modeo
"Corriere - La Lettura", 7 luglio 2013
In uno degli episodi più geniali della serie Ai confini della realtà (Il terzo dal sole, sceneggiato dal grande Richard Matheson appena scomparso) due famiglie decollano nella notte, in assoluta segretezza, su un'avveniristica navetta spaziale. In fuga da un'imminente guerra nucleare, viaggiano verso un pianeta che possa ospitarli: un pianeta — dice uno dei viaggiatori, rovesciando e retroilluminando tutto il racconto — «chiamato Terra», dove abitano «persone come noi».
Come quegli alieni, anche noi Sapiens inseguiamo da qualche decennio pianeti simili al nostro: duplicati (o gemelli) della Terra, in cui trovare vie di fuga da un ambiente allo stremo tra sovrappopolazione, esaurimento delle risorse e alterazione climatica. E proprio da qualche decennio, una simile prospettiva è sempre meno visionaria, almeno nella verifica astronomica, dato che satelliti e telescopi hanno spalancato ai nostri occhi uno scenario con centinaia di pianeti extrasolari (o esopianeti) distribuiti lungo la Via Lattea; molti dei quali, se non gemelli, «cugini» della Terra. Nel penetrare in questo scenario, ci accompagnano due libri di due astrofisici autorevoli: Strange New Worlds, del singalese Ray Jayawardhana (cattedra a Toronto) e I pianeti extrasolari di Giovanna Tinetti (che insegna all'University College London); il primo (appena uscito nell'edizione tascabile) più complesso e analitico, il secondo (da poco in libreria) più divulgativo, ma accomunati da un'identica architettura espositivo-argomentativa.
Com'è noto, l'idea della «pluralità dei mondi», abitati o no (ben diversa da quella degli «universi paralleli» implicita nella meccanica quantistica) si estende dagli atomisti greci a Giordano Bruno, toccando il suo senso profondo nella visione eliocentrica intuita da Aristarco nel III secolo a.C. e scongelata (18 secoli dopo) da Copernico, con la Terra detronizzata da ogni centralità e oggi dispersa lungo una galassia di 100 miliardi di stelle (con un numero medio uguale di ipotetici pianeti), circondata a sua volta da 100 miliardi di altre galassie, attuali confini dell'universo osservabile.
Il passaggio dalla speculazione — scientifica e/o fantastica — alla concretezza avviene con due scoperte ravvicinate. La prima, nel 1990 (autori Alexander Wolszczan e Dale Frail) è l'esopianeta PSR B1257 +12, orbitante intorno a una pulsar, cioè a una di quelle stelle agonizzanti di cui si possono ascoltare gli ultimi battiti come remoti e regolari segnali radio, residui di un ciclo vitale che le può vedere splendere, al loro apice, cento volte più del Sole. La seconda, nell'ottobre '95 (autori gli svizzeri Michel Mayor e Didier Queloz, confermata dagli americani Geoffrey Marcy e Paul Butler) è quella di 51 Pegasi b, ritenuto il primo esopianeta a tutti gli effetti data l'eccezionalità di quelli intorno alle pulsar (di fatto, solo due). Da quel momento sono stati classificati più di 800 esopianeti, utilizzando tecniche diverse e complesse, che si appoggiano a satelliti-telescopi sofisticati (Corot dal 2006 e Kepler dal 2009, cui seguirà Cheops dal 2017) e misurano per lo più le variazioni di movimento o luminosità della stella madre. Esemplare il «transito», in cui si studiano i fiochi cali di luce (dell'1%) al passaggio del pianeta davanti alla stella.
Come si caratterizzano questi «nuovi strani mondi»? Fondati su stelle celibi o bigame/poligame (come il nostro sistema solare a otto pianeti, dopo il declassamento di Plutone a «nano»), possono avere anche pianeti bigami, come Kepler 16 (AB), del tutto simile al Tatooine di Star Wars, orbitante intono a due soli e quindi con doppia alba e doppio tramonto. Quanto ai pianeti stessi (con orbite molto più eccentriche rispetto a quelle circolari dei nostri) danno vita a una tassonomia spartita in tre tipologie di base: i «giganti» (come i «gioviani caldi»); le più piccole «super-Terre» (i più diffusi, tra cui miliardi di simil-Terre); e gli intermedi «nettuniani». Spesso, molti di questi pianeti orbitano molto vicini alla stella, raggiungendo temperature altissime (i 2.600° centigradi di WSP-12b); e quando girano in rotazione sincrona, hanno una faccia rovente e una ghiacciata, con escursioni tremende (vedi Corot-7b, la prima super-Terra scoperta, che passa da 2.000° a -200°).
In teoria, sembrerebbe impossibile trovare vita (non necessariamente intelligente) su questi «mostri» astrofisici. Eppure, sia Jayawardhana che la Tinetti prospettano un quadro più probabilistico. Per un verso, sono stati classificati solo 800 pianeti extrasolari su miliardi (per tacere di quelli extragalattici, forse presto osservabili) e si conosce la composizione chimica solo di una ventina. Per un altro, ci sono già prove di molecole organiche complesse in regioni stellari o planetarie aliene, tra cui amminoacidi (i mattoni delle proteine) o precursori dei nucleotidi, le molecole da cui si formano Rna e Dna. Certo, la Terra ha caratteristiche che possono sembrare rare se non irripetibili: un campo magnetico e un effetto serra che trattengono l'acqua e il suo ciclo (a differenza di Venere o Marte, che hanno perso per sempre oceani e atmosfere) e una grande quantità di ossigeno, esito della fotosintesi clorofilliana e di un'attività metabolica cominciata coi microrganismi delle origini. Ma questo non esclude che si possano formare condizioni e cocktail chimici biocompatibili in pianeti intorno a stelle più piccole e fredde del Sole (o più grandi e calde); purché il pianeta sia, secondo i casi, più vicino o lontano dalla stella, come nell'esoluna Pandora di Avatar. Proprio Avatar, del resto, ci ricorda con la sua flora-fauna fluorescente come eventuali organismi alieni si presenterebbero con adattamenti a radiazioni di luce diverse dalla nostra (con lunghezze d'onda più lunghe o più corte): le piante con pigmenti che le renderebbero ai nostri occhi arancio-rosse o nere, gli animali con sistemi visivi simili a quelli degli uccelli o di certi serpenti.
In ogni caso, con la nostra tecnologia, il muro da superare per una migrazione interplanetaria sarebbe insormontabile: l'esopianeta più vicino, Alpha Centauri Bb (nel sistema, di nuovo, che ha ispirato Avatar) si trova a 4,4 milioni di anni luce, percorribili con gli attuali razzi in 135 mila anni, e con razzi a fusione nucleare (1/10 della velocità della luce) in «soli» 100 anni. Potremmo arrivarci, quindi — dopo aver risolto il problema dell'accelerazione graduale — solo con viaggiatori ibernati (come in 2001 di Kubrick) o con colonie disposte a riprodursi in viaggio, come in Paradisi perduti di Ursula Le Guin, in cui peraltro la quinta generazione nata nell'astronave decide di restare a bordo per sempre.
A meno che (restando nella proiezione fantastica) non succeda come nel racconto di James Gunn, Un regalo dalle stelle, dove un ingegnere aeronautico trova un manuale, la cui appendice contiene le istruzioni per costruire un'astronave dalla «propulsione inaudita». Nel libro di Gunn, il protagonista, guidato da un'antica e iper-evoluta civiltà aliena, arriva a scoprire la genesi di tutte le altre, compresa la terrestre. A noi basterebbe molto meno: che in qualche «nuovo strano mondo» una traccia di vita metta fine alla nostra lunga solitudine. Sarebbe quello il nostro «regalo dalle stelle».
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