Michele Smargiassi
"La Repubblica", 7 luglio 2013
Ma insomma, cosa vogliono da noi questi dipinti? Perché è chiaro che i dipinti pensano in proprio, e quando avrete finito di leggere o di rileggere questo pirotecnico volumetto di Daniel Arasse pure voi sarete persuasi che i dipinti desiderano qualcosa, producono senso anche oltre la volontà del pittore che li dipinse e oltre lo scopo per cui li dipinse.
Francese nato in Algeria, discepolo di André Chastel e Pierre Francastel, Arasse è il sorridente storico dell’arte che ha fatto della sua disciplina una rigorosissima gaia scienza, lui diceva serio ludere; e averlo perso dieci anni fa, a soli 59 anni per una malattia degenerativa, lascia una lacuna non ancora colmata. Questo Non si vede niente riportato in libreria da Einaudi è una delle sue ultime opere, la meno accademica, la più gioiosamente provocatoria. Descrizioni, dice modestamente il sottotitolo: sono invece sei letture di quadri in forma di apologhi, dialoghi, atti unici con personaggi, come la collega Giulia che Arasse scandalizza raccontando un Tintoretto come «una scena da vaudeville», o l’anonimo storico dell’arte italiano (sotto con le ipotesi…) a cui intima spazientito «ancora l’iconografia! Ma guardi il quadro!». Sono piccole sceneggiature spumeggianti, spiritose, spregiudicate, che celano una robusta teoria dell’arte, o meglio dell’opera d’arte, un’idea della pittura come «pensiero visivo», come tensione desiderante e perfino erotica, che ribalta i tavoli degli studiosi e fa arrossire qualche pudore accademico. Cosa guardano gli acciaccati Magi di Brueghel fra le gambette di Gesù Bambino? Non vedete che i lunghi capelli di Maria Maddalena, mediatrice tra Eva e Maria, sono il suo «pube convertito»? Cosa sta per combinare il Vulcano di Tintoretto scoprendo le grazie di sua moglie Venere (guardate nello specchio…)? E l’altra Venere, l’urbinate di Tiziano, perché giocherella con la manina sinistra in quella posizione imbarazzante, mentre ci guarda negli occhi, e soprattutto in che luogo si trova, e dove vuole portare noi?
Guardiamoli, i dipinti, senza occhiali scuri, via quel «filtro solare che protegge dal bagliore del quadro», schermo timoroso degli storici che si nascondono dietro la corazza delle «fonti coeve», liberiamoci di quella «iconografia documentale» che sommerge il testo dell’opera con le carte delle biblioteche e finisce per rendere «opaca» la soglia del quadro, smettiamola di ignorare i dettagli ribelli nei quali si nasconde non il diavolo ma l’angelo dell’opera. Guai a chi schiaccia la lumaca. Sì, la lumaca incongrua che Francesco del Cossa ha dipinto sul bordo della sua Annunciazione, e che dopo stringente istruttoria Arasse fa confessare di essere il nostro stesso sguardo che entra nel quadro per denunciarne la magnifica finzione, la fantastica illusione.
Il metodo di Arasse è eccentrico, ma niente affatto bizzarro, il suo uso dei dettagli ricorda il “sistema Morelli”, la sua ermeneutica è abduttiva, audace, per lui un dipinto è un nodo gordiano che possiede uno scioglimento, un campo di indizi che devono connettersi, Arasse non rifiuta il soccorso di semiologia e sociologia, né disdegna l’aiuto delle “fonti”, non è un anti-iconografo, semmai un iconografo sovversivo, convinto che il senso dell’opera sia disposto nella sua trama, ma non necessariamente nel modo in cui il pittore ce l’ha messo. Viva l’anacronismo dunque: il significato di un quadro può attendere, per rivelarsi, tempi e contesti lontani da quello originario. Con questo spirito Arasse affronta dopo qualche esitazione («lasciatelo riposare un po’ questo quadro…») anche le ormai inaffrontabili Meninas di Velàzquez, il dipinto più sovranalizzato della storia dell’arte, per una volta non scandalizzandosi per l’«appropriazione» strutturalista che ne fece Foucault, che pure corregge.
Se poi vogliamo continuare a pensare che nei dipinti degli Antichi Maestri «non si vede niente», facciamo pure. Arasse ci avverte, però, che è solo perché «in ciò che guardate non vedete nulla. O meglio, in ciò che vedete, non vedete ciò che guardate».
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