sabato 30 novembre 2013

Salviamo la bellezza della cultura classica



I nostri licei sono invidiati nel mondo. Vanno migliorati non aboliti
Rimandati in latino

Maurizio Bettini
 “La Repubblica”, 30 novembre 2013
Il liceo classico è in crisi. Negli ultimi mesi e settimane si è parlato molto di questo tema, anche sui quotidiani, e per la verità, visto il modo in cui trattiamo in Italia la cultura umanistica, dovremmo stupirci del contrario. Pompei si sgretola, i laureati in discipline umanistiche lavorano nei call center e i dottori di ricerca, se va bene, emigrano: perché mai un giovane dovrebbe iscriversi al liceo classico? Nella percezione comune, peraltro largamente alimentata da governanti e gestori di media televisivi, l’immagine di ciò che chiamavamo “cultura” si è trasformata in una sorta di hobby senza oneri per lo Stato, capace di suscitare interesse solo se i “beni culturali” si comportano da veri “beni”, ossia producono ricchezza: e pazienza per l’aggettivo “culturali”. Ciò detto, penso che allontanare per un momento lo sguardo, per riflettere sul problema della presenza della cultura classica nelle scuole italiane – “latino”, “greco” o “latino e greco” che sia – , potrebbe risultare più utile che non fare semplicemente della polemica.
Cominciamo dunque col constatare che la scuola superiore italiana appare ancora caratterizzata da una notevole presenza del latino nell’insegnamento liceale, soprattutto se si analizza questo dato tenendo a mente la frequente obbligatorietà di questa disciplina nei licei. E questo anche a dispetto della continua erosione di ore che l’insegnamento delle materie classiche ha subito, e continua a subire, ad opera delle sempre nuove indicazioni ministeriali.
Ritengo importante che le civiltà classiche continuino a far parte della nostra enciclopedia culturale; sono però altrettanto convinto che questo legame di memoria debba ormai passare attraverso un paradigma differente, più vicino alle esigenze culturali della società contemporanea. Il fatto è che lo studio delle materie classiche, e del latino in particolare, si fonda su un’idea di cultura piuttosto parziale: “cultura” nel senso di apprendimento di una lingua nobile – né io intendo certo mettere in dubbio questa caratteristica – , della sua poderosa grammatica e della relativa storia letteraria. Altri aspetti della civiltà classica non vengono sostanzialmente presi in considerazione: eppure sarebbero proprio quelli che compongono il paradigma della “cultura” nel senso che l’antropologia ha dato a questa parola; ma soprattutto nel senso che oggi si dà a questa espressione, quando parliamo di “incontro fra culture”, di “conflitto fra culture” o dei “mutamenti culturali” a cui la nostra società va quotidianamente incontro.
Questo mi pare il punto centrale della questione. Lo studio del latino o del greco nella sola prospettiva di apprenderne la lingua non mi pare più attuale; allo stesso modo, penso anche che uno studio puntiglioso della storia letteraria di Roma antica – le tragedie perdute di Ennio, la data di composizione delle orazioni di Cicerone, le bucoliche di Nemesiano – suoni decisamente fuori tono nella scuola di oggi. Quello che occorrerebbe far conoscere ai giovani è piuttosto la cultura antica nel suo complesso, non solo nelle sue forme tradizionalmente codificate.
Parlare del significato che la divinazione aveva per i Romani,della loro organizzazione familiare, del modo in cui essi concepivano la religione, il sogno, i modi del «raccontare», suscita negli studenti un immediato interesse. La ragione di ciò è molto semplice. Vista sotto questa forma, la cultura romana si presenta inaspettatamente altra, diversa dalla nostra, uno spazio privilegiato in cui sperimentare che si può vivere anche in tanti altri modi, i quali non sono necessariamente identici ai nostri.
I Romani avevano nomi e comportamenti differenti per ciascuno dei vari “zii” e “zie” che componevano la famiglia, attribuivano un enorme significato ai processi divinatori – prima di attaccare battaglia, ogni generale leggeva scrupolosamente le viscere della vittima sacrificale o osservava come beccavano i polli – , adoravano piccole divinità che stavano nel focolare, nutrendole con una patella, e tenevano in casa donnole e serpenti domestici. Ce n’è già abbastanza per incuriosire qualsiasi studente, e spingerlo a chiedersi perché mai i Romani si comportassero in questo modo. Lo stesso si può dire dei momenti in cui si mettono i ragazzi di fronte all’origine o al significato di certe parole, possibilmente ancora vive nella nostra lingua – operazione peraltro non difficile, visto che l’italiano ne ha talmente tante, di queste parole, da poter essere considerato a buon diritto un semplice “dialetto” del latino, ovvero un latino parlato male. Se si spiega agli studenti, per esempio, che il terminemonstrum “mostro” deriva da monere «far ricordare», questa semplice esperienza linguistica li metterà di fronte al fatto che, per i Romani, la “mostruosità” era una categoria religiosa: un vitello con due teste o una pioggia di meteoriti erano per loro non un disguido della genetica o un fenomeno astronomico, ma altrettanti messaggi che giungevano loro da parte degli dei, per ammonirli del fatto che la pax con i signori del mondo si era incrinata. Sperimentare l’alterità dei Romani può indurre i giovani anche a pensare che modi di vita diversi, anche quando ci vengono da società lontane nel tempo o nello spazio, non sono necessariamente inferiori ai nostri, modelli culturali sorpassati o semplicemente barbari; al contrario, ci si può accorgere che in queste differenti configurazioni culturali esistono elementi di civiltà estremamente interessanti, su cui vale la pena di riflettere soprattutto per comprendere meglio “noi”, oltre che “loro”. E questa costituisce, assieme alla tolleranza, un’acquisizione formativa di estrema importanza.
Il liceo classico è ancora, a mio giudizio, un’ottima scuola, che vediamo invidiata dai nostri concittadini europei ogni volta che capita di parlarne. Perché dunque distruggere, o snaturare – piuttosto che cercare di potenziarla in ogni modo –, una delle non molte istituzioni italiane che hanno credito anche fuori dal nostro Paese?
In ogni caso, se mi fosse permesso concludere queste riflessioni con una piccola punta polemica, vorrei affermare quanto segue. Qualora un ministro della Pubblica istruzione decidesse, a un certo punto, di ridurre ulteriormente il peso orario dell’insegnamento del “latino” e delle materie classiche in generale – ovvero nell’ipotesi deprecabile di una sua abolizione – ci piacerebbe perlomeno avere la possibilità di dire la nostra sulle materie con cui lo si vorrebbe sostituire. Perché se la scelta dovesse cadere su ore di socializzazione, educazione a esprimere se stessi, lettura del codice della strada (per prendere la patente di guida), riscoperta delle radici identitarie attraverso i dialetti, apprendimento di una seconda lingua straniera – da sommare all’ignoranza della prima – realizzato attraverso l’opera di un insegnante che a sua volta non la sa, e altre trovate del genere, il danno che la cultura italiana riceverebbe da simili decisioni risulterebbe davvero irreparabile.

Il testo di Maurizio Bettini anticipato qui in parte appare integralmente nel prossimo numero della rivista “il Mulino”

giovedì 28 novembre 2013

Elogio della discrezione


In una società fondata sulla visibilità, il filosofo francese Pierre Zaoui rilancia il valore dell’anonimato
E invita a spegnere i riflettori per condurre una vita meno spettacolare

Anais Ginori

“La Repubblica“, 24 novembre 2013

“Per Proust era un privilegio assistere alla propria assenza La riservatezza è un gesto politico”
“Ritirarsi è l’altra faccia della modernità. In fondo mandare un sms è meno invadente di una telefonata”

Tacere, mentre tutti parlano. Guardare, ma non essere visti. Diventare invisibili, senza doversi nascondere. Non è solo una questione di buone maniere, convenzioni sociali, falsa modestia. Essere discreti oggi significa prediligere l’identità al posto della visibilità, l’essere sull’apparire. «Una forma di dissidenza nella società panopticon in cui tutto e tutti è guardato, osservato, schedato». Il filosofo francese Pierre Zaoui ha appena pubblicato La Discrétion, elogio di un gesto politico prima che morale. Una riflessione documentata per inseguire una visione del mondo meno estetica e spettacolare.
Omnia praeclara rara, tutto ciò che è prezioso è raro, dice la massima latina citata da Spinoza alla fine dell’Etica. Zaoui, docente all’università Paris VII, già autore di Spinoza, la décision de soi, parte da questa frase per spiegare quanto sia necessaria una “pausa”, anche se minima, nel grande show. Spegnere i riflettori, abbassare il rumore di fondo, godere di un sano anonimato. Come quando, spiega il filosofo, si prova piacere nell’ascoltare due bambini che giocano dietro alla porta oppure si scruta in silenzio la propria amante che dorme nel letto. «È il privilegio di poter assistere alla propria assenza », diceva Marcel Proust a proposito della discrezione.
Selfie, l’ossessione dell’autoritratto, è la parola dell’anno. Ma è ancora possibile essere discreti?
«Contrariamente a quel che si crede, è l’altra faccia della modernità. In passato, nella civiltà rurale e prima dell’urbanizzazione, tutti conoscevano tutti. Era quasi impossibile essere discreti. Le nostre società offrono, invece, opportunità inedite di essere discreti, per esempio attraverso la vita in città e i nuovi mezzi di comunicazione. Nell’abusato termine “individualismo” c’è il desiderio di essere riconosciuto come individuo libero ma anche la voglia di non essere più riconosciuti, di scomparire nella moltitudine. Ugualmente le nuove tecnologie promuovono la trasparenza ma offrono anche strumenti meno intrusivi per comunicare. Spedire un sms è più discreto che telefonare. E prima dei telefoni, per parlare con qualcuno bisognava per forza incontrarlo».
Ognuno ha diritto a fifteen minutes of vanishing, a un quarto d’ora di discrezione, anziché di celebrità come sosteneva Andy Warhol?
«È vero che viviamo in una società in cui tutti sembrano cercare la fama, la notorietà.
Ma in parallelo ci sono molte occasioni in cui, magari senza accorgercene, assaporiamo la gioia della discrezione. Per esempio quando si viaggia all’estero e si ha la quasi certezza di non essere riconosciuti. La discrezione moderna non è più quella esibita come virtù nelle società aristocratiche, una forma di cortesia e buona educazione. Nelle attuali democrazie si tratta proprio della gioia, breve ma intensa, di assaporare l’anonimato».
È l’arte di scomparire, come recita il sottotitolo del suo saggio?
«È un’arte perché è un gesto profondamente volontario, politico, e non più morale come si pensava una volta. Elogiando quelle che definisco “anime discrete” non vorrei assolutamente promuovere un nuovo galateo o colpevolizzare chi non lo è. In passato, la intervista discrezione è stata spesso presentata come un tentativo di sottrazione, di ripiego, quasi una morte dell’Io. Per me essere discreti è invece una prova di affermazione personale».
La discrezione non è insomma un atteggiamento da penitente?
«Siamo nella continuità dell’aidòs aristotelico, della modestia in latino, ma seguendo l’analisi teologica che ne ha fatto San Tommaso. La discrezione diventa allora umiltà nel senso più positivo del termine: smettere di preoccuparsi di se stessi, aprirsi al mondo. Una forma di leggerezza esistenziale».
Perché ha iniziato il suo saggio con un omaggio a Kafka?
«È il modello assoluto della discrezione. Nel suo diario, l’8 dicembre 1917, scriveva: “Nella tua battaglia con il mondo, asseconda il mondo”. L’opera di Kafka si costruisce nel gesto sublime e intenso del passo indietro. Vale per molti autori. Scrivere costringe a scomparire e la letteratura è il terreno prediletto per esercitare la discrezione».
E perché invece citare Baudelaire?
«Ho citato Baudelaire riletto da Walter Banjamin: quel flâneur che si appropria del nuovo mondo senza toccarlo. È la ricerca di un equilibrio tra eroismo e anonimato, tra l’apologia dell’uomo delle folle e l’espressione individuale in una società democratica. Una tensione continua tra opposti. Per esempio, si tende a credere che le manifestazioni siano un mostrarsi nel collettivo, come sottointende la parola inglese demonstration. Penso invece che la società di massa ha reso più discrete le masse. L’idea che la modernità sia l’avvento del popolo sulla scena pubblica, artistica, letteraria, è solo un trompe-l’oeil: in realtà il popolo rimane minoritario, invisibile, anche quando manifesta e si ribella».
Nella politica-spettacolo c’è spazio per la discrezione?
«Nietzsche diceva: “Sono le parole più silenziose che portano la tempesta. Pensieri che incedono con passi di colomba guidano il mondo”. Bisogna interessarsi alla micropolitica, alle sperimentazioni discrete, anonime, che nella vita quotidiana cercano di immaginare un altro mondo. È anche un modo elegante per sottrarsi alla volgarità di chi spesso ci rappresenta».
Lo show non deve più andare avanti?
«Guy Debord parlava di “inconciliabili nemici” autoprodotti dalla società dello spettacolo. Nel mio saggio sostengo invece che lo spettacolo del mondo ha bisogno di “anime discrete”, senza le quali esisterebbero solo specchi vuoti. Affinché ci sia una parola, serve qualcuno che ascolti e sappia tacere. È un’asimmetria necessaria. Il giorno in cui non ci sarà più nessuno che accetta di “assecondare il mondo”, come scrive Kafka, allora tutto scomparirà».
Un filosofo deve essere discreto?
«Gran parte dei filosofi dall’Ottocento ad oggi, seppur nella loro diversità, hanno in qualche modo espresso la loro passione per la discrezione. È la condizione necessaria per osservarne il negativo, l’apparenza. Anche in questo caso non si tratta di una qualità morale, ma di un approccio puramente intellettuale. Fare filosofia oggi significa cercare lo Zeitgeist, lo spirito del tempo, e dunque tutto ciò che tende a scomparire, a essere discreto».

Il decalogo
L’ossessione dell’apparenza. Come sparire in dieci mosse

Gabriele Romagnoli

Dalla mania di Twitter a Salinger passando da Google ai “vagoni del silenzio” ecco il manuale aggiornato per chi voglia (finalmente) coltivare l’ecologia dell’io
Essere discreti è un dono, diventarlo una conquista che vale più di una virtù. È possibile provarci: anziché invadere il mondo (impresa che ad alcuni pare possibile), ritirarsene (esito che a pochi sembra trionfale). L’eroe discreto è un discreto eroe. Questo è un decalogo per emularlo. Con la premessa ( discreta) che su quella strada ci si può incamminare, ma neppure chi scrive può dirsi arrivato al traguardo, giacché il tempo in cui viviamo frappone ostacoli, reclama presenze, esige quanto meno la prova in vita di una firma. E comunque: 
1. Ricordati che anche se non appari continui ad esistere ugualmente. Il fatto che nessuno sappia chi sei è totalmente irrilevante se TU sai chi sei. O almeno ne hai vaga contezza. La luce acceca, l’ombra rigenera. Se non accetti questo presupposto continuerai a sgomitare per farti mettere in lista ed è superfluo che tu legga il resto: continua pure a contare quanti documenti appaiono googlando il tuo nome e a farti chiamare dottore dal portinaio.
2. «Machete non twitta». Questa affermazione fatta da un cinematografico giustiziere indio sintetizza alcuni dati di fatto: non è poi tanto virile “cinguettare”. Perché non sembri un commento sessista: per una persona strutturata non è necessario esibirsi in un battutismo a getto continuo. Le cose importanti che si hanno da dire sono limitate. Ai più ne esce una alla settimana. C’è chi ha avuto un pensiero profondo e gli è morto di solitudine.
3. Due amici contano più di duemila followers.
4. Si può avere un profilo Facebook per necessità, giacché è come stare in un elenco telefonico: serve per essere raggiungibili o raggiungere qualcuno di cui si hanno soltanto le generalità. Dopodiché non è altrettanto necessario informare l’intera rete delle proprie preferenze, deferenze o funzioni corporali. Né ingaggiare dibattiti con Pinco sul tema del momento: se non ti invitano ai talk show, fattene una ragione; se ti invitano, declina con gentilezza. Ma soprattutto: ricordati che non sei Mauro Icardi o Wanda Nara, Mario Balotelli o Fanny Comesichiama: se volete dichiararvi tutto l’amore del mondo, telefonatevi.
5. Tra Gabriele Paolini e J. D. Salinger, chi butteresti dalla torre? Barrata la casella delle opzioni in condizioni di lucidità, si può cercare di avvicinare, senza riprodurla nel suo estremismo, la condotta del modello prescelto. Non occorre ritirarsi come un eremita in montagna, bastano pochi accorgimenti. Il telefono fisso è superato. Quello cellulare può essere silenziato e perfino spento per alcune ore di giorno, sempre di notte. La segreteria telefonica ha l’opzione “disinstalla”. Le tue fotografie interessano, a essere generosi, un numero limitato di parenti. Stare vicino ai vip ti rende ancor più indegno di nota. Alle cene esclusive partecipano principalmente le posate.
6. Esiste un tasto premendo il quale si esce da una mailing list. Ci si può cancellare da un elenco di destinatari di inviti e omaggi (e farlo prima di essere cancellati riafferma la nobiltà del tempismo).
7. Esiste pure, sui treni, un carrozza detta del silenzio, dove non si telefona, si parla sottovoce e ci si muove felpati come pensieri notturni (o almeno si dovrebbe). È salutare viaggiare al suo interno. E, una volta scesi, continuare come se si fosse ancora su quel vagone.
8. I biglietti da visita più chic hanno impresso su fondo bianco soltanto nome e cognome, in corsivo. Il resto (telefono, indirizzo) lo si aggiunge a penna, come fosse una dedica personalizzata. Il miglior biglietto da visita è il sussurro del proprio nome, come fosse una confidenza.
9. Prenotare un ristorante con un cognome altrui è divertente e non richiede eventuale disdetta. Un giornalista famoso era talmente discreto che alla madama di un bordello aveva lasciato il nome di un collega meno famoso.
10. Puoi essere discreto anche quando non ci sarai più. L’idea di lasciare una traccia del tuo passaggio perché si continui a parlare di te è peregrina: vattene in punta di piedi e non fare casino dal piano di sotto. Ricorda le parole di Stig Dagermann, scrittore eccelso, e dai più consegnato alla serenità dell’oblìo: «Dimenticatemi spesso».

lunedì 25 novembre 2013

Il bacio, arma di confusione di massa


Gesti Artisti e pubblicitari hanno messo a frutto l’ambiguità dell’azione più intima 
che si possa fare e fotografare in pubblico


Da Giuda a Giulio Andreotti, dalla Russia alla Val di Susa
Storie di atti fraintesi o inventati: con fini mediatici e politici

Guido Vitiello

“Corriere della Sera - La Lettura“, 24 novembre 2013

Peccato che le citazioni false siano false, perché spesso offrono imbeccate a cui è doloroso rinunciare. Come questa, attribuita a Henri Cartier-Bresson: «Una fotografia è un bacio oppure uno sparo». La frase originale è ben diversa (il fotografo disse che la sua Leica era «come un caldo bacio, come un colpo di pistola e come il lettino dello psicoanalista»), ma teniamoci stretta la versione apocrifa: è la didascalia ideale per la foto della manifestante No Tav immortalata mentre bacia sulla visiera un poliziotto in tenuta anti-sommossa, lo scorso 16 novembre in Val di Susa, salvo rivelare di lì a poco che si trattava di un gesto di disprezzo, di una provocazione. La ragazza, una ventenne di nome Nina De Chiffre, ha dissipato l’equivoco in meno di quarantott’ore, a differenza di Caroline de Bendern — la Marianna del maggio parigino fotografata mentre svettava sulla folla sventolando una bandiera vietnamita — che aspettò la bellezza di trent’anni prima di confessare che: primo, era salita sulle spalle di un amico perché non ne poteva più di camminare (ma in cambio le avevano appioppato la bandiera); secondo, aveva messo su quella faccia ispirata e solenne perché, da mannequin qual era, si era accorta di stare sotto l’occhio dei fotografi. 
Lunga è la storia del bacio politico — dal bacio-manifesto al bacio-sparo, passando per il bacio che suggella un’alleanza — lunga almeno quanto la storia dei fraintendimenti a cui si è prestato, dei generosi abbagli che ha suscitato. Cosa di più romantico, per esempio, del marinaio americano che bacia l’infermiera in mezzo a Times Square pochi minuti dopo l’annuncio della resa del Giappone, nell’agosto del 1945? Eppure, a quanto racconta il fotografo Alfred Eisenstaedt, autore del leggendario scatto pubblicato su «Life», quel marinaretto correva per le strade come un satiro impazzito, agguantando qualunque donna capitasse a tiro, «che fosse una nonnetta, tarchiata, magra, vecchia, non faceva differenza». Purché porti la gonnella, voi sapete quel che fa. Si deve ipotizzare che, più che un languido abbandono, quello dell’infermiera fosse un indietreggiamento tattico o una resa all’invasore (in un modo o nell’altro, sempre di guerra si tratta). 
Ma è solo una delle tante versioni: decine di marinai e di infermiere si sono fatti avanti, nel corso dei decenni, per sostenere che erano proprio loro quelli della foto, un guazzabuglio di teorie contraddittorie in cui hanno cercato di mettere ordine Lawrence Verria e George Galdorisi in un libro dal titolo The Kissing Sailor
E che dire della foto del bacio di Vancouver, scattata nel 2011 da Richard Lam in mezzo alla rivolta dei tifosi dopo una partita di hockey? Due ragazzi distesi sull’asfalto, divinamente noncuranti dell’inferno di fumogeni intorno, dietro la sagoma scura di un agente con il manganello. Che magnifica allegoria vivente! Peccato che prima un video su YouTube, poi la stessa giovane coppia, abbiano rimesso tutto in prosa: lei era finita a terra in una carica della polizia e se ne stava lì in preda allo shock, lui era andato a cercare di calmarla. Cosa sempre romantica, beninteso, ma meno Paolo e Francesca di quanto si fosse immaginato. 
Spesso a generare equivoci è l’ambiguità dei codici culturali, che fanno incorrere in errori di traduzione. Leonid Brežnev ed Erich Honecker avvinti nel «bacio alla sovietica» della celebre foto del 1979 sembrano oggi un manifesto dell’orgoglio gay, ed erano promiscui quanto basta — fisicamente e politicamente — da consentire all’artista russo Dmitri Vrubel, che nel 1990 ne fece un murales sul muro di Berlino, di aggiungere la didascalia: «Dio mio, aiutami a sopravvivere a questo amore mortale»; ma quando, in una foto di dieci anni dopo, toccò a Gorbaciov baciare il leader della Ddr, a più di un osservatore venne in mente Giuda. 
Il malinteso russo si è ripresentato l’estate scorsa quando le staffettiste Tatyana Firova e Kseniya Ryzhova hanno festeggiato con un bel bacio in bocca la medaglia d’oro vinta ai Mondiali di atletica di Mosca: il gesto di esultanza, che fece scalpore ovunque fuorché in Russia, venne scambiato per una sfida alle leggi omofobe di Putin. 
Altre volte ancora l’ambiguità è attizzata ad arte, come nella campagna «Unhate» di Benetton del 2011, che invitava a dis-odiare tramite fotomontaggi che rimettevano in scena il bacio Brežnev-Honecker con protagonisti aggiornati: la Merkel baciava Sarkozy, Obama l’allora presidente cinese Hu Jintao, e soprattutto c’era Ratzinger bocca a bocca con l’imam del Cairo (nessuno dei due gradì la tresca). 
Ma tra tutti i baci travisati, simulati ed enigmatici del mondo, il più bello, si può dire, è cosa nostra: il fantomatico bacio tra Andreotti e Riina, un bacio-trattativa nato dall’estro letterario del pentito Balduccio Di Maggio (si può essere gangster e bravi drammaturghi, ci ha insegnato il Woody Allen di Pallottole su Broadway ). La scena, già così potente, ha oltretutto un magnifico sequel: «Giulio, non ti bacio solo perché so che non ti piace», disse Nicola Mancino il giorno dell’ottantesimo compleanno del senatore. Questo è teatro! 
Resta da capire il perché di questo continuo cortocircuito erotico-politico, e il racconto della militante in Val di Susa alle prese con l’agente offre un buon punto di partenza: «Avevo una scelta: sputargli o baciarlo». Possibile che le due cose, a qualche livello, siano intercambiabili? 
Certo è che l’amore e la guerra parlano due dialetti di una lingua comune, come insegna il Medioevo cavalleresco; anzi, è vero fin dalla preistoria, se non altro la preistoria da fumetto. In una striscia di B.C. di Johnny Hart che apparve nel 1969, tra liberazione sessuale e contestazione della guerra in Vietnam, due cavernicoli si azzuffano sotto gli occhi di una donna primitiva bella e civettuola. Arriva un terzo a dividerli: «Piantatela! Fate l’amore, non la guerra!». E quelli: «E per cosa credi che ci stiamo pestando, stupido?». 

Auguste Rodin. Dal “Bacio” al “Peccato” così metteva eros nel marmo


Armando Besio


“La Repubblica“, 24 novembre 2013

Sessanta sfumature di bianco. Gli audaci marmi di Rodin stuzzicano le fantasie erotiche dei visitatori che sfilano nella penombra un po’ ruffiana della Sala delle Cariatidi. La più nobile, romantica e malandata di Palazzo Reale. Progettata dal Piermarini, archistar neoclassico del Teatro alla Scala, l’antica sala da ballo porta ancora i segni dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, ferite suturate ma non sottoposte a chirurgia ricostruttiva dal parziale restauro pedagogico voluto dal Comune a perenne monito pacifista (in questa sala, non a caso, Picasso espose nel dopoguerra Guernica).
L’allestimento spartano coniuga rispetto per la memoria del luogo e spending review. Semplici scaffali di tubi di ferro, verniciati di rosso pompeiano, sostengono tavole di legno grezzo dove sono allineate le sculture.
Sopra tutte - è la più famosa, e la più ingombrante - svettaIl bacio più popolare della storia dell’arte (con quello, dipinto, di Hayez), varie volte replicato dal maestro, qui nella versione conservata dal Musée Rodin di Parigi, da dove arrivano le opere in trasferta a Milano. “Rodin. Il marmo, la vita” è il casto titolo della mostra, curata dal conservatore capo del museo Aline Magnien con Flavio Arensi (catalogo Electa, fino al 26 gennaio).
Apre il percorso, ordinato in senso cronologico, L’uomo con il naso rotto,che remixa la faccia di Bibi, un facchino parigino chesi aggirava nello studio di Rodin, e il ritratto di Michelangelo realizzato sulla maschera mortuaria da Daniele da Volterra (potete vederlo qui a Milano al Castello Sforzesco di fronte alla Pietà Rondanini), in uno stile che evoca la statuaria romana: «Cammino nell’antichità più remota diceva Rodin - Voglio legare il passato al presente, riacquisirne il ricordo, giudicare a riuscire a completare»”. Rifiutato nel 1864 dal Salon causa eccesso di realismo, l’Homme au nez casséè il simbolo dei faticosi esordi di Rodin. Che fu respinto tre volte all’esame di ammissione dell’Ecole des Beaux Arts. E per cominciare dovette adattarsi a fare l’anonimo “muratore statuario”, addetto alle decorazioni dei palazzi in costruzione nella nuova Parigi di Hausmann.
Prima di proseguire la visita, occhio alla didascalie delle opere, singolarmente scrupolose e oneste. Portano anche il nome degli “sbozzatori”. Erano loro, i “praticiennes”, i veri artefici di questi marmi. Rodin ideava l’opera e tutt’al più si sporcava le mani con la terracotta per abbozzare il modellino. Loro realizzavano la “messa ai punti”, il riporto delle misure dal modello al blocco di marmo, quindi lavoravano di trapano e mazzuolo, faticavano di scalpello e raspa. Due anni dopo la morte di Rodin, alcuni “sbozzatori” furono processati con l’accusa di aver scolpito dei “falsi”. Ma come, si difesero, abbiamo continuato a fare quello che facevamo quando il maestro era vivo. Un giudice spiritoso commentò: mi sa che il problema non sono i falsi,ma che non sono mai esistiti “veri” Rodin.
Ma proseguiamo con la visita. Ecco le opere giovanili. L’Orfana alsaziana (vittima della guerra Franco-Prussiana) esprime un malinconico pallore neoclassico.
Diana sembra uscita da un quadro rococò di Fragonard.
Madame Roll (moglie del pittore Alfred) veste Secondo Impero. Le superbe natiche di Andromeda, e quelle non meno toniche della Danaide, annunciano il cuore hard dell’esposizione, dove va in scena l’attrazione fatale tra Paolo e Francesca. Sono loro i protagonisti del Bacio. Rodin concepì quest’opera e molte altre per la dantesca Porta dell’Inferno, commissionatagli dallo Stato francese per il Museo delle Arti Decorative e mai portata a termine. La mano di Paolo che accarezza la coscia di Francesca ricorda le dita di Plutone che affondano nei morbidi fianchi di Proserpina nel Ratto del Bernini. «Nel Bacio l’uomo sta seduto sulla donna per meglio approfittarne » ironizzava Paul Claudel che ce l’aveva con Rodin per come gli aveva maltrattato la sorella Camille, sua modella, collaboratrice, infelice amante.
Sfilano tutte in mostra le donne di Rodin. Camille, con i tratti di Aurora e della Convalescente. La Duchessa di Choiseuil, l’americana che gli fece girare la testa (e gli procurò clienti oltre oceano) quando lui aveva settant’anni, lei trenta di meno. E finalmente Rose Beuret, la fedele, pazientissima guardarobiera diventata compagna e infine moglie, sposata in Zona Cesarini, un anno prima della morte, per risarcire i tradimenti e ricompensare la devozione.
Ancora sfumature di erotismo: nello scandaloso Peccato che turbò il pubblico del tempo, dove un’avida faunessa dotata di coda dalla forma fallica “assale con ardore frenetico”, e insomma possiede selvaggiamente un povero maschio che si direbbe più spaventato che eccitato; nei saffici Giochi di ninfe; nella bocca spalancata della Donna pesce che non aspetta soltanto di respirare.
Con La mano di Dio si cambia soggetto e registro. Da un blocco di marmo grezzo sboccia la mano del creatore che tiene tra le dita Adamo ed Eva, nati insieme (variante apocrifa della versione biblica) nello stesso momento, dalla stessa terra. Qui come spesso altrove Rodin adotta la tecnica del “non finito”. A proposito della quale i curatori sottolineano i suoi rapporti con Michelangelo. «Il mio affrancamento dall’accademismo è avvenuto grazie a Michelangelo» confessava Rodin. Che condivideva con l’illustre antenato anche la predilezione per il marmo “bianco, fine, puro, privo di macchie e difetti” della Versilia estratto dalle cave di Pietrasanta e Seravezza. Eppure, il suo “non finito” più che l’espressione di un autentico tormento sembra un espediente estetico, nel segno di un virtuosismo di sapore simbolista. Certo, capace di formidabili effetti. Specie nelle ultimissime opere, come il ritratto di Puvis de Chavannes. Quasi tutto è marmo grezzo, semplice materia appena sbozzata. Soltanto il volto è modellato, ed emerge come una magica epifania dal blocco di pietra. Siamo a un passo dall’arte astratta.

Delacroix e l’Orlando Furioso nell’oltraggio della sbruffona Marfisa


Melania Mazzucco

“La Repubblica“, 24 novembre 2013

L’ideale femminile di Delacroix era l’odalisca. Come molti europei, dal viaggio in Marocco e Algeria – nel 1831 – tornò infatuato di luce e colore, di paesaggi, cavalieri e costumi esotici, e dell’harem. Le donne sensuali che tessevano, danzavano e aspettavano l’uomo, recluse nei loro appartamenti, lo avevano incantato. Alle Donne d’Algeri nelle loro stanze dedicò, al ritorno in Francia, alcuni dei suoi quadri più famosi. Sorprende perciò come una palinodia il quadro che Delacroix cominciò all’inizio del 1850, per cui creò almeno sette schizzi preparatori e che ultimò con massima finezza: Marfisa e la donna impertinente.
Per capire la novità dell’immagine, e il suo significato, bisogna dire qualcosa di Marfisa. Perché molti si chiederanno: chi era costei?
La letteratura offriva soggetti ai pittori dell’800 come nel Medioevo la religione e, nel Rinascimento, la mitologia. Era un repertorio, un serbatoio di scene, ambienti, eroi. In gioventù, Delacroix vi aveva attinto in polemica con la frigida pittura neoclassica di storia. Di ottima famiglia e di ottimi studi, scrittore e amico di scrittori, era un lettore onnivoro, colto e curioso. Poemi, leggende popolari, ballate, romanzi, tragedie: tutto trasformava in pittura. Chateaubriand, Scott, Byron, Goethe, Dante e Shakespeare... Negli anni ‘30, i denigratori gli riconobbero la stessa energia che appassionava gli scrittori romantici – e la stessa “rivoltante follia”: dipingeva con “pennello ubriaco” quadri che visti da vicino si rivelavano “scarabocchi informi”. Gli ammiratori gli riconobbero la spiritualità, l’aspirazione all’infinito e la malinconia del colore in cui si effondeva l’essenza del romanticismo.
Nel 1850, però, il dandy rivoluzionario le cui opere avevano scatenato gazzarra e polemiche lavorava per lo Stato (al Palais Bourbon, all’hotel de Ville e al Louvre), era ufficiale della Légion d’honneur e aveva placato i suoi furori. Dipingeva santi, cacciatori, fiori e soprattutto felini selvaggi (tigri e leoni): a loro ormai riservava la bellezza barbara della violenza. In pittura come in letteratura, si era riconciliato col classico. Apprezzava un’arte sobria, ordinata ed equilibrata, senza artifici. La modernità doveva risiedere nella capacità di emozionare e nella tecnica pittorica. Insomma, aspirava a diventare un classico lui stesso. Aveva letto attentamente l’Orlando Furioso di Ariosto – annotando a margine gli episodi che gli offrivano spunti per i dipinti: Angelica, Medoro, Ruggero. E Marfisa.
Ora Marfisa è il personaggio più singolare del poema. Ariosto l’aveva ereditata da Boiardo, come un’eroina comica e bizzarra. Le diede altre qualità. Fiera, sbruffona e sanguinaria, la guerriera Marfisa fa sorridere – ma guadagna una storia e un destino. Straniera venuta d’Oriente, Marfisa è un cavaliere errante. Con l’armatura da uomo e sull’elmo l’insegna della Fenice, galoppa di canto in canto, bramosa di mettersi alla prova contro i paladini e di mostrare il proprio valore. Solitaria, disponibile a ogni avventura, si aggrega di volta in volta ad Astolfo o Ruggiero, di cui alla fine si scopre sorella. Combatte e sfascia teste, si accapiglia e si converte. Ma a 52 anni, anche Delacroix prende sul serio Marfisa. Forse gli ricorda la sua amica George Sand, o forse sente affine la guerriera indipendente e senza paura.
Siamo nello spazio magico della foresta, che Delacroix rende con verdi, impressionistiche pennellate a macchie. Il cavaliere domina la scena sul suo destriero (tra i tanti cavalli dipinti da Delacroix, questo, che bardato bruca una fronda, è uno dei migliori). La visiera alzata dell’elmo scopre il bel viso e lo rivela donna. In sella, dietro di lei, si contorce una rugosa vecchia discinta. È la strega Gabrina, cui Marfisa sta dando un passaggio di là dal fiume. L’antefatto Delacroix lo relega nel lato destro: un cavallo scosso che fugge imbizzarrito, dando profondità allo spazio, e un cavaliere esanime sull’erba. È Pinabello, cui Marfisa ha appena inflitto, col colpo della lancia che tiene ancora in mano, il disonore di essere disarcionato da una femmina. Ma l’elemento più riuscito del quadro è la sensuale fanciulla nuda in primo piano, dalla carne iridescente, bagnata di luce come una Venere.
L’amante di Pinabello è assai bella e ciò la rende insolente. Quando nella foresta incrocia Marfisa con la sua passeggera, credendola un guerriero la sbeffeggia per la bruttezza della sua compagna. Marfisa sfida a duello Pinabello e lo sconfigge. Però non prende per sé la donna del vinto (come previsto dal codice cavalleresco), ma la costringe a spogliarsi, umiliando la sua vanità. Pudicamente, la nuda trattiene la veste, che la strega le strappa di mano. Delacroix ritrovò per lei il lirismo delle odalische della sua giovinezza. Eppure impiegò due anni a concepirla. La disegnò di fronte, e solo dopo vari ripensamenti la girò di spalle, come la Minerva del Giudizio di Paride di Raffaello (o di Rubens, appena ammirato a Bruxelles). Realizzò con virtuosismo la mezza tinta color opale del suo incarnato, impastando il tono caldo e rosso con la terra verde e qualche colpo di bianco. Il rosso della stoffa valorizza il madreperla della sua carne – un espediente che abbiamo già trovato in Bellini e Tiziano.
Delacroix raffigura l’istante del denudamento e si limita ad alludere al seguito, ironico, del poema: Marfisa riveste con gli abiti sfarzosi della bella giovane la brutta e vecchia strega, e con quella se ne va, altera, per la sua strada. Il nudo è il punto più luminoso del quadro: la bellezza della giovane conta per il pittore più della sua stupidità. Non per le donne. Il 14 febbraio del 1850, la contessa Delfina Potocka visitò lo studio di Delacroix. Sul cavalletto notò subito, infastidita, la nuda nel bosco. «Che ci trovate di così attraente, voi altri artisti, voi altri uomini?», chiese la contessa (amica di Chopin e peraltro bellissima). «Che cos’ha di più interessante di un qualsiasi altro oggetto visto nella sua nudità, nella sua crudezza, una mela per esempio?». Cézanne sarebbe stato d’accordo, ma Delacroix non rispose. Nel 1852 vendette il quadro a un amatore per 1500 franchi. Non tanti. Solo dopo la morte (nel 1863), venne esaltato come il “puro classico” che riteneva di essere. I collezionisti benedicevano la vendetta di Marfisa. Il quadro moltiplicò di prezzo, e nel 1901 fu rivenduto per 30mila franchi. Emigrò in America. Forse, la cavaliera errante ne sarebbe stata felice.

venerdì 22 novembre 2013

Camilleri - De Mauro, il dialetto è cosa seria


Conversazione tra il romanziere e il linguista su passato e futuro dell’italiano

Raffaele Simone

“La Repubblica“, 21 novembre 2013

Questo non è un libro per giovani. È un colloquio tra due grandi vecchi della nostra cultura, Andrea Camilleri scrittore e Tullio De Mauro linguista, che ragionano, discutono, argomentano della lingua che hanno vissuto (La lingua batte dove il dente duole, Laterza). Camilleri, naturalmente, ne parla da scrittore, cioè racconta della sua lingua, di quella speciale maniera siculo-italiana che ha inventato e che è diventata una sorta di koinè tra i suoi ammiratori (e ammiratrici). A De Mauro invece sta più a cuore lo stato di salute culturale del paese, anche se ogni tanto anche lui lascia affiorare qualche vena di autobiografia linguistica. Tra le due prospettive, che si intrecciano, si incontrano, spuntano frammenti e episodi minuti (piccole storie, battute di persone illustri e no, schegge di vita) spesso di irresistibile comicità. Inoltre si costruisce, sempre più nitido, il quadro inquieto del nostro passato linguistico.
Anzitutto per quanto riguarda il posto del dialetto. «Il dialetto è sempre la lingua degli affetti» dice Camilleri, «un fatto confidenziale, intimo, familiare». Ma De Mauro lo contrasta: «A Venezia come a Palermo, quando il discorso si fa serio, si usa il dialetto». I dialoganti concordano però sul fatto che sui dialetti si è abbattuta nella storia italiana, dal fascismo in poi, una serie di attacchi che hanno finito per sfibrarli, senza riuscire a sopprimerli. Infatti (ricorda De Mauro) i dialetti esistono ancora e sono parlati diffusamente, ma non hanno più un supporto solido. Ciò che è andato perduto è «la trama di cultura materiale che era la cultura dei campi e la cultura dei mestieri». Il racconto della nostra storia linguistica recente quale affiora dagli interventi di De Mauro è del resto il racconto di una serie di sconfitte. Anzitutto quella di tutti i progetti educativi riguardanti la lingua e le capacità connesse: al fallimentare sforzo del fascismo di unificare linguisticamente il paese e di estirpare la “mala pianta” dialettale si somma lo scacco degli obiettivi concepiti a partire degli anni Settanta. De Mauro ne ricorda impietosamente gli effetti: oggigiorno «cinque italiani ogni cento sono incapaci di leggere e capire qualche parola scritta. Solo il 29% riesce a inoltrarsi nella lettura superando il secondo questionario [di alcune indagini internazionali] e a rispondere bene al terzo, quarto e quindi questionario. Il 71% non ce la fa...». Maliziosamente, Camilleri tira fuori un esempio dal linguaggio dei media: «Nei giorni del terremoto in Emilia il corrispondente [di Sky Tg24] ha detto: ‘ci sono sciacalli in giro che vanno nelle case abbandonate, vuote perché la gente è scappata, a fare rappresaglia di tutto quello che trovano’». Nel dialogo i media appaiono del resto come uno dei principali avversari di una lingua di decente livello, insieme al radicato animus burocratico del paese e la provinciale dipendenza nei confronti dell’inglese e di ogni infima moda originante da culture “forti”.
La natura della letteratura è un altro degli assi di questo intrigante volumetto. Camilleri, non a caso, ama nei Promessi sposi l’andamento cinematografico e la «narrazione visiva straordinaria». Si proclama «uno scrittore di cose» (anche se i suoi lettori sono attratti forse più dal suo linguaggio). E racconta di come si rese conto che non era l’italiano la lingua giusta per le sue storie: «Sentivo che il mio italiano aveva un respiro corto». A trovare la “sua” lingua arrivò quando, dopo aver raccontato la trama del suo primo romanzo al padre malato, questi gli suggerì di metterla per iscritto come l’aveva raccontata a lui, cioè con quel «misto di italiano e siciliano» che si usava nella sua famiglia, dove l’italiano «lo adoperavamo per sottolineare, per mettere in chiaro, per prendere le distanze, per dire ‘te lo dico una volta e per tutte’».
Ho detto all’inizio che questo non è un libro per giovani. La discussione di cui dà conto è infatti quasi per intero incentrata sul passato, recente o remoto. In questa dimensione, lo scrittore risulta per così dire più appagato del linguista: specchiandosi nel passato Camilleri ha guadagnato un linguaggio e una maniera; De Mauro invece ha dovuto registrare una serie di storiche sconfitte (circa l’alfabetizzazione, la diffusione della cultura di base, la qualità del linguaggio pubblico...). Poco o nulla si dice di quel che ci aspetta. Camilleri sembra fiducioso che le lingue di immigrazione possano arricchire l’italiano, anche se nulla finora dà conferma di questo fatto. L’emergere di nuovi ceti, nuovi media e nuovi set comunicativi, unito al degradarsi della qualità dell’istruzione e della trasmissione del sapere ci preparano sicuramente nuovi, non necessariamente affabili, modi di usare la lingua e le lingue. Che i due dialoganti abbiano deciso di non farne parola per non lasciare l’amaro in bocca al lettore?

Il traduttore è uscito dall’ombra. Bookcity celebra la nuova qualità


Quattro giorni per il mestiere più trascurato (e riscoperto)

Cristina Taglietti

“Corriere della Sera“, 21 novembre 2013

Il traduttore non è più un fantasma. Almeno per i quattro giorni di Bookcity, uno dei «mestieri del libro» più importanti (e trascurati) della filiera editoriale si prende il suo spazio. Sui palcoscenici milanesi si danno appuntamento i più noti e apprezzati traduttori italiani, da Ilide Carmignani a Daniele Petruccioli, da Martina Testa a Yasmina Melaouah. Si parlerà di come si diventa traduttori, di che cosa significhi tradurre i classici (con il poeta Milo De Angelis), delle sfumature (lessicali) del giallo. Mentre molti editori, da Einaudi a Voland, propongono classici della letteratura in nuove versioni, a Bookcity il traduttore risponde, racconta, insegna offrendo l’occasione di fare il punto sulla professione. Si comincia oggi, al Dipartimento di lingue della Fondazione Milano con la prima delle lezioni aperte. A condurla Bruno Osimo scrittore (Dizionario affettivo della lingua ebraica , Marcos y Marcos) , teorico della traduzione (ha scritto saggi e manuali, traduttore dal russo e dall’inglese: Cechov, Tolstoj, Steinbeck, Spender, da poco sono usciti da Voland Racconti di Odessa di Babel’). 
Osimo su questo mestiere ha un’idea precisa: «Credo che stia succedendo qualcosa di simile a quello che è successo in campo enologico. Fino a qualche tempo fa la maggior parte delle persone non sapeva distinguere un vino nel cartone da un Brunello di Montalcino. Allo stesso modo spesso gli editori pensano che il lettore non sia in grado di distinguere una buona traduzione da una cattiva e puntano soltanto a pagarla il meno possibile. Con il risultato che persone che lavorano da venti o trent’anni si vedono rimpiazzate da giovani, magari loro allievi, che, anche giustamente, accettano tariffe da fame. Rispetto a questo tema ci sono i lamentosi e quelli, come me, che invece pensano che si debba lavorare sulla qualità. Come i vinificatori sono riusciti a imporla anche per il vasto pubblico, così possiamo fare anche noi». Di certo di traduzione non si vive. «Era possibile quando io ho iniziato, nel ‘ 78. Ho mantenuto una famiglia con due figli, oggi non si può più. Io infatti insegno e scrivo libri, attività che, rispetto alla traduzione, è anche più remunerativa». 
Se dal punto di vista del riconoscimento economico la situazione è difficile, secondo Franca Cavagnoli, scrittrice e traduttrice dall’inglese (la indirizzò Pontiggia), in particolare di autori della letteratura post-coloniale (Coetzee, Naipaul, Mansfield, ma anche Francis Scott Fitzgerald) «oggi c’è un maggiore riconoscimento del nostro lavoro, da parte di critici e recensori. Siamo meno invisibili, anche se, per i più giovani, le condizioni di lavoro sono davvero difficili». Cavagnoli, che tiene corsi alla Statale e alla Fondazione Milano, crede molto all’insegnamento della teoria che, però, deve andare di pari passo con il confronto con il testo. Domenica parlerà della traduzione dei Racconti di Francis Scott Fitzgerald fatta per Feltrinelli: «Dopo Il grande Gatsby mi avevano chiesto Tenera è la notte , ma non riesco più a lavorare su testi molto lunghi, a tenermi dentro, per tanto tempo, tutti i rimandi, le isotopie. È come aver dentro un teatro molto affollato, è faticoso da un punto di vista psichico. Così ho controproposto questa raccolta che dovrebbe affiancare all’immagine classica di Fitzgerald cantore dell’età del jazz, quella, più malinconica, di cantore dell’età del blues. È un progetto a cui tengo molto, ho affidato la traduzione agli studenti migliori degli ultimi anni, di cui io poi ho fatto la revisione. È stato un modo molto utile e interessante di unire la pratica e la teoria». 
Quello che è certo è che oggi lo spirito delle traduzioni è cambiato e, come dice Osimo, lo slogan francese «belle e infedeli» che sostanzialmente promuoveva l’invadenza della voce del traduttore su quella dello scrittore, è superato. Rigore e attenzione estrema al testo è il punto di partenza indispensabile anche per Cavagnoli: «Io devo capire fino in fondo il testo, scavare nella lettera, cogliere l’intenzione. Per me è molto importante che sia il lettore ad avvicinarsi all’autore, non viceversa». 
Cercare un «punto di equilibrio tra fedeltà e bellezza» è quello che ha fatto anche Laura Frausin Guarino, da quasi quarant’anni traduttrice dal francese, mestiere a cui è arrivata attraverso Vittorio Sereni, suo professore di italiano al liceo, che la introdusse in Mondadori. Frausin Guarino ha cominciato con la saggistica (Foucault, Baudrillard) ma ha tradotto anche molta narrativa, soprattutto Simenon e ora Némirovsky. Con Adelphi ha un rapporto quasi esclusivo: «I loro tempi sono i tempi del traduttore, sanno quali autori sono nelle mie corde e quali no». Simenon è sempre una sfida: «Ha una scrittura apparentemente semplice, le sue frasi sono scandite, è capace di descrivere un’atmosfera, un personaggio, un odore, con una parola, un aggettivo,ma quando si tratta di trovare un equivalente sintattico in italiano è molto meno facile. Non è possibile sovrapporsi all’autore pensando di essere originali. Bisogna essere fedeli, anche alla punteggiatura, perché dietro c’è un pensiero».

1913: l'ultima sosta prima del salto nel nulla


A metà tra il saggio e la contemplazione poetica, 
il libro di Florian Illies dedicato all’anno fatale che pose fine alla Belle Epoque 
Pochi mesi dopo il mondo sprofondò nelle tragedie del “secolo breve” 

Enzo Bettiza

“La Stampa“,  17 novembre  2013

Quante cose accaddero in quel lontano eppure così vicino 1913. Data fatale, talvolta storditamente allegra, altre volte inspiegabilmente muta e sfuggente. A ogni modo fu anche una data drastica, conclusiva, dirimente. Marcata con inconsapevole simbolismo dall’enigmatico numero 13, doveva segnalare e preparare, in silenzio, all’insaputa delle stesse popolazioni coinvolte, gli olocausti fratricidi che troveranno nella Grande guerra il loro primo e sconvolgente banco di prova.
Si potrebbe anzi parlare, con un tocco di misurato sarcasmo, di una singolare e quantomai violenta prova generale.
L’inizio delle tragedie belliche, destinate a sprofondare l’Europa e gli europei in una sorta di suicidaria ebbrezza distruttiva, incomincerà come tutti sanno nell’anno successivo al 1913. L’Ottocento della Belle Epoque sarà infatti giustiziato nella torrida e lugubre estate del 1914. Vedremo allora l’Ottocento spegnersi in un minaccioso cielo parigino. Cielo plumbeo dove già sostano, immobili ma sempre più minacciosi, gli Zeppelin dell’aeronautica germanica: ce li farà intravedere anche Proust, nelle ultime pagine del tempo «ritrovato», dopo quello perduto o forse sperduto nella sua interminabile recherche esistenziale e mondana ancor più che letteraria. La Ville Lumière si spegneva, via via, come la stessa recherche proustiana; si ottenebravano i luoghi di piacere e di svago come il Moulin Rouge o le avvolgenti taverne di Montparnasse; vediamo Parigi incupirsi in un coprifuoco epocale, che Proust descriverà con crescente malinconia avviandosi alla fine della sua opera per molti aspetti intrisa di un pessimismo quasi nichilista.
Il 1913 verrà dunque definito come l’anno «prima della tempesta». Così si presenta fin dal titolo (per l’appunto: 1913, edito da Marsilio) un libro intensissimo, con pennellate sospese tra il distacco del saggista e la contemplazione del poeta, in cui il tedesco Florian Illies, nato nel 1971, percorre a ritroso la storia europea del XX secolo. Sul libro si è già espresso con termini giustamente positivi, in un’intervista concessa due settimane fa alla Stampa, il presidente socialdemocratico del Parlamento europeo Martin Schulz. Illies si sofferma in particolare sul 1913, per avvertirci che è quella la data terminale, una data d’attesa e di sosta, prima dello scoppio a catena di tante carneficine e tanti disastri. Un anno, dunque, quant’altri mai ambiguo, se vogliamo inafferrabile e al tempo stesso consolatorio: la cultura atavica, la grande civiltà o «civilizzazione» dell’Europa, ancorché sospesa sull’abisso, sembrano rigermogliare in un estremo sospiro di congedo sotto la penna e il pensiero Husserl, Heidegger, Bergson, o sotto i pennelli dirompenti di Picasso e di Matisse. 
Illies non concede né al lettore né a se stesso un attimo di sosta. Il ritratto che lo scrittore, davvero eccezionale in molte delle sue pagine, traccia dell’ultimo anno di pace in Europa, è per tanti aspetti davvero fuori del comune. È la riscoperta di un’attesa storica angosciosa, soporifera, quasi cronometrata sulle insonnie degli intellettuali europei che danno, in uno stesso momento, l’impressione di aspettare e non aspettare il peggio che sta lì lì per esplodere e abbattersi sul continente. Sarà, il 1913, non solo l’anno ambiguo che ormai crediamo di conoscere. Sarà anche, per tanti intellettuali europei, l’ultimo anno buono e vivibile che essi assaporeranno fino in fondo nei suoi variegati umori vitali, estetici, erotici, mondani: in parte paradiso e in parte inferno. 
Poi la tempesta s’abbatterà sull’Europa nel fatidico Quattordici. Va detto che quasi nessuno o pochissimi avevano trovato il coraggio di prestare un’attenzione seria ai sintomi del diluvio. Nel 1914 il diluvio si scatenerà, infatti, fra lo stupore e la sorpresa di importanti cenacoli di studiosi e di alcune grandi cancellerie del momento. Vedremo il «secolo breve» bruciare e consumarsi in una sequela di decenni sinistri fino alla caduta del Muro nel 1989. Tristi date intermedie, segnalando guerre, rivolte, rivoluzioni, esodi di massa, scandiranno vite e sciagure di almeno due o forse tre generazioni. 
Prendiamo a esempio la fervida quanto sventurata Mitteleuropa. Vienna, Praga, Zagabria, Budapest erano stati presidi di una civiltà unica nel suo genere: civiltà fulminea quanto intensa, omogenea pur nelle pulsioni delle sue diversità che troveranno però nella cultura e soprattutto nella lingua tedesca, lingua franca per almeno un secolo, un saldo denominatore comune. Tutto questo finirà sotto il tallone degli eserciti di Hitler e, poco più tardi, sotto quello delle armate di Stalin. Pesantissimo sarà il giogo d’oppressione e di schiavitù a cui dovranno sottomettersi nazioni d’antica civiltà, come Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, asservite prima dalla Germania e poi dalla Russia. Ma il tempo induce all’indulgenza. Agli occhi di molti storici futuri, probabilmente, gli svantaggi degli oppressi diminuiranno, mentre aumenteranno i vantaggi «dialettici» (si diceva così una volta) che le più drammatiche svolte e ipocrisie della storia portano spesso con sé. 
Tocchiamo qui l’essenza più intima, anche la più imprevedibile, che connotò l’inquietante e all’apparenza ingenuo clima da vaudeville, caratteristico di un certo diffuso umore del 1913, incline alla retorica e all’aggressività nazionalista dei Paesi grandi e più intossicati come la Francia di Clemenceau e la Germania del Kaiser. È, questo, «l’anno prima della tempesta». L’anno finale della Belle Epoque. L’anno dei lupi hobbesiani che s’addensano a formare branco prima dell’assalto.
Così sottolinea Florian Illies nel suo libro dedicato alla data fatale. Per l’appunto, tutto è sotteso e sottinteso nell’epitome asciutta del titolo. 1913. Che volete di più? Così sembra dirci l’autore, che sulla copertina sbandiera come un monito profetico i quattro numeri di quell’anno fatale e di quell’epoca smagliante e ingannatrice: incline al suicidio morbido, falsamente allegra, in attesa che trincee, dinamite, gas asfissianti eccetera spingano fino in fondo il trivello dell’autodistruzione. Insomma, non è facile catalogare il 1913. Il meglio che si possa dire o pensare è che fu l’ultima sosta, la più fragile, prima del salto nel vuoto e nel nulla.

mercoledì 20 novembre 2013

Aiuto, l'italiano è diventato una lingua low cost


Esce oggi "Anche meno", il nuovo libro di Stefano Bartezzaghi

Antonio Dipollina 

“La Repubblica “, 19 novembre 2013

Il libro precedente era Come dire. Quello attuale è Anche meno. Se sia un nuovo passo verso l'abisso di perdizione del linguaggio dei nostri tempi lui, Stefano Bartezzaghi, non lo svela. E a domanda precisa c'è caso che risponda proprio con il titolo medesimo. Anche meno( Mondadori, da oggi in libreria) reca un sottotitolo di quelli folgoranti, "Viaggio nell'italiano low cost" dove, va da sé, il giocoliere di parole non si nega la doppia accezione e lascia a ognuno la decisione finale di scegliere se quell'italiano ha a che fare soltanto con la lingua di casa nostra oppure se indica il tutto, l'italiano essere umano o quel che ne resta.
Che è successo in pochi anni? La premessa è semplice - quanto raffinatissima in molti snodi di lettura - accerchiati e sovrastati di parole, parlano e soprattutto scrivono tutti, la reazione del povero essere mortale che rivendica storicamente sobrietà e voglia di divertirsi diventa quella: "Anche meno". Grondano di parole ormai fuori controllo anche i treni (un annuncio dietro l'altro dagli altoparlanti), debordano i luoghi della Rete - Twitter in primis - anni fa non scriveva nessuno o quasi, oggi scrivono tutti: il risultato è appunto un linguaggio finale davvero a basso prezzo, quanto rivelatore del mondo, della natura umana, della voglia progressiva di annullamento in qualsiasi cosa ci faccia sentire vivi.
E appena la disanima si fa un po' seriosa, eccola lì la frase da opporre: appunto "Anche meno", tormentone peraltro recente, pronto a essere sostituito da quello successivo che da qualche parte sta per nascere. E anche qui, la tentazione irresistibile di giocarci sopra: "Anche meno" come afferra subito qualsiasi affezionato di parole, diventa anche un agitare proprio le anche, uno sculettamento di se stessi da usare nelle forme di espressione (di-meno le anche: e in anticipo anche sul twerking reso famoso da Miley Cyrus) e nel modo di comunicare, ovunque.
Parlano e scrivono tutti, e allora, dice Bartezzaghi, o ci si difende reagendo male e chiudendosi da qualche parte, o ci si mette disincanto e si cerca di viverci dentro per quanto si può. Esempio massimo, appunto Twitter, che è al tempo stesso bettola infrequentabile ma anche luogo di approdi felici, a saper cercare e saltare nei posti giusti. Un luogo, Twitter, dove uno degli sport principali è quello di correggere - preferibilmente in maniera violenta - l'altro, di attaccarlo in qualche modo e attenderne la reazione: anche e proprio sul linguaggio, sugli errori che si commettono - Le correzioni di Franzen, a quel punto, entrano a pieno titolo nel trattato. Deprecando quello che viene definito "Grammar Nazi", ovvero la ricerca occhiuta e la censura feroce degli errori altrui quando si parla o si scrive, ignorando sempre i propri, e invitando a prenderla più leggera e a impegnare fatica in cose migliori.
E da qui, poi, l'ampia trattazione si lancia senza paura e con il consueto piglio alla Bartezzaghi nel mare magnum degli esempi, dei luoghi della parola, siano il talk show politico, oppure di nuovo Twitter o ancora, che rimpianti, le scritte sui muri. Elenchi e scempiaggini, castronerie sublimi elencate a dimostrare quanto sia low il low cost, ma quanto sia anche altamente consigliabile, a saperci entrare. Che genio nascosto e inconsapevole ha potuto scrivere su quel muro: "Io con te/4 metri sopra il cielo/perché a 3 metri/stanno molta gente"? È il capitolo che parla dell'amore, anzi dell'Ammòre, e di come il low cost in questione tratti via muri e social network le eterne questioni che riguardano il sentimento supremo. Fino a scoprire che nessuno batterà mai quello che voleva davvero darsi un tono d'Oltralpe e sul marciapiede di fronte alla casa della ragazza tanto desiderata ha vergato con la vernice un definitivo "Ge Tem".
Facile, l'amore. Facile? Per niente, e allora la politica, per dire? In quella che diventa presto pagina dopo pagina una cavalcata irresistibile niente viene lasciato in disparte, a partire dalla sopraffina analisi dei meccanismi del talk show e dagli exploit più clamorosi dei politici da diporto linguistico, le metafore di Bersani, oppure il Di Pietro che dice «Il mio gruppo si scilipotizza» ma bertoldescamente un minuto dopo è lui medesimo, Di Pietro, ad annunciare che sta per dare una grande notizia: «Ma prima godetevi la pubblicità».
Gergo, abitudini fallaci, modi di dire, sfondoni clamorosi, gaffe, la fotografia collettiva è impietosa - o magari intrisa di pietas - divisa in capitoli in cui si ride alle lacrime nonché l'esatto contrario. Elenchi di nefandezze - ma trattate come spiegato, con la leggerezza necessaria e acume totale - per cui, ad esempio, a mettere insieme la perfetta scena da incubo da sfondo italiano attuale dobbiamo immaginarci un gruppo di Archistar che si attovagliano per un'Apericena e si perplimono discutendo su dove sta andando a finire la Blogosfera.
Passa, tra le pagine, l'epopea del "piuttosto che", mentre per una volta, segno dei tempi?, anche il Bartezzaghi si lascia un po' andare e va a cogliere dinamiche strepitose nell'evoluzione del turpiloquio, quello ormai normalizzato e quello invece da trattare sempre un po' dicendo e un po' no: fermo restando che come ha detto qualcuno, un paese che non riesce a mettersi d'accordo in maniera unitaria sulla valenza effettiva dell'espressione "Sticazzi", probabilmente non ha davvero futuro. O se ce l'ha, è fatto appunto in una maniera molto simile a quanto viene delineato nell'"Anche meno", mai come stavolta anche implorazione vera e propria.

lunedì 18 novembre 2013

Paul Dirac , il Trotzkij della fisica teorica



Esce in Italia da Indiana un’antologia dello scienziato britannico 
che scoprì l’antimateria 
Sposò, nel nome della bellezza, la meccanica quantistica con la relatività. 
Il Nobel nel 1933

Giulio Giorello

“Corriere della Sera -La Lettura “, 17 novembre 2013

«Il matematico partecipa a un gioco di cui inventa le regole, mentre il fisico partecipa a un gioco le cui regole sono fornite dalla Natura; ma con il passare del tempo diventa sempre più evidente che le regole che il matematico trova interessanti sono quelle stesse che la Natura ha scelto». Così, sul finire degli anni Trenta del secolo scorso, Paul Adrien Maurice Dirac riformulava l’intuizione di Galileo per cui il mondo è un libro «scritto in caratteri geometrici». Curiosamente, in un momento in cui spesso si lamenta la mancanza di coraggio dell’editoria italiana, è proprio nel nostro Paese che, per la prima volta al mondo, esce un’antologia degli scritti in cui il grande fisico britannico affronta il tema del ruolo della matematica nella scoperta scientifica. Il curatore, Vincenzo Barone, professore di Fisica teorica all’Università del Piemonte orientale, fa propria la battuta che Dirac vergò su una lavagna a Mosca il 3 ottobre 1956: «Le leggi della fisica devono essere dotate di bellezza matematica». E non a caso è stato scelto come titolo del volume La bellezza come metodo. Saggi e riflessioni su fisica e matematica (Indiana editore). 
Ma se ai tempi di Galileo era Dio a garantire delle buone intenzioni della Natura, Dirac nel periodo della sua maggiore creatività (Nobel per la fisica nel 1933) era più affascinato dalle conquiste sociali del materialismo dialettico sovietico che dalle sottigliezze della teologia, e si guardava bene dallo scandagliare la mente dell’Onnipotente. Uno dei suoi più maliziosi colleghi, il viennese Wolfgang Pauli (anch’egli insignito del Nobel, ma solo nel 1945), soleva dire che «il primo comandamento della religione di Dirac recitava: non c’è alcun Dio, ma Dirac è il suo profeta». Con il passare degli anni Dirac avrebbe a modo suo riconosciuto un ruolo a Dio nell’universo: quello di «un matematico di altissimo livello». Forse la provocazione di Pauli non sarebbe del tutto dispiaciuta a quel genio taciturno, solitario e introverso — per alcuni al limite dell’autismo — che sconcertava gli uditori alla fine di una lezione con osservazioni come questa: «Qualcuno ha una domanda?» «Sì, io. Non ho capito l’ultimo passaggio». «Questa non è domanda; è una constatazione». 
Del resto, pare che persino Albert Einstein e Niels Bohr trovassero tanto incomprensibile il suo carattere quanto splendida la sua matematica. Eccentrico tra gli eccentrici, segnato da una tragica storia familiare, appassionato di Chopin e Topolino, timido con le donne, almeno sino al grande amore con Margit (Manci), insofferente dell’arroganza dei politici sia del «mondo libero» che dell’Urss stalinista, scettico sulla possibilità di comunicare a parole buoni sentimenti, Dirac doveva aggrapparsi al suo ideale estetico come a «una roccia che può sopravvivere a ogni tempesta». Come in un dipinto di Raffaello o di Rembrandt, ogni efficace descrizione della realtà fisica deve avere quei caratteri di unità, necessità e semplicità che già nel Settecento, secondo il filosofo irlandese Francis Hutcheson, caratterizzavano i teoremi matematici dotati di bellezza, come osserva ancora Barone (si veda il suo L’ordine del mondo . Le simmetrie in fisica da Aristotele a Higgs , Bollati Boringhieri). 
Certo, l’ideale estetico può variare, ma per Dirac la bellezza è sempre rivoluzionaria, nella scienza ancor più che nell’arte. La matematica, per poter essere utilizzata nell’indagine del mondo fisico deve «spostare continuamente i propri fondamenti e diventare sempre più astratta». Questo processo, che probabilmente non avrà mai fine, rivela orizzonti sempre più lontani dalla superficie delle apparenze, così che la stessa crescita della conoscenza della natura sembra affidata «a un’incessante modificazione dei principi che stanno alla base della matematica pura». Vinta la ritrosia dell’innovatore che si trova a sfidare la costellazione dei pregiudizi stabiliti, e imbrigliati i suoi stessi demoni interiori, Dirac doveva rivelarsi «il Trotzkij della fisica teorica», come lo ha definito il suo maggior biografo Graham Farmelo (L’uomo più strano del mondo. Vita segreta di Paul Dirac, il genio dei quanti, Raffaello Cortina): Dirac aveva fatto della propria mente «un autentico dispositivo per ipotizzare leggi in grado di spiegare le osservazioni empiriche», e in particolare se ne era servito «per combinare un matrimonio improbabile tra la meccanica quantistica e la teoria della relatività di Einstein nella forma di una bella equazione che descrivesse l’elettrone» (1928). Per poi, pur senza alcuna indicazione sperimentale che glielo suggerisse, ricorrere a quella stessa equazione per predire l’esistenza dell’antimateria: particelle dotate della stessa massa di quelle ordinarie, ma di carica opposta (1931). 
Oggi congetturiamo che ciò che era comparso all’inizio del Big Bang sarebbe stato composto in parti uguali di materia e antimateria; solo più tardi la materia a noi più familiare avrebbe prevalso. Dirac «è stato il primo a intravvedere l’altra metà dell’universo primordiale, e tutto ciò solo tramite la forza del ragionamento». Le conferme sperimentali sarebbero venute solo un anno dopo, quando l’americano Carl Anderson constatò che nei raggi cosmici era presente una particella con le caratteristiche predette dalla teoria di Dirac, che battezzò «positrone». Adesso sappiamo che persino noi esseri umani conteniamo dell’antimateria, e che quella prima antiparticella può salvarci la vita, come dimostra l’impiego clinico della Pet (ovvero tomografia a emissione, appunto, di positroni)! 
Questo radicale ripensamento della struttura della realtà e della nostra esistenza inevitabilmente rimanda a quella «meraviglia» — una miscela di «speranze e paure», come recita il titolo di uno (1969) dei saggi raccolti in La bellezza come metodo — che per gli antichi era la molla dell’interrogazione filosofica. Eppure, confessava Dirac in un’intervista rilasciata nel 1962 ad Alberto Cavallari per il «Corriere della Sera» (raccolta l’anno successivo nel volume L’Europa intelligente , Rizzoli), «quando ho anticipato la scoperta dell’antimateria, e quindi dell’antimondo, tutti hanno parlato di filosofia. Ma io non l’ho cercata questa filosofia. Sono stato costretto ad accettarne l’esistenza dalla matematica»

L’albero magico e la madre “lussuriosa”. Il grande incantesimo di Segantini


Melania Mazzucco

“La Repubblica “, 17 novembre 2013

Ilibri mediocri generano film magnifici, i capolavori della letteratura film mediocri. È un luogo comune del cinema, e neanche sempre vero. Però anche in pittura testi modestissimi hanno ispirato opere importanti. È il caso de Le cattive madri (o Il nirvana delle lussuriose) di Segantini. Rappresenta il culmine della fase simbolista della sua arte. Nei primi dodici anni di attività, Segantini aveva infatti aderito al naturalismo, nel solco verista della tradizione lombarda, e aveva dipinto paesaggi urbani, stamberghe visitate dalla fame e dalla difterite, coltivatori di bachi da seta, contadini, zampognari, pastori, vacche, vitelli, pollame, cavalli e soprattutto pecore. Nella seconda fase, seguendo una traiettoria simile a quella di Giovanni Pascoli, poeta coetaneo e fratello d’anima, abbandonò l’epopea umile della vita rurale e si orientò sulla lirica cosmica.
Persa nell’abbacinante vastità di una landa alpina, una donna, bella come una statua di marmo, è impigliata coi capelli ai rami di un albero. Il candore della neve la imbozzola in una gelida solitudine. L’albero è secco, tutto è immobile, cristallizzato. Nessun soccorso in vista: la foresta di alberi scheletriti prosegue sullo sfondo e una chiostra di monti sigilla l’orizzonte. È un mondo rarefatto e spettrale, come sotto un incantesimo maligno. Dal ramo però fiorisce una testa di bimbo. È un albero magico — che racchiude un essere vivente, come il cespuglio di Polidoro o quello che parla a Dante con la voce di Pier delle Vigne. L’albero non è morto come sembra: lo abita un neonato. Con le labbra succhia il seno della donna. Lei si contorce. Il suo corpo ripete la forma altrettanto contorta dell’albero, generando un movimento contrario, un’onda gravida che s’incurva verso sinistra.
Segantini aveva vissuto l’infanzia diseredata di un orfano dickensiano — nutrito dall’assistenza pubblica, poi affidato alla sorellastra operaia, vagabondo nei bassifondi di Milano e infine rinchiuso in riformatorio a imparare il mestiere del ciabattino. Ignorava grammatica e sintassi. Ciò non gli impedì di formarsi, col tempo, una cultura letteraria ed estetica e di appassionarsi a Nietzsche e Schopenhauer: la sua massima aspirazione divenne quella di farsi filosofo, profeta e martire (in un autoritratto si dipinse nei panni del Cristo Morto di Mantegna). Ma il vangelo che voleva predicare come messia era quello di un’arte spiritualista, capace di soppiantare la funzione sacra della religione. I letterati apprezzarono la metamorfosi. Nella scrittrice Neera trovò l’interlocutrice ideale, e fu lei a consigliargli di scrivere la sua autobiografia — che dopo la sua morte alimentò la sua leggenda. Segantini, che aveva abbandonato Milano e la corruzione della metropoli per ritirarsi nella purezza delle montagne svizzere (prima in un villaggio dei Grigioni, poi in Engadina), leggeva molto. Rimase folgorato dal poema Pangiavahli, o Nirvana: lo tradusse in due quadri, e poi lo ripropose anche in forma di graffito.
Nel 1889 Nirvana fu spacciato come traduzione dell’antica saga vedica di Maironpanda. Ma Segantini lo sapeva frutto dell’inquieto talento di Luigi Illica, più noto come librettista di Mascagni, Giordano e Puccini. Era dedicato alle “male madri”. Ora il tema della maternità incalzava da anni Segantini, che aveva saputo trasfigurare la nostalgia della madre dell’orfano in un’ossessione artistica. Uno dei suoi dipinti più celebri, Le due madri, del 1889, stabilisce un sintetico parallelismo fra la madre donna e la madre vacca (una accompagnata dal neonato, l’altra dal vitellino), a significare che quella di dare la vita e prendersi cura della prole è la missione che la natura ha assegnato alla femmina, al di là della specie.
Nel Nirvana, invece, si era imbattuto nella sua antagonista: la donna che rifiuta la maternità. Perché infanticida, abortista, o solo malthusiana — come all’epoca si denigrava la donna che usava precauzioni contraccettive per non restare incinta, separando così l’atto sessuale dalla procreazione. Segantini, padre felice di quattro bambini, trovava questa figura perturbante. Il poema narrava nei 24 versi finali la punizione delle “lussuriose”, condannate a vagare nella tormenta del silenzio, «in vallea livida per ghiacci eterni / dove non ramo inverda o fiore sbocci». Il Castigo delle lussuriose, che raffigura questi versi, dipinto nel 1891, fu mostrato all’Esposizione Internazionale di Berlino. Benché il trentino Segantini fosse già apprezzato in Germania e nel Nord Europa, il quadro non piacque: gli si rimproverò di dipingere il fantastico con realismo. Ma il fiasco accrebbe l’interesse di Segantini per il poema, la cui lettura lo in uno stato di intima inquietudine: attrazione e repulsione si alternavano, confondendolo. Nel 1894 creò il secondo ‘pannello’ del dittico — questo. In Italia fu stroncato come «astruseria simbolica», ma a Vienna trovò un ammiratore appassionato nell’imperatore Francesco Giuseppe (e poi negli artisti della Secessione).
L’inferno delle lussuriose può infatti trasformarsi in un purgatorio qualora la donna ascolti il richiamo del suo grembo e accetti il ruolo ch’è suo dovere e destino. Ed è questo l’istante che Segantini dipinge: il ramo prende vita, il bimbo succhia il latte, la donna acconsente, la spinta impressa dal corpo libera dall’albero la madre perdonata e redenta. Il poema è detestabile, i versi brutti, la morale reazionaria e per ogni donna crudele. Eppure Le cattive madri è il capolavoro di Segantini. Forse solo la morte precoce a 41 anni gli impedì di crearne un altro, ma tant’è. L’immagine semplificata è di una rara potenza; la pennellata a lunghi filamenti di colore diviso ordisce un tessuto di materia serica come la neve; la costellazione simbolica (la natura, la madre, la luce, l’albero) riscatta la rozzezza della fonte e acquista risonanze universali; l’equilibrio delle proporzioni e degli elementi (la figura, il paesaggio) è perfetto. Inoltre la composizione bilanciata anticipa le sinuosità del liberty: molta art nouveau del ‘900 è già in embrione su questa tela. L’immagine alimenta l’ambiguità che la parola ignora (la donna subisce la maternità o la accetta volentieri?): tace il giudizio e affida il senso all’occhio dello spettatore. Le cattive madri è un quadro da guardare senza sonoro — come un film muto.

Le cattive madri (1894), olio su tela, 105 x 200 cm, Kunsthistorisches Museum Vienna

mercoledì 13 novembre 2013

Dal Principe al Cavaliere la menzogna come arte

Francesco Rosselli (ca. 1445 - ante 1527), Carta d'Italia (380 x 535 mm).
 Incisione a bulino su rame, c. 1492. BNCF Landau Finaly Carte Rosselli

A 500 anni dal capolavoro di Machiavelli: la bugia sistematica è una risorsa della politica o un sigillo identitario degli italiani?

Franco Cardini

“La Stampa“, 12 novembre 2013

Si intitola La bugia. Un’arte italiana: imbrogli privati, menzogne politiche l’almanacco Guanda 2013, a cura di Ranieri Polese (pp. 168). Qui un ampio estratto del contributo di Franco Cardini, a commento del capitolo 18 del Principe, in cui Machiavelli spiega che un Principe è spesso obbligato, «per mantenere lo Stato» a «operare contro alla umanità, contro alla carità, contro alla religione». Deve cioè «saper entrare nel male». L’apparenza dev’essere ben diversa: occorre che appaia «a vederlo e udirlo, tutto pietà, tutto integrità, tutto umanità, tutto religione». Detto che «ognuno vede quel che tu pari; pochi sentono quel che tu sei», «nelle azioni di tutti gli uomini», e soprattutto dei Principi, «si guarda al fine».



A ben vedere, quel che il Segretario fiorentino intende qui dire è che la menzogna, ammantata di pietà, integrità, umanità e religione, è ammissibile quale strumento di governo nella misura – e nei casi – in cui si presenta come indispensabile; se la dissimulazione è ben orchestrata, il «vulgo» (e, aggiunge, «nel mondo non è se non vulgo») non sarà in grado di smascherarla. Questo tuttavia a condizione che il principe sia in grado di «mantenere lo Stato». Machiavelli invita cioè a usare qualunque mezzo per il raggiungimento dello scopo: ma tale scopo è molto preciso, è quello del governo dei sudditi e del mantenimento in forza dello Stato. Solo un plurisecolare equivoco ha consentito che si sia tanto parlato del carattere «amorale» – se non «immorale» – del pensiero machiavelliano, distorcendolo appunto nel significato di «machiavellico». Niccolò è uno degli anelli della catena che, avviata nei secoli XII e XIII dal pensiero scolastico (Pietro Abelardo e Tommaso d’Aquino), si è sviluppata attraverso Umanesimo e Rinascimento: al pari di quel che gli scolastici proponevano per la filosofia, Leon Battista Alberti per l’architettura, Luca Pacioli per la matematica e più tardi Galileo per la scienza, il Machiavelli cerca le leggi fondanti della politica libere dall’ipoteca trascendente della fede e della teologia. Quel che egli vuole esprimere attraverso l’analisi degli esempi tratti dalla storia antica ma anche recente e recentissima (da Alessandro e Cesare a Castruccio Castracani e Cesare Borgia) è la ricerca delle occulte e immutabili regole che indirizzano l’agire umano nella prospettiva della formulazione di una storia che sia comprensibile e utilizzabile come se si trattasse di una scienza esatta.
[...] Costretto a tenersi lontano dalla vita politica, scrisse, quasi a titolo autoconsolatorio, lui che di qualunque potere era privo, un trattato su come lo si potesse conquistare e mantenere per sempre: e nel 1516, nella speranza che ciò lo avrebbe aiutato a rientrare nelle grazie della dinastia al governo, lo dedicò a Lorenzo figlio di Piero, quindi nipote del Magnifico, che lo zio Giovanni – diventato papa Leone X – aveva investito del ducato di Urbino. Lorenzo era allora ventiquattrenne, e sarebbe del resto morto tre anni dopo senza aver dato particolari prove di sé: i Medici non dettero segno di curarsi affatto dell’oscuro intellettuale che gli aveva dedicato quell’opuscolo, che sarebbe rimasto in disparte fino alla morte sopravvenuta nel 1527. Splendido teorico della politica, si era sempre barcamenato male nelle quotidiane esigenze.
La parabola di Niccolò Machiavelli può essere utilizzata per comprendere il destino ultimo dell’intera compagine culturale degli intellettuali umanisti, che avevano confidato nelle infinite possibilità date loro dallo studio degli antichi, nell’esser «moderni» contro la media tempestas dei secoli che li avevano preceduti, mentre si ritrovarono in un mondo dilaniato dalle guerre che né loro, né i signori al servizio dei quali stavano o avrebbero voluto stare, erano in grado di controllare.
Ai primi del Cinquecento, la crisi di un’Europa sconvolta dai conflitti si unì infatti all’esplosione di un problema religioso latente da tempo. La fede nella guida degli antichi che aveva illuminato l’esperienza culturale degli umanisti poteva ormai sembrare per molti versi morta e sepolta; stritolata nella repressione convergente della Riforma e della Controriforma, condannata a sembrare un gioco d’intellettuali dinanzi alle sanguinose guerre di religione. Da questo contesto le fragili realtà statuali italiane, all’interno delle quali la cultura umanistico-rinacimentale aveva raggiunto il suo apice, uscirono perdenti, incapaci di reggere il confronto con le monarchie assolute che si andavano rafforzando in Europa.
Non meraviglia quindi che la virile forza sottesa al suggerimento, dato dal Machiavelli ai potenti del suo tempo, di essere «lioni» e «golpi» al tempo stesso, si perdesse in un paese dal quale le élite fuggivano – si dimentica troppo spesso che fra Cinque e Settecento la penisola italica sarà anche restata in balìa delle «preponderanze straniere», ma i principali artisti, poeti, letterati, musicisti, architetti e perfino comandanti militari d’Europa erano tutti italiani – e nel quale tuttavia il «vulgo» non poteva che adattarsi alla malinconica filosofia del «Francia e Spagna purché se magna» e del «quando soffia il vento, fatti canna». La parabola degli outsider che cercarono una strada diversa – come quel Masaniello che pare anticipare certi aspetti della «carriera» di Beppe Grillo – è coerente con quella d’una filosofia che dai caratteri leonino-volpeschi del Machiavelli era passata all’arte della simulazione e della dissimulazione «onesta» teorizzata nella prima metà del Seicento dal napoletano Torquato Accetto e alle peripezie del «bugiardo» che Carlo Goldoni aveva messo in scena nel 1750 sulle orme di Corneille e di Ruiz de Alarcón.
La Rivoluzione francese giunta nella penisola sulle baionette d’Oltralpe, il Risorgimento organizzato tra corti e cancellerie e solo debolmente riflesso in un’opinione pubblica nel complesso ignorante e indifferente, il trasformismo avviato dai «gattopardi» presentati da Tomasi di Lampedusa («Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi») e ben testimoniato dalla ricerca di un unanimismo che attraverso il giolittismo, l’ammucchiata mussoliniana dal 1925 in poi, quindi esperienze come la lunga gerontocrazia democristiana, l’avventura craxiana e l’imprenditorial-istrionismo berlusconiano, non hanno fino a oggi se non confermato la lunga attitudine italiana al conformismo di superficie e all’arte di arrangiarsi, salvo trovare – e questo va detto – inaspettate risorse ed energie nei momenti di crisi. Ma basta tutto ciò per individuare deterministicamente uno dei «caratteri originali» dell’identità italiana nel sistematico ricorso alla menzogna come risorsa utilitaristica? E per invocare una «paternità machiavelliana» a tale risorsa, ignorando che la lezione del Segretario fiorentino aveva un carattere etico strategico diretto ai governanti anziché ai governati, ai protagonisti della storia anziché a quanti erano e restano invece abituati a subirla?