Noi antichi - Classicismi Quotidiani. Testi, immagini, icone e archetipi che permeano inconsapevolmente la vita di ogni giorno
di Glenn Most, "Il Sole 24 ore", 19 giugno 2011
Come si arriva dalla polis alla polizia? O dalle sirene di Ulisse a quelle di un’ambulanza? O dalle antiche accezioni della schiavitù, della democrazia, della nudità, dell’omosessualità a quelle odierne? Per dare risposte a queste domande è necessario trovare una forma di guida affidabile e ampia alla ricezione dell’antichità classica greco-romana in tutti i suoi aspetti nelle culture più tarde.
La comprensione e il fraintendimento di letteratura, filosofia, arte, architettura, storia, politica, religione, scienza e vita pubblica e privata dell’antica Grecia e di Roma hanno formato le culture dell’Europa medievale e moderna delle nazioni che da esse provenivano, e a loro volta, hanno aiutato a plasmare altre tradizioni culturali come, ad esempio, l’ebraica, l’islamica, la slava. Ogni ambito della vita e del pensiero postclassico è stato profondamente influenzato dai modelli antichi; e, per la verità, tali modelli non sono stati sempre interpretati in modi che una sobria educazione scientifica odierna considererebbe corretta. Anzi, spesso sono stati dei fraintendimenti creativi a salvare l’eredità antica e a renderla fruibile per l’attualità.
Non si può capire la storia del mondo postclassico senza un riferimento costante alle culture classiche tramite le quali non ha mai smesso di definirsi, d’accordo o in disaccordo, imitando o condannando, venerando o volendo (inutilmente) dimenticare. A un estremo, le culture moderne hanno cercato di identificarsi quanto più pienamente possibile con quelle antiche; all’altro, si sono definite proprio per il loro senso di estraneità e di alienazione dall’antichità. Ai due estremi e in tutti i casi intermedi, l’Europa moderna e le Americhe hanno trovato immancabilmente nella Grecia e nella Roma antiche un “altro” che faceva idealmente al caso della comprensione, della critica e di una ridefinizione di se stesse. Per questo serve meno un lessico, un dizionario o un’enciclopedia, di quanto non serva una guida; in cui un ampio ma limitato numero di argomenti paradigmatici, senza alcuna pretesa di completezza, abbia l’ambizione di indicare la varietà di modi in cui la tradizione postclassica ha tratto sostegno e ispirazione dal riverire, ma anche dal fraintendere e dall’oppugnare, l’antichità classica. Nel volume The Classical Tradition abbiamo ritenuto importante rendere accessibile a un pubblico di esperti e non, in una forma intelligibile e interessante, sia quello che è stato sempre conosciuto sia quello che è stato di recente appreso sull’influenza continuativa della cultura greca e romana antica nel mondo postclassico; una tradizione classica intesa in senso ampio, in modo da includere non solo testi, ma anche immagini e oggetti, idee e istituzioni, monumenti e artefatti, rituali e pratiche che hanno influenzato tanto profondamente le tradizioni occidentali (e non solo). Ma non in senso generale: perché non si è mirato a fornire un dizionario globale di tutte le culture in ogni tempo, ma solo a focalizzare casi empiricamente identificabili di appropriazione e di trasformazione dell’eredità classica. Come guida, il libro che abbiamo curato non pretende di essere esaustivo, bensì spera di fornire, per un lettore generico, un primo prontuario cui rivolgersi per soddisfare dubbi e curiosità e per avere ulteriori suggerimenti di lettura, e insieme, per lo studioso, un’opera di riferimento che indichi lo stato dell’arte della ricerca in diverse discipline insieme a prospettive fruttuose per un ulteriore lavoro.
Per tutti, la nostra guida si augura di essere insieme autorevole e accessibile, informata e gradevole, affidabile e sorprendente. Se ci possiamo permettere di comparare piccole cose con grandi cose (e anche questa formula è un topos centrale della tradizione classica), spereremmo di servire, nel nostro piccolo, come guide per l’interessato e il perplesso, come la Sibilla fece per l’Enea di Virgilio, e come Virgilio fece per Dante, riportando a nuova vita quello che solo apparentemente è morto, e ridando voce a coloro che ci hanno dato la nostra, ma perdendo momentaneamente la loro.
E c’è anche da aggiungere che forse mai una guida del genere è stata così attuale e necessaria come oggi. In tutte le società industriali contemporanee, uno studio intensivo delle lingue antiche è in declino nelle istituzioni educative che tradizionalmente hanno formato le elite sociali e intellettuali. Come risultato, una facile familiarità con la tradizione classica che di solito era il marchio di identità di coloro che avevano beneficiato di una educazione civile è diventata sempre più rara. E tuttavia il fatto che sia scomparsa questa erudizione diffusa non ha fatto sì che le questioni le cui risposte aveva facilitato siano svanite con essa. Al contrario, molte persone nelle società moderne restano curiose relativamente alle tracce innumerevoli dell’antichità ancora visibili nel mondo e relativamente alle origini antiche di vari fenomeni moderni, ma non sanno dove rivolgersi per soddisfare la loro curiosità. Molti dei fatti e delle massime, delle immagini e degli esempi, che una volta erano oggetto di una conoscenza tacita, saranno, lo speriamo, almeno parzialmente spiegati dalla nostra “guida”. Dunque un pubblico ideale per un progetto del genere è in primo luogo composto da vari tipi di membri della nostra cultura europea e nordamericana, ma certo non solo da loro. Idealmente, questa guida doveva essere intitolata non La tradizione classica, ma Una tradizione classica, perché l’eredità culturale europea può essere compresa pienamente solo quando è risituata nel più vasto contesto delle altre culture con cui è sempre stata in dialogo. La tradizione classica greco-romana è solo una nel novero limitato delle tradizioni classiche che definiscono la storia della cultura mondiale, e le sue importanti affinità e divergenze con altre tradizioni classiche, come l’islamica, l’ebraica, la cinese e l’indiana, significa che non può essere compresa in pieno senza un riferimento sistematico a esse. E dunque, alla fine, abbiamo avuto di mira come lettori potenziali non solo i diretti beneficiari della tradizione classica greco-romana, ma anche i membri interessati di altre culture. La nostra speranza è che gli studiosi che comprendono le altre culture non europee meglio di noi siano stimolati sul nostro esempio a esplorare, insieme a noi e con chi speriamo ci segua, le somiglianze e le differenze tra tutte queste tradizioni, in modo tale che così saremo in una posizione migliore per comprendere cos’è che rende tale una tradizione “classica”. In che misura le idee del classico che circolano nel mondo sono il frutto dell’interazione tra varie culture, e in che misura sono invece prodotti endogeni? C’è qualcosa, e se c’è, cos’è che differenzia la tradizione classica in Occidente dalle storie di altri canoni? Nella direzione di un remoto, ma non inimmaginabile, approdo di una storia veramente comparativa di tutte le storie classiche, il nostro è inteso come un invito e come un contributo preliminare.
Quel filo forte che ci lega, di Alessandro Schiesaro, "Il Sole 24 Ore", 19 giugno 2011
Conviene affrontare questo magnifico dizionario sulla tradizione classica partendo dall’inatteso, ricchissimo corredo di immagini. Affiancate ad ampie didascalie, esse prospettano in-fatti una chiave di lettura trasversale quasi autonoma rispetto alle centinaia di voci che compongono il volume. Accanto al Saturno di Goya, l’idra a sette teste della Secessione sudista demonizzata in un poster di propaganda politica del XIX secolo; i manifesti pubblicitari art déco di Nîmes «la Roma francese», il mausoleo imperiale di Lenin sulla piazza Rossa e il giuramento delle reclute sull’altipiano di Masada, insieme a Maria Callas-Medea e alla Melancolia di De Chirico o al macellaio dei cartoons stritolato dalle salsicce, un Laocoonte da fastfood. Evidenze tratte da luoghi, culture, media molto distanti tra loro, per testimoniare plasticamente la lunga durata e la pervasività di quell’insieme multiforme di fenomeni che siamo soliti chiamare, appunto, la tradizione classica. In questa galassia, i curatori si prefiggono il ruolo della guida, come la Sibilla per Virgilio e questi per Dante, dicono, «per portare a rinnovata luce quanti sono solo apparentemente morti e ridar voce a coloro che ci avevano dato la nostra ma l’hanno momentaneamente perduta»: un obiettivo che può sembrare neutrale, ma in realtà circondato da quesiti che negli ultimi tempi si sono fatti sempre più controversi: si può ancora parlare di «tradizione» classica? In che termini? Con quali implicazioni? E ancora: «tradizione» al singolare o al plurale, o, se vogliamo, chi sono i noi cui gli antichi hanno dato la nostra voce?
Fortissima si è fatta ormai la distanza tra quanti, spostando l’accento sulla ricezione del classico,insistono sull’appropriazione cre-ativa ma anche manipolativa, orientata, ideologica, di una cultura già a suo tempo policentrica, ne pongono in rilievo i messaggi anche contrastanti tra loro, le perversioni di lettura cui è stata sottoposta nei secoli. E coloro i quali preferiscono privilegiare ancora gli aspetti di continuità e relativa omogeneità, di tradizione, appunto, senza per questo necessariamente ricadere in un classicismo di maniera.
Soprattutto in Gran Bretagna, ma anche negli Stati Uniti, “ricezione” e “tradizione” costituiscono oggi due metodi distinti e in buona misura contrapposti per inoltrarsi in un settore che fino a poco fa si credeva non solo unitario, ma, in fin dei conti, anche relativamente poco problematico, ancorato a metafore affidabili perché quasi irriflesse, come tradizione o eredità, radici e modelli. All’ombra della Sibilla e di Virgilio i curatori di un’opera per molti versi eccezionale evitano di entrare nel vivo di questo dibattito in modo diretto (non troverete qui né la voce «tradizione» né quella «ricezione»), ma sono i primi a riconoscere che «una tradizione classica», non la tradizione classica toni court,sarebbe stato titolo più adatto a esplicitare la polifonia culturale che negli ultimi decenni almeno ha dato nuovo impulso allo studio del mondo antico. Decenni in cui si assisteva, in parallelo, al venir meno di quella «agevole familiarità» con un insieme di miti e storie, personaggi e monumenti, proverbi e testi canonici, che per secoli aveva costituito una lingua franca della cultura, o, per meglio dire, «il tratto distintivo di coloro che avevano tratto beneficio da una formazione civilizzata e civilizzatrice». Una chiave di lettura, questa, per molti versi controcorrente, che riaffiora non a caso nelle numerose voci dedicate ai creatori e ai campioni della scienza dell’antichità come si è venuta caratterizzando tra Settecento e Ottocento» .
Proprio il dibattito tra i paladini della continuità e i campioni dell’alterità conferma la filigrana edipica del nostro rapporto con quel mondo, del quale continuiamo a non poter fare a meno, specie a livello di immaginario e di simboli, nonostante le ricorrenti crisi di rigetto e le intermittenze nel grado di attenzione che gli riserviamo. Da un secolo a questa parte, da quando Freud propose di leggere i miti e i testi dei greci non solo come grandi capolavori artistici, ma come trasfigurazioni senza tempo di verità profonde della condizione umana, la metafora edipica si è fatta ineluttabile,pur tra rifiuti iconoclastici e riscoperte appassionate. L’archeologia, scienza della tradizione per eccellenza, rappresentava d’altronde agli occhi di Freud il miglior modello esplicativo per comprendere i meccanismi della nostra psiche, una stratificazione di creazioni e rimozioni, di infrastrutture profonde che reggono il peso della nostra impalcatura cosciente, di oggetti nascosti che, riportati improvvisamente alla luce, attivano passioni e fobie. Vale altrettanto l’inverso: perché il nostro atteggiamento nei confronti di un mondo in parte sepolto, in larga parte distrutto, solo a tratti portato alla luce, mobilita lo stesso groviglio di emozioni che siamo soliti associare con il presente della vita. Freud sperimentò queste pulsioni in prima persona. Il differimento nevrotico del viaggio a Roma, agognata, studiata ma a lungo evitata, come racconta lui stesso, riproduce la scena primaria del nostro rapporto con gli archetipi della nostra cultura. Alla fine, naturalmente, anche Freud entrò a Roma, testimoniando, come generazioni prima e dopo di lui, che quell’appuntamento può essere rimandato, ma non cancellato.
——
Quando ridevamo alla greca, di Alessandro Pagnini
«The Classical Tradition» ha il pregio di includere travisamenti, banalizzazioni e stereotipi della cultura come è stata percepita nei secoli
Come mostra la sovraccoperta di questo bel libro, in cui una neoclassica erotica Venere disarma Marte in una pletora di stucchevoli simbologie, il classico non è necessariamente bello. È anche kitsch, è anche sopravvivenza spesso senza più senso di vestigia monumentali e auliche, che si presta all’oblio come al travisamento o al dispregio. Ricordo che al Liceo si rideva di gusto sfogliando un giornalino goliardico di caricature ispirate alla classicità, dove per esempio Turno re dei Rutuli era ritratto come un omaccione cipiglioso che guidava un esercito su pattini a rotelle.
Gli autorevoli studiosi che hanno intrapreso questa opera (a fianco il curatore Glenn Most ci spiega la sua filosofia) hanno voluto che anche gli errori di lettura, i fraintendimenti filologici e di gusto, gli stereotipi banali (che hanno invaso, nel nostro secolo, cinema e immaginario), perfino gli scherzi, avessero uno spazio nella storia della tradizione classica. Essere eredi della classicità greca e romana non vuol dire per forza deferirla; scrivere in modo serio ed erudito sulla nostra storia culturale, non vuol dire rinunciare all’ironia e a una sobria (ma perché no, in qualche caso anche tendenziosa) distanza. Come lo storico dell’arte Salvatore Settis ci ha insegnato in suo recente brillante saggio (Futuro del classico,Einaudi), ogni epoca si rapporta in modo diverso al passato e inventa un’idea diversa di classico, perché questo le serve a pensare il futuro, a creare un ponte tra le proprie radici e un destino che sia il meno possibile casuale. «L’antichità - diceva Novalis - non ci è data in consegna di per sé, non è lì a portata di mano; al contrario, tocca proprio a noi saperla evocare». Leggere e osservare classici è in fondo ridefinire identitariamente se stessi.
Anthony Grafton è uno storico, Glenn Most un filologo classico. Arte, storia, filosofia, politica, antropologia, religione, spettacolo sono materie trattate in questo libro-companion con rigoroso specialismo da un folto gruppo di ottimi collaboratori che non disdegnano mai l’impagabile gusto dell’intrattenimento. Il repertorio di immagini è ricco, ricercato e sapientemente evocativo. Non resta che metterlo a disposizione del pubblico italiano; che anche lui ripensi il classico con il dovuto atteggiamento critico, ma che soprattutto non se ne dimentichi.