lunedì 26 agosto 2013

Il corpo della montagna


ERRI DE LUCA

"La Repubblica", 11 agosto 2013 

Spuntano giorni che non me la sento, eppure mi sveglio lo stesso al buio, mi scaldo il caffellatte, inghiotto la fetta spalmata, faccio volare lo zaino sulla spalla e mi avvio. Penso che è comunque un giorno di libertà all'aria aperta e che da qualche parte esiste un contatore di queste giornate. Se rinuncio me ne tolgono due da quelle destinate.
Porto oggi in parete mio cugino. È già venuto un paio di volte, ha iniziato a scalare con me a cinquant'anni. Si affida alla mia scelta delle linee da percorrere. Si lega all'altro capo della corda per raggiungere una cima e ritornare più leggeri e illesi. È d'accordo con me che il punto più alto di una scalata è solo la metà del viaggio, che si completa in fondo alla discesa.
L'alpinismo vede nelle montagne sagome di torri, bastionate, muraglie: opere difensive da assediare. L'alpinista chiama attacco l'esatto punto d'inizio della scalata. La mia immaginazione invece scorge nelle montagne le parti di un corpo che si solleva: gobbe, gomiti, ginocchia, pugni chiusi, sessi femminili e maschili. Vedo l'anatomia di una folla di giganti emersi dal fondo del mare, incrostati di fossili e conchiglie. Le Dolomiti furono coralli.
Oggi punto a una parete simile a una schiena che termina con un collo, senza testa. Per estetica immagino che sia di donna. Andiamo in silenzio su per la salita di avvicinamento. Anche se luglio, stanotte ha nevicato. Mi spiace lasciare tracce del mio passaggio in montagna. Bastano e avanzano quelle su carta. Mi consola il pensiero che con l'arrivo del mattino le impronte sulla neve si dilegueranno. Il sole è uno spazzino bravo quanto il vento. I nostri passi scricchiolano pestando la cristalleria dei fiocchi irrigiditi. È il rumore del freddo e dell'azzardo festivo e volontario, opposto a quello del turno di lavoro. Spuntano giorni operai più duri, perché il corpo è svuotato e deve fare lo stesso l'opera di facchino fino a sera. Così pure in montagna vengono giorni che il corpo non vuole. Lo forzo per diversa ragione e salgo sentendo il suo peso contrario.

Mio cugino vorrebbe dire qualcosa per sciogliere la tensione di andare a giocare col vuoto. Non lo assecondo. Mi chiede: «Non è che troviamo la neve in parete? ». Rispondo: «Asciuga». Insiste: «Hai visto le previsioni del tempo per oggi?». Rispondo: «Non promette». Intanto sbiadiscono le stelle e si accende la cima di un monte con il primo sole. Coincide con il nostro primo sudore anche se la temperatura è ancora a zero. Il fiato ha perso l'affanno e ha preso il suo sbuffo regolare. La cassa di cuore e polmoni ha raggiunto il ritmo musicale che fa buona la marcia.
Più ci avviciniamo alla parete, più vasto è il suo fronte che esclude tutto il resto. Già da un'ora la cima è scomparsa oltre i salti di roccia. Raggiunta la base, cavo dallo zaino le due imbracature, la corda, i moschettoni e le scarpette di arrampicata. Mio cugino è scontento, oggi non mi esce una parola, peggio del solito. Finisco i preparativi, gli ricordo le manovre di corda che spettano a lui, infine gli volto le spalle e tocco la parete con le mani. Tolgo il primo piede da terra e così parto. Il primo metro di scalata è umile: bussa piano alle porta. È arrogante: vuole strisciare fino all'ultimo piano. La roccia è fredda, le dita perderanno sensibilità in pochi metri e dovrò scaldarle. Non soffiandoci sopra: il fiato umido le raffredda peggio. Vanno infilate nel collo. Il corpo è lento, rigido, fa attrito, solo la testa vuole scalare stamattina. Lo trascino come un cane al guinzaglio che s'impunta.
Da una parete vicina l'acqua si butta a precipizio, il suo tuffo copre ogni altra voce. Sì, l'acqua ha una voce, parla di neve sciolta a gocce che si accorpano in discesa e diventano folla di un corteo che grida in coro. Esistono in montagna ore di puro ascolto. L'acqua nei salti si pulisce da quello che trasporta, poi nel torrente brilla. Le ultime falangi delle dita sono le mie staffette per aprire il passaggio verso l'alto e sono intorpidite. L'alpinista su una parete a strapiombo va a tentoni, perciò sulla punta delle dita si concentrano i sensi. Con le falangi tocco ma anche vedo, e ascolto battendo l'appiglio per sentirne il suono prima di caricarci il peso. Con le falangi delle dita assaggio. In pochi metri sono fuori di vista di mio cugino che mi dà corda alla base della parete. Non voglio fargli vedere che stento a scalare, non per un orgoglio, ma perché se mi vede in difficoltà si scoraggia e dubita di riuscire. Intorno la fascia di sole si sta abbassando dalla sommità prendendo posto nel mondo di sotto. L'incontrerò a metà scalata. Mi fermo per infilare a turno le dita nel collo. Riparto per volontà di testa che si ostina. Salgo e non mi accorgo di sbagliare linea verticale. Seguo una serie di appigli che si riducono fino a quasi niente. Ho messo una protezione molti metri sotto e mi trovo in un punto nettamente al di sopra della scala di difficoltà prevista per la nostra scalata. Ho un minuscolo appoggio di piede che alterno tra destro e sinistro, in alto le dita toccano piccoli appigli svasati. Guardo di sotto e penso a come rifare all'indietro il muro che ho arrampicato. La testa non ce la fa a proseguire e preferisce l'azzardo di scalare in discesa.
Mentre mi sto decidendo, sento il corpo svegliarsi. Ha fiutato il pericolo, reagisce. Fa come il mare dell'alba quando piglia la prima brezza e investe a chiazze la sua superficie. Si contraggono i muscoli del bacino, dalla spina dorsale lungo la schiena arriva un calore alle scapole, alle spalle. La ghiandola ha spremuto la sua goccia di adrenalina che è nitroglicerina ed esplode nei tessuti. Il corpo è uscito allo scoperto, fuori dal guscio. La sua superficie non assomiglia più al mare sotto brezza, ma alla corrente ascensionale di una parete al sole. Ultimo segnale di prontezza è un desiderio di svuotare urina.
Il corpo ora costringe la testa a guardare in su e a tastare di nuovo le piccole prese svasate. Al tocco sento la spinta del corpo che vuole forzare il passaggio verso l'alto. «Aharai», dietro di me, è il comando del capo di un gruppo di soldati della scrittura sacra, quando si mette davanti ai suoi e avanza allo scoperto. «Dietro di me», questo fa il corpo e ordina alla testa di seguirlo. Il respiro soffia colpi di fiato secchi e si trascina dietro tutto il me stesso al seguito. Mi sposto verso l'alto, uso prese incerte, i piedi caricano il peso su aderenze invece che su appoggi. Ci sono punti di una scalata in cui conta il verbo tenere. Tengo quelle prese e mi tengo, questo è tutto.
Arrivo a una specie di ballatoio, faccio un ancoraggio per la sosta. Da lì mantengo tesa la corda con la quale aiuto mio cugino a scalare in sicurezza per raggiungermi. Mentre lui sale, penso al centimetro di appiglio che ho usato accanto al raponzolo di roccia, che col suo fiorellino viola se ne sta impettito in mezzo all'immensità minerale della parete a picco. Penso al vento di un branco di camosce che mi ha sfiorato in corsa su un ghiaione in discesa. Penso al vecchio maschio solitario accovacciato in pace sotto una cima, che non si è fatto disturbare dalla mia poca presenza e così mi ha fatto onore più di un invito a corte. Conosco un cirmolo che si sporge su un precipizio e che ha saputo ributtare dopo essere stato incendiato dalla folgore. Devo alle montagne i più insperati incontri con le sole creature degne del titolo di Vostra Altezza. Accanto a una croce di cima, a segnavia tra termine di suolo e inizio di universo, ho amato nostra madre terra come un figlio.
Intanto mio cugino annaspando e litigando con le prese mi raggiunge sul ballatoio. Posso ripartire verso l'alto, mi allontano di nuovo da lui che ripiglia fiato. Scalando faccio questo: mi allontano dal suolo, senza per questo avvicinarmi al cielo. Da qualunque cima raggiunta quello è rimasto remoto e vuoto. I costruttori della torre chiamata poi Babele, conobbero per primi lo sgomento di avere raggiunto nient'altro che il punto e a capo di un'altura. Il cielo che volevano abitare non poteva essere attinto dalle loro scale.
Il resto dell'arrampicata è un'aggiunta di metri all'abisso. Il corpo va con le falangi e i polsi sulla pista della salita a quattro zampe. La testa segue docile come una coda. Scalare le toglie la supremazia, non è più la sommità dello scheletro, ma una scatola ossea che accompagna e registra. In cima alla parete a forma di schiena, oltre l'ultima vertebra, c'è il risalto a forma di collo. È il percorso più facile e lo scaliamo insieme a corda corta. Dove finisce l'ultimo passo verso l'alto, la testa riprende il suo posto e il suo turno di sentinella sugli spalti. Guardo l'orizzonte dove altri corpi di montagne sono una folla di giganti imprigionati al suolo. Da un punto del perfetto angolo giro scatarrano tuoni e sputano fiammelle di saette. È invito a sgomberare in fretta. La montagna si spulcia della presenza di noialtri intrusi, ospiti di passaggio della sua bellezza.

domenica 25 agosto 2013

Il mio nome è James Leopardi


«Non bisogna impoverire la complessità dell'opera. 
Noi invece cerchiamo di offrire un'esperienza diretta»
Il mondo anglosassone valorizza il pensiero del poeta 
Che oggi «dialoga» con Locke e Wittgenstein 

Trevi Emanuele

"Corriere della Sera", 19 agosto 2013

Sulle pagine culturali della stampa inglese, in queste settimane estive tradizionalmente consacrate a più futili argomenti, il nome di Giacomo Leopardi ricorre con frequenza addirittura impressionante. La lista dei quotidiani prestigiosi, destinata ad allungarsi, per ora comprende il «Guardian», il «Financial Times», il «London Evening Standard», il «Sunday Times». L'occasione è tutt'altro che pretestuosa, una volta tanto, perché si tratta di render conto dell'importante edizione dello Zibaldone curata da Michael Caesar e Franco D'Intino, pubblicata in America e in Inghilterra rispettivamente da Farrar, Straus e Giroux e Penguin Classics.
Di fronte alla traduzione integrale di questo labirintico e polimorfo work in progress, iniziato nel 1817 a Recanati e interrotto nel 1832 a Firenze, viene da chiedersi se non sia proprio la logica, empirica Inghilterra la patria ideale dei futuri lettori di Leopardi. Ma piantare un tale seme in terra straniera non è un lavoro che si possa velocemente improvvisare. Vale proprio la pena di raggiungere per telefono Franco D'Intino, uno dei due curatori, per rivolgergli direttamente qualche domanda sull'impresa, iniziata nel 2007.
D'Intino è d'accordo sul fatto che la cultura britannica è geneticamente predisposta a un confronto serrato e illuminante con la filosofia di Leopardi. «Non bisogna dimenticare che John Locke è uno dei pilastri della formazione filosofica leopardiana. Questo è un fatto assodato, che riguarda le cosiddette "fonti" dello scrittore. Ma ancora più importante è l'apertura sul futuro permessa da una lettura ravvicinata dello Zibaldone, soprattutto considerando le innumerevoli pagine di osservazioni linguistiche. Si arriva, con una certa dose di meraviglia, a constatare evidenti affinità con il pensiero di Ludwig Wittgenstein».
Partiti da premesse culturali così diverse, questi due giganti del pensiero - mi spiega D'Intino - hanno elaborato una meditazione sul linguaggio considerato come un indizio antropologico fondamentale, una traccia capace di rivelare le «forme di vita» che si nascondono dietro le singole parole e i modi di esprimersi. Quello di Franco D'Intino è un nome ben noto agli studiosi di Leopardi, fin da quando, nel 1995, ha curato una fondamentale edizione degli scritti autobiografici e degli abbozzi di un romanzo che il grande poeta non portò mai a termine. Ha studiato in Olanda, in America e in Inghilterra, e oggi insegna alla Sapienza di Roma.Nel 1998, approdato all'università di Birmingham, ha fondato assieme a Michael Caesar il «Leopardi Centre» («all'inglese» precisa: «Gli americani scriverebbero "center"»), che nel giro di pochi anni si è guadagnato la credibilità necessaria a ottenere sostegni prestigiosi come quello dell'Arts and Humanities Research Council (più o meno l'equivalente del nostro Consiglio nazionale delle ricerche).
D'Intino non nega affatto di essere il tipico esempio della tanto deprecata «fuga dei cervelli» dall'università italiana. «Ma dal punto di vista dell'esperienza individuale, l'emigrazione mi ha dato più di quello che mi ha tolto. Ho letto libri che non avrei mai letto e un altro influsso decisivo è stato quello sul mio modo di scrivere».Chiedo allo studioso qualche chiarimento su quest'ultima affermazione, che mi sembra sorprendente. «La forma mentis anglosassone è diversa dalla nostra. Un saggio e anche una tesi di laurea hanno bisogno di soddisfare due requisiti fondamentali: quello di venire rapidamente al punto e quello di esprimere, su un determinato argomento, un'idea nuova, che giustifichi il fatto di occuparsene. È una lezione molto salutare, che ho sperimentato quando mi è capitato di dover tradurre in inglese i miei propri scritti. Noi siamo capaci di livelli eccelsi di raffinatezza, anche nelle tesi di laurea, ma ci capita spesso di perdere il filo, come se ci dimenticassimo delle finalità del ragionamento».
E per questa strada, torniamo sull'accoglienza che una cultura così caratterizzata dalla concretezza come quella anglosassone è in grado di riservare al pensiero di Leopardi. Mi sembra di capire che la grandezza di un classico non è solo una petizione di principio e che bisogna sempre ripensare il modo di interpretarlo, soprattutto quando si punta a un pubblico nuovo.«Con tutti i loro meriti» precisa D'Intino «le grandi scuole della critica leopardiana sono state dominate da ogni tipo di finalità ideologiche. Questo significa che ognuno ha cercato di tirare Leopardi dalla sua parte, chiudendo tutte le porte della comprensione che non servivano allo scopo. Ma così si finisce necessariamente per impoverire l'opera nella sua complessità e bellezza. Con questo Zibaldone inglese, abbiamo cercato di garantire ai lettori un'esperienza diretta, per quanto possibile, della scrittura e del pensiero di Leopardi».
È stato un lavoro collettivo, scaturito da una lunga esperienza di insegnamento e che ha richiesto, oltre alle fatiche dei due curatori (che hanno rinunciato a percepire qualsiasi diritto d'autore), quelle di ben sette traduttori. «Ma nessuno ha svolto indipendentemente la sua parte di lavoro» ci tiene a precisare D'Intino: «Ci incontravamo periodicamente, in un agriturismo delle Marche, per confrontarci su ogni minima sfumatura di significato presente nel linguaggio di Leopardi. È stata un'esperienza lunga e intensa, difficile ma molto gratificante». Non mi riesce difficile crederlo.Quella che D'Intino mi racconta è una bella storia sia dal punto di vista personale sia culturale. E mi viene spontaneo chiedergli a che tipo di giudizio, o pregiudizio, vada incontro un ventenne d'oggi, che decida di andare all'estero per studiare e insegnare la letteratura italiana. «Potrebbe sembrare sorprendente, vista la cattiva fama del sistema accademico italiano, le carenze delle biblioteche e tutti gli altri handicap che un ragazzo italiano deve affrontare nei primi tempi della sua formazione. Eppure, all'estero i nostri studenti hanno molto successo. C'entra anche il liceo, dove nonostante tutto ci sono degli ottimi professori e si studiano più materie. In Inghilterra, l'ultimo anno se ne studiano soltanto due! Ma la vera chiave, secondo me, è un'altra: la passione o, se vuoi, la tigna. Evidentemente, siamo un popolo capace di investire molto nelle cose che ci interessano. E questa è una caratteristica preziosa, che finisce necessariamente per essere ammirata».

Dante fra teologia e politica


Elisa Brilli,  Firenze e il profeta. Dante fra teologia e politica Carocci, 2013

Il nesso che stringe Dante a Firenze, oltre che nodo biografico spinoso e in parte irrisolto, è una risorsa primaria della Commedia da comprendere alla luce della tradizione culturale medievale. La riscrittura della storia moderna di Firenze nel poema risponde a parametri esemplari condizionati, pur nell’allontanamento, dal patrimonio memoriale cittadino, come dimostra il confronto serrato con la produzione cronachistica pre-villaniana. Di contro ad ogni presunto realismo, questo libro invita a leggere la Firenze dantesca come attualizzazione del paradigma medievale della civitas diaboli e insieme gli assestamenti di questa rappresentazione e delle “autobiografie” di Dante come l’indice dell’assunzione della fisionomia profetica da parte dell’autore del poema. Firenze e il profeta offre una visione dinamica della riflessione di Dante sulla sua città natale ma costituisce anche, resistendo al fascino delle ricostruzioni teleologiche, un osservatorio privilegiato sulle tensioni che attraversano globalmente la speculazione teologica e politica dantesca.




I rivoluzionari Machiavelli e Leopardi per sconfiggere la crisi di oggi


La scommessa editoriale sui grandi autori del passato sfida la logica del mercato 
Non sono libri fuori dal tempo: indicano l’eterna e attuale visione tragica dell’uomo


ROBERTO ESPOSITO

"La Repubblica", 18 agosto 2013

La crisi morde sempre  più a fondo sul mondo dei libri. Mentre le vendite calano e le librerie chiudono, sono rimasti in pochi gli editori disposti a rischiare sulla saggistica. E tuttavia qualcosa resiste e anzi sembra andare in controtendenza. Si tratta delle edizioni di classici, antichi e moderni. Se, ad esempio, la serie del Pensiero occidentale, diretta per Bompiani da Giovanni Reale continua a sfornare ottimi volumi di più di mille pagine, le Edizioni della Scuola Normale, presiedute da Michele Ciliberto, non sono da meno. Preceduta da una serie di agili testi dedicati ad Alberti, Bruno, Pascal, Tocqueville esce adesso una poderosa edizione bilingue, a cura di Sara Miglietti, di una importante opera di Jean Bodin dall’impegnativo titolo 
latino Methodus ad facilem historiarum cognitionem. LEGGI TUTTO...

LA PERSISTENZA DEI CLASSICI


ALBERTO MANGUEL

"La Repubblica", 11 agosto 2013

Forse è l' adolescenza l' età migliore per conoscere i classici. Ricordo la sorpresa con cui scoprii - avevo quattordicio quindici anni - nell'eclettica biblioteca di mio padre i dialoghi umoristici di Platone, le storie intrepide di Erodoto, i poemi infuocati di Catullo, i saggi riflessivi di Seneca. Senza che nessuno mi obbligasse a studiarli e senza che nessuno mi avvertisse che si trattava di classici, sfogliavo a Buenos Aires i piccoli volumi della collana Austral, domandandomi - come Socrate - come si fa a distinguere tra il sonno e la veglia, e meravigliandomi - come Erodoto - che gli sciti guerreggiassero sopra un mare di ghiaccio, e turbandomi - come Catullo - di fronte alla bellezza di Lesbia e di Giovenzio, e desiderando - come Seneca - un giardino appartato per sedermi a leggere in pace. Con l' età buona parte dei testi fondamentali si trasformano, nella memoria, quasi in luoghi comuni, forse perché la nostra esperienza fa sì che non ci appaiano più sorprendenti e illuminanti come quella prima volta. Man mano che passa il tempo, le riflessioni degli antichi saggi diventano nostre e le ripetiamo non più come rivelazioni eclatanti, ma come una trita conferma di verità, ahimè, troppo evidenti: la vita è breve, la felicità passeggera, la carne triste, i sogni di gioventù frustrati, la miseria del mondo costante. La vecchiaia ci trasforma tutti in piccoli filosofi di una mortificante banalità. 
A volte ci stuzzicano a leggere un classico coloro che lo rifiutano, come quando Sarkozy chiese a che serve leggere La principessa di Clèves, facendo impennare le vendite della contessa di Lafayette in Francia. A volte uno sconclusionato melodramma popolare cita un capolavoro e lo proietta nella lista dei bestseller, com'è successo, grazie a Dan Brown, alla Divina commedia in Spagna. Ma al di là di questi casi fortuiti, perché leggere i classici? Perché leggere Seneca, per esempio? Per consolarci, fra le altre cose, con quella che i tedeschi chiamano Schadenfreude, quella sorta di cupa allegria che si prova nello scoprire che nemmeno gli altri, i nostri antenati, sono stati felici, e che nelle epoche remote della cultura classica la vita non era né più facile né più giusta. A confronto dei lunatici imperatori, i nostri governanti attuali appaiono esseri quasi razionali; a paragone dei sanguinosi spettacoli che il popolo pretendeva, i videogiochi più violenti risultano di una candida innocenza; di fronte alle enormi ingiustizie della società romana, i capricci delle nostre dittature appaiono quasi democratici. Sembra miracoloso che in simili circostanze si sia potuta creare quella raffinatissima letteratura latina che ha dato origine a tante delle nostre culture. Per istruirci con aneddoti che consigliano, exemplum docet, come vivere meglio. Racconta Seneca, in Della tranquillità dell' anima, che Cano, condannato a morte, disse al suo consigliere che si era proposto di «osservare, in quel momento fuggevole, se l'animo avrà la sensazione di uscir fuori» e gli promise che se avesse scoperto qualcosa avrebbe fatto visita uno dopo l' altro a tutti i suoi amici per rivelare loro quale fosse la condizione degli spiriti nell'aldilà. (Diciotto secoli più tardi, in un continente che per Seneca non esisteva, Edgar Allan Poe avrebbe trasformato il nobile proposito di Cano nella terrificante storia intitolata La verità sul caso del signor Valdemar). Caligola, uno degli imperatori più dementi e sanguinari, fu assassinato nel gennaio del 41 d. C., «disgustatissimo», scrive Seneca, «se negli inferi sussiste qualche sentimento, a vedere che gli sopravviveva il popolo romano». (Videla e Pinochet hanno sicuramente condiviso lo stesso disgusto). Catone, spiega Seneca parlando dell' ira, un giorno ricevette un pugno in faccia; quando i suoi amici si sorpresero del fatto che non si fosse irritato e nemmeno offeso, Catone rispose loro: «Non ricordo che mi abbiano picchiato» (risposta ancora più sottile di quella proposta da un contemporaneo di Seneca su un monte della Galilea). 
Per continuare una stirpe di illustri lettori, Seneca fu letto e approvato dai primi cristiani: nel Medioevo, Dante lo collocò nel «nobile castello» insieme a Omero, definendolo «Seneca morale». Sant'Agostino, in modo più sottile, distingue tra lo scrittore e l' uomo: commentando le qualità morali della franchezza e del coraggio, Agostino segnala che Seneca le possedeva «anche se non pienamente. Intendo dire che le faceva proprie nei suoi scritti, ma non le dimostrò nella sua stessa vita». Nella sua vita, Seneca fu quasi il contrario di uno stoico. Si dedicò agli affari e all'usura, e in poco tempo accumulò un' enorme fortuna che gli consentì di accedere a incarichi pubblici. Sotto diversi imperatori (Tiberio, Caligola, Claudio, Nerone) fu questore, console e consigliere imperiale. Dopo che Nerone fece assassinare la propria madre, Seneca redasse la discolpa dell' imperatore di fronte al Senato. Il suo comportamento servile non gli servì a nulla. Sulla base di prove inventate, fu accusato di cospirare contro l' imperatore e Nerone gli ordinò di suicidarsi. Secondo testimoni come Tacito (in generale per nulla generoso nei suoi giudizi), nel momento della morte il filosofo-affarista dimostrò quel degno atteggiamento stoico che raccomandava nei suoi libri. «Dove sono quei precetti filosofici, dov'è la logica che avete studiato tanto a lungo per questo istante?», domandò agli amici che lo circondavano piangendo. «Forse che la crudeltà di Nerone era un segreto? Dopo aver assassinato la madre e il fratello, non è naturale che vi aggiunga la morte del proprio guardiano e tutore?». Con queste parole, Seneca si aprì degnamente le vene nell'anno 65 d. C. Quella forse fu la sua ultima lezione. (Traduzione di Fabio Galimberti).

Nella grazia della “Madonna del parto” Piero della Francesca dipinge l’invisibile



Melania Mazzucco 

"La Repubblica", 1 agosto 2013



Se chiudo gli occhi, vedo madonne in trono e fra le nuvole, col Bambino in braccio o poppante al seno, madonne neonate nella camera di Anna, bambine educate dagli angeli, Annunciate timide o spaurite, puerpere tra i pastori, madri straziate ai piedi della croce o col figlio morto tra le braccia, anziane addormentate sul letto di morte, disincarnate mentre ascendono al cielo. Madonne bionde, brune, eteree, formose. Le malinconiche di Bellini, le aristocratiche di Parmigianino, le plebee di Caravaggio. E poi c'è la Madonna del Parto. Indelebile per chiunque - persino oggi, quando la cultura teologica, matematica e umanistica che la presuppone ci è divenuta ignota. La ragione dell'impatto sensazionale dell'immagine dipende dal dettaglio meno immediato: la Madonna del Parto appare. 
Piero della Francesca la dipinse a fresco sul muro dell'altar maggiore di una chiesetta di campagna, nel XV secolo chiamata Santa Maria di Momentana - o in Silva, perché posta fra i boschi della valle del Tevere - al confine tra lo stato di Firenze e lo stato pontificio, presso Monterchi, paese d'origine della famiglia di sua madre. Rettore della chiesa era suo zio. Ciò spiega perché un pittore celebre come Piero, chiamato da papi e sovrani, abbia concesso sette giornate di lavoro a un'opera destinata a un luogo così periferico. E a un soggetto tanto problematico. La chiesetta originaria venne demolita alla fine del '700 e ricostruita mutandone l'asse e la fonte di luce; la pittura è stata staccata, ridotta, più volte restaurata. Danneggiata, dimenticata, separata dall'autore cui fino al 1889 si cessò di attribuirla, venerata dalle contadine dei dintorni, che la invocavano perché le aiutasse a partorire, ha subito peripezie e vicissitudini degne di un romanzo. E' sopravvissuta a due terremoti e al passaggio del fronte durante la Seconda guerra mondiale. E' sempre lì. Arcaica e impassibile come un idolo.   
E' un'epifania del sacro. Qui non c'è narrazione né Bibbia illustrata. Piero infatti, con scelta che rinnova radicalmente intuizioni precedenti, cristallizza sulla parete una visione mentale, senza tempo: due angeli, con movimento sincrono, quasi un rituale passo di danza, tirano di lato una tenda e lei si manifesta. Altera e remota, come una statua nei recessi di un tempio. Gli angeli ci fissano con uno sguardo duro, che è insieme un invito alla contemplazione e un monito: non oltre, fermati, questa è la soglia. Hanno volti maschi e corpi senza spessore, come silhouettes di una lanterna magica. I colori degli abiti, dei calzari e delle ali formano una rima baciata: ciò che è verde a sinistra è pavonazzo a destra, e viceversa. Sono identici, speculari - e infatti Piero li ha dipinti con lo stesso cartone, rovesciandolo al momento dello spolvero, quando doveva riportare il disegno sull'intonaco. 
Lei, isolata, occupa il centro dell'immagine e li sovrasta. Sembra più alta di quanto non sia (un metro e mezzo). Monumentale, maestosa. E soprattutto, enormemente incinta. Il corpetto dell'abito è slacciato sul ventre gonfio e lungo la cucitura laterale, e lascia affiorare il bianco della camicia sottostante. Quel colore proclama la sua purezza, la sua verginità. 
La gravidanza di Maria poneva ai pittori enormi problemi.


Essi dovevano rappresentare la prodigiosa incarnazione del Salvatore nel corpo della madre senza che chi guardava collegasse ciò con la sessualità, di cui sulla terra ogni gravidanza è pesante conseguenza. I pittori bizantini avevano escogitato raffinati simbolismi (la mandorla, il medaglione con l'immagine di Gesù posto sotto il seno della Vergine). I pittori del Medioevo la vestivano d'oro o le mettevano un libro tra le dita, per alludere al Verbo fatto carne. I nordici, più concreti, le aprivano una finestra nell'abito, per mostrare il feto nell'utero. Alla fine, il motivo restava imbarazzante e avevano finito per dedicarvisi solo pittori minori, per opere destinate alla devozione popolare. Accettando (o scegliendo) questo soggetto alla metà del '400, quando ormai era relegato alla periferia dell'arte, accettando (e scegliendo) di creare un'immagine che imitasse la natura nello stile che era già inconfondibilmente suo, Piero della Francesca accettava un'ardua sfida. La vinse. La sua Madonna conferisce divinità alla gravidanza, e umanità alla divinità. 
Il semplice abito di panno azzurro, privo di ogni ornamento superfluo, l'acconciatura dei capelli biondi intrecciati con strisce di lino e i gesti sono quelli di una donna qualunque. Di disinvolta naturalezza, perfino rustici: la mano sinistra piegata sul fianco, per riequilibrare il peso, l'altra a carezzare il ventre, per proteggere la creatura e insieme sottolinearne teneramente l'esistenza. La figura, eretta e statuaria, è invece quella di una regina - l'aureola come una corona. Il volto è un ovale dall'incarnato perlaceo, quasi trasparente - delineato dal contorno che valorizza il nitore del disegno. L'espressione, nobile, fiera e imbronciata, è mitigata dalle palpebre abbassate, in segno di modestia. Gli occhi scuri sfuggenti non guardano nulla: è assorta in se stessa. Non è statica e anzi trasmette l'impressione del movimento, perché rompe la rigorosa simmetria della composizione: è di tre quarti, rivolta verso sinistra (là dove nella chiesa c'era una statua lignea miracolosa). Il punto focale del dipinto è il suo grembo pregno. L'ombelico concettuale dell'immagine di Piero della Francesca non è ciò che sta davanti ma ciò che sta dentro.  
Bisogna allora tornare alla tenda. La Madonna che contiene Gesù è infatti contenuta a sua volta. Da un padiglione simile a quello che Piero aveva dipinto poco lontano, nel Sogno di Costantino, ad Arezzo, nella Leggenda della Vera Croce. All'esterno, è di broccato rosso (colore della regalità): si riconoscono ancora sul tessuto i frutti del melograno. Simbolo eterno, già precristiano, di fecondità e resurrezione. All'interno, è foderato con pellicce di scoiattolo, cucite a formare un reticolo. Questa tenda però non è una tenda, ma un tabernacolo. In origine, la Madonna spiccava su uno sfondo di finto marmo scuro, da cui sembrava staccarsi, illusionisticamente ascendendo sopra l'altare. La luce (la cui fonte è nascosta) illumina lei: il punto di massima chiarità è il suo viso. Se gli angeli lasciassero cadere la tenda, piomberesti nel buio. Ti è concessa una visione fugace, un'apparizione improvvisa. E' una di quelle rare opere che con massima essenzialità di forme (un'austera geometria di sfere, cilindri e rettangoli) e di colori (azzurro, rosso, terra, verde, bianco) riescono a rivelare l'invisibile: il mistero dell'incarnazione e di ogni esistenza.

Unicorno dei desideri


GIUSEPPE CARPANETO 

"Il Manifesto", 17 agosto 2013

Il suo corpo ha fatto da ponte fra Oriente e Occidente, incantando mercanti, fanciulle e cacciatori Simbolo ambiguo, sempre in bilico fra il bene e il male, questo animale ha attraversato l'immaginario medioevale appoggiandosi su alcuni «cugini» reali: cavalli, capre, rinoceronti e narvali
Unicorno, liocorno e alicorno: nomi che evocano dipinti medioevali o rinascimentali dal significato oscuro, dame nude o vestite con uno strano animale sul grembo, cruente scene di caccia, antiche ricette contro i veleni e simboli araldici. Sono parole e immagini che raccontano una lunga storia basata su scambi di identità, equivoci terminologici, errori di traduzione e ricerca di simboli per rappresentare l'ambiguità del carattere umano. 
Vediamo innanzitutto le parole: mentre unicorno e liocorno sono generalmente considerati sinonimi oppure varianti morfologiche e simboliche dello stesso animale, alicorno è il nome attribuito al suo lungo corno spiralato. E poi le immagini: avete mai provato a chiedere a qualcuno di descrivervi l'unicorno? La maggioranza delle persone di media cultura risponderebbe che si tratta di un leggendario cavallo bianco fornito di un lungo corno a spirale sulla fronte. Se però esaminiamo attentamente le pitture del Medio Evo e del Rinascimento, vediamo che la maggior parte degli artisti riporta più o meno costantemente alcuni particolari che non appartengono certo alla specie equina! Il primo particolare degno di attenzione è la barbetta caprina che figura nella maggior parte delle immagini. Secondo, la coda non è mai folta come nel cavallo ma ricorda più quella di un asino. Terzo, ciascun piede porta due zoccoli, come nei ruminanti, anziché lo zoccolo unico che si osserva nel cavallo. 

Origini di un mito
Gli zoccoli sono parti anatomiche che hanno profondamente colpito la fantasia dei popoli pastori del Mediterraneo e del Vicino Oriente, tanto da influenzare il loro pensiero religioso e le abitudini alimentari fin da tempi antichissimi (Levitico, 11). Osservando gli erbivori domestici e selvatici questi popoli hanno sempre distinto due categorie, impropriamente definite «con zoccolo diviso» e con «zoccolo intero», come è stato riportato anche dalla Bibbia e dal Corano. Se lo zoccolo dell'unicorno viene disegnato diviso e accompagnato da una barbetta caprina, ciò ha un preciso significato semantico. La miscela di caratteristiche morfologiche attribuite all'unicorno (corpo equino, barbetta caprina, coda di mulo, zoccolo diviso, corno sulla fronte) ci rivelano il vero significato di questo animale nell'immaginario antico. L'unicorno è infatti l'animale ibrido per eccellenza fra le due categorie di erbivori, e pertanto simbolo di ambiguità, dove il bene e il male, il sacro e il profano, il divino e il demoniaco, l'Occidente e l'Oriente, ciò che è noto e ciò che è ignoto, si ritrovano nella stessa specie, ovviamente immaginaria. 
In alcuni brani dell'Antico Testamento (Numeri 23.22; Deuteronomio 33.17) viene fatto riferimento alla forza prodigiosa di un animale a cui nella traduzione greca è stato attribuito il nome monoceros. Sicuramente, il testo biblico e tutte le citazioni più antiche di questo animale si riferiscono al rinoceronte indiano (Rhinoceros indicus), il cui corno veniva trasportato nei paesi del Levante dai numerosi mercanti che percorrevano la Via della Seta. Tale oggetto era venduto a causa delle sue presunte virtù curative e afrodisiache, alcune delle quali sono ancora oggi ritenute valide dalla medicina tradizionale cinese. Inoltre, si riteneva che i bicchieri ricavati dal corno di rinoceronte avrebbero protetto il proprietario dai veleni, neutralizzandoli oppure rivelando la loro presenza. 
Tutto si basava sui racconti dei mercanti, interessati a vendere la loro merce, o su quelli dei viaggiatori, sempre alla ricerca di qualcuno che offrisse loro una cena e un tetto in cambio di storie impossibili. Così, già al tempo degli antichi Greci, si parlava di animali con un corno solo: Ctesia di Cnido, medico greco del IV secolo a.C., soggiornò a lungo in Persia e raccolse storie di viaggiatori provenienti dall'India. Da questi fantasiosi racconti, egli cercò di ricostruire l'aspetto di un animale che chiamavano «asino indiano» e che possiamo a stento identificare con il rinoceronte indiano, per le virtù curative attribuite al corno e per il fatto che non può essere catturato vivo a causa della sua forza.

Pachidermi cornuti
Il grande Aristotele, contemporaneo di Ctesia, si limitò a considerazioni anatomo-comparative sulle descrizioni altrui, dicendo che il cosiddetto «asino indiano» sarebbe stato l'unico animale con zoccolo intero ad avere un corno. E nessuno può contraddire il Maestro, poiché il peso del corpo del rinoceronte grava effettivamente sullo zoccolo centrale di ciascun piede, proprio come nel cavallo di cui il cornuto pachiderma è un parente non troppo lontano. 
È vero che il rinoceronte, diversamente dal cavallo, possiede altri due zoccoli minori di sostegno a quello principale, ma Aristotele non aveva mai visto questo animale e quindi si limitava a interpretare i racconti di altri. Infine, Plinio (I secolo d.C.) aggiunse il particolare delle zampe elefantine, carattere che può solo riferirsi al rinoceronte. Il dibattito sull'identità dell'unicorno stava languendo e sarebbe finito con la vittoria del rinoceronte...e della verità scientifica, ma il Medio Evo «oscuro» stava preparando una sorpresa «luminosa».
Durante le invasioni barbariche, in Europa iniziò a circolare uno strano oggetto d'avorio, lungo, dritto e spiralato. I mercanti che lo portavano non venivano dall'Asia ma dal Grande Nord e appartenevano alla stirpe dei Vichinghi: avevano barbe e capelli biondi, pelle chiara e occhi azzurri, caratteristiche foggiate dall'ambiente artico, dove non bisogna proteggersi dalla luce del sole. Fra la mercanzia che essi portavano c'era il nuovo oggetto del desiderio: il canino superiore sinistro del narvalo (Monodon monoceros), una specie di delfino che vive esclusivamente nel Mar Glaciale Artico. Tale dente si allunga fino a 2,5 m nel maschio adulto e possiede la stessa funzione delle corna negli erbivori terrestri: esibire la forza del maschio per garantire ai vincitori una discendenza più numerosa. Forse nemmeno i mercanti vichinghi sapevano a che animale appartenesse questo oggetto che avevano probabilmente ricevuto da pescatori Inuit. In ogni caso, lasciarono che gli Europei «terroni» credessero nell'esistenza di un cavallo barbuto, con coda asinina e zoccoli doppi, costruito con fantasia intorno a un dente di delfino e all'immagine svanita del rinoceronte. 
Il Mediterraneo aveva così (ri)trovato l'unicorno, e si trattava di una nuova versione, questa volta ben definita e adatta ai nuovi tempi, che si prestava a miti intriganti e gentili dove l'Amor Cortese aveva un ruolo importante. La passione religiosa ed erotica del Medio Evo si sbizzarrì e andò alla ricerca di tutte le virtù e le proprietà che i Maestri del passato avevano scritto su rinoceronti e altri animali indefiniti, per attribuirle in massa al Nuovo Unicorno. 

L'«ibrido» innamorato
L'iconografia medioevale dell'unicorno ha avuto un esordio difficile, come un periodo di disorientamento, durante il quale gli artisti dovevano ancora decidere l'aspetto del nuovo animale ormai diventato di moda. Il corno c'era, anche se si trovava soltanto nelle mani dei sovrani e di pochi potenti, ma il resto del corpo? A conferma dell'ambiguità che questo animale immaginario avrebbe rappresentato nella cultura europea, fra le icone medioevali più antiche esistono immagini in cui l'identità dell'erbivoro viene mescolata con quella del carnivoro, unendo così la mitezza e la ferocia dell'uno e dell'altro. In molte stampe e arazzi medioevali, ci sono immagini di unicorni in cui il muso del cavallo o della capra sfuma in quello di cane o di lupo, talvolta anche di leone, ma sempre con un corno sulla fronte, che si rifugiano nel grembo di giovani donne, presumibilmente vergini, talvolta della stessa Madonna, essendo perseguitati da cacciatori o soldati. In altre immagini, si vedono gli stessi animali in braccio a fanciulle sia nude sia vestite, che vengono usate come esche per ucciderli. In questa varietà iniziale di forma e composizione delle immagini, spesso contraddittorie, gli unicorni possono avere un corno con o senza spirale, dritto o incurvato, talvolta in avanti e altre volte all'indietro. 
Viene da chiedersi che cosa significhino queste scene di unicorni con la testa sul grembo di cotante damigelle. Tutto si spiega con la lettura del Physiologus (III-IV secolo), uno dei primi bestiari cioè di opere in cui venivano illustrati e commentati animali domestici, selvatici e immaginari alla ricerca del loro significato in rapporto all'umanità. In altre parole, se Dio ha creato il mondo per l'Uomo, a che servono tutti questi mostri? Richiamandosi agli antichi racconti biblici e non, che celebravano l'imbattibilità del rinoceronte, qualità attribuita poi all'unicorno medioevale, il Physiologus afferma che l'unico modo per domare questo animale consiste nel mettere una fanciulla vergine sul suo cammino. Allora, magicamente o divinamente, la bestia diventa docile e pone il suo capo sul grembo della vergine per poi addormentarsi. Così gli uomini possono ucciderlo con lance, frecce e asce. 
È così che la forza e l'animo selvaggio vengono attratti e vinti dalla femminilità e dalla dolcezza? Erotismo e religiosità realizzano nell'unicorno un sincretismo che coinvolge la biologia e la dinamica del comportamento sessuale umano (la bella e la bestia), il culto dionisiaco del mondo pagano (barba caprina e zoccoli divisi) e il mondo cristiano, fondato sull'incarnazione del figlio di Dio nel grembo di una vergine. Ecco quindi fiorire nelle chiese medioevali e rinascimentali, dipinti e sculture in cui l'unicorno appare in braccio alla Madonna, divenuto simbolo di Gesù Cristo. Le due anime del Medio Evo (Dante e Boccaccio) trovano quindi nell'unicorno un personaggio simbolico di purezza ed eros, che sarà rappresentato in tutte le salse, durante l'inquieto mondo di transizione fra antichità e illuminismo. Le rappresentazioni dell'unicorno e delle figure femminili coinvolte in quello che è stato definito il tema della Morte dell'Unicorno, meritano di essere osservate una ad una nei loro dettagli sempre diversi e sorprendenti. 
L'atteggiamento delle dame ritratte nel momento cruciale della loro partecipazione alla morte di un animale considerato divino e nello stesso tempo perseguitato dall'uomo è molteplice e spesso imbarazzante. Nelle loro espressioni, spesso si legge la tristezza per la sorte dell'unicorno come se non fossero consapevoli del proprio ruolo di esca, oppure la sorpresa mista a disappunto per essere state coinvolte in un'operazione così malvagia, come l'uccisione di un animale tanto bello e puro. Alcune si limitano ad accarezzare l'animale come se avvertissero l'ineluttabilità dell'uccisione mentre altre sembrano minacciare con il dito o fermare con la mano alzata gli uomini che si accingono a trafiggerlo. 
Infine, altre sembrano passive ma determinate collaboratrici dei cacciatori, e reggono l'animale per il corno come per facilitare l'operazione. Anche l'unicorno viene ritratto in molteplici atteggiamenti che vanno dalla rabbia all'abbandono, dalla contemplazione dell'amata alla consapevolezza della propria sorte. In un dipinto del 1230 del Rochester Bestiary, un soldato trafigge un unicorno che si appoggia a una ragazza completamente nuda con i capelli sciolti, apparentemente indifferente alla morte dell'animale. Il colore dell'unicorno è identico a quello della ragazza, come se l'animale non fosse rivestito da un mantello ma da pelle umana. 

Fra le braccia della dama
In un arazzo del 1500, conservato a Basilea (Historisches Museum, Inv 1926.40), viene rappresentato un unicorno in grembo a una ragazza, entrambi con caratteristiche eccentriche: l'animale non è bianco ma ha un mantello simile a quello del daino, marrone chiaro con macchie bianche sul dorso; la damigella, invece, mostra lunghi capelli biondi e sciolti sulla schiena, una ghirlanda fiorita come la primavera di Botticelli e un lungo abito azzurro che lascia vedere i capezzoli attraverso due fori. Con la mano sinistra, la ragazza accarezza la folta criniera equina dell'animale mentre con la destra regge la base del corno. Completamente diverse sono le immagini in cui la figura femminile assomiglia alla Madonna e, in rari casi, ricorda Gesù. Per esempio, nel bestiario di Philippe de Thaon la figura umana che abbraccia l'unicorno mentre questo appoggia le zampe anteriori sul suo grembo e viene trafitto da una lancia, non è una ragazza vergine ma un giovane uomo con la barba. 
Infine, anche gli assassini mostrano atteggiamenti diversi e appartengono a due categorie nettamente distinte. In alcuni dipinti si tratta di soldati, protetti da armature, come se l'uccisione dell'animale fosse un atto istituzionale, probabilmente per compiacere il sovrano che attende il prezioso corno. In altre immagini, prevalgono figure di semplici cacciatori, forse contadini o proletari armati di asce, che sperano di vendere il corno a un ricco signore. 
In un dipinto inglese del 1220-1230, conservato al Fitzwilliams Museum, un uomo elegantemente vestito e disarmato, scende dal cavallo e si accinge a prendere delicatamente l'animale con le mani, mentre questo si trova come incantato fra le braccia di una dama.

Perché il popolo vuole «panem et circenses»



Maurizio Bettini

                                                       "La Repubblica", 11 agosto 2013

«Che fa il popolo di Remo?», si chiedeva Giovenale. «Un tempo assegnava comandi, fasci, legioni, ma da quando non si vendono più i voti, desidera solo due cose: il pane e il circo». Questo emistichio del poeta romano - panem et circenses - è divenuto una sorta di emblema. Evoca la degenerazione di un popolo pronto a cedere la propria libertà in cambio del divertimento a buon mercato: un fenomeno che oggi sembra più visibile che mai.
Questo motto di Giovenale ha fornito il titolo a uno dei capolavori della storiografia antica, Il pane e il circo di Paul Veyne, che Il Mulino ha appena ristampato.
Che cosa ha da offrire questo libro al lettore di oggi? Moltissimo. Veyne infatti non è soltanto un grande storico antico, è soprattutto uno studioso di straordinaria intelligenza. Come tale egli prende spesso spunto dal mondo greco e romano per affrontare problemi assai più generali, del tipo: che cos'è il lusso? che cosa vuol dire adorare qualcuno come un dio? com'è nata e cos'è la carità cristiana? Questo volume costituisce pertanto non solo un magistrale studio sul mecenatismo antico (tema quanto mai attuale, peraltro, in un periodo in cui a restaurare il Colosseo ci pensa non più lo Stato, bensì un privato), ma, più in generale, un manifesto di intelligenza critica: nel quale si riflette sul potere, sul denaro, sul patrimonio, sullo spettacolo, sul rapporto fra governati e governanti. Ciò detto, che cosa pensa Veyne del fatidico motto di Giovenale? Dunque, una visione "di destra" del fenomeno panem et circenses, peraltro quella condivisa dal poeta stesso, vuole che in questo modo il popolo, immerso in un bieco materialismo, perda il senso della libertà. Una visione "di sinistra", invece, vuole che il facile divertimento distolga il popolo dalla lotta contro le disuguaglianze. Ed ecco entrare in campo l'intelligenza critica di Veyne. Entrambe queste visioni, spiega, presuppongono che, da un lato, chi detiene il potere operi sempre con astuzia machiavellica; dall'altro che il popolo aspiri spontaneamente a decidere delle proprie sorti, insomma a occuparsi di politica - e come tale, possa essere distolto da questa sua naturale tendenza solo tramite l'astuta somministrazione del divertimento. Salvo che il circo non era solo una macchinazione dell'imperatore, così come non si "spoliticizza" il proletariato semplicemente facendogli leggere riviste di gossip. Se queste non esistessero, argomenta Veyne, molte persone si annoierebbero, ma non necessariamente si dedicherebbero alla politica. Oppure si possono leggere riviste di gossip e, nonostante ciò, essere militanti. Il fatto è che la perdita del senso civile, o del desiderio di libertà, ha cause molto più variee profondeche non siano la semplice offerta di divertimento.
Tant'è vero che il circensis a volte funziona, ma a volte no: è fallito nella Firenze del Quattrocento, così come ai nostri giorni in Brasile, dove migliaia di persone sono scese in piazza addirittura contro l'equivalente odierno del circo, il calcio. Il sentimento civile non è spontaneo, prima di perderlo è necessario esserselo guadagnato; e prima di dimenticarlo, bisogna che ci sia stato insegnato. Ecco dunque una delle innumerevoli lezioni che possiamo trarre da questo libro: mai cedere alla lusinga dei motti o dei luoghi comuni, che non spiegano nulla, proprio perché sembrano spiegare tutto.

sabato 24 agosto 2013

Van Gogh e l’arte di conservare le aringhe


Melania Mazzucco 


"La Repubblica", 11 agosto 2013

Cosa c’è di più umile e feriale di un’aringa? Nuota in tutti gli oceani. Brutta e bistrattata, da viva non vale niente. Ma da morta è utile, quasi necessaria. La sua carne stopposa sa di sale o di fumo. La mangiano i poveri d’Europa, e infatti trovi aringhe sorelle di queste nelle taverne dei pittori del ‘600. Ignara, l’aringa ha fatto ricchi gli olandesi. Dicono che Amsterdam sia costruita sulle lische di aringa: i pescatori e i commercianti le devono le loro fortune. 
I pittori non hanno dipinto solo santi, eroi, cose belle e azioni nobili. Anche le più irrilevanti. Il primo è stato il greco Pirèico, citato da Plinio nella Storia Naturale. Dipingeva quadretti di “cose sordide”: cibi, utensili, animali. Questi compaiono anche nelle opere del Medioevo e del ‘400, ma una pernice morta deve aspettare Jacopo de’ Barbari nel 1504 per divenire soggetto di un quadro. E il genere della ‘natura morta’ fatica ad affrancarsi dal pregiudizio classicista che la relega al gradino inferiore dell’arte. Tra i maestri che riproducono con angosciante verosimiglianza tranci di carne, verdure appassite, selvaggina in carniere, molti sono olandesi. Come van Gogh che - pur essendo venerato soprattutto per i ritratti, i paesaggi, gli abbacinanti campi di grano, i cipressi e i girasoli - si è spesso dedicato alla natura morta. Ha raffigurato cipolle, patate, scope, ombrelli, pere, caraffe, pentole, boccali di birra, pipe, caffettiere. Oppure scarpe sformate, con le suole chiodate e i lacci esausti, e sedie di legno grezzo, con l’impagliatura in briciole. Stadio estremo della materia. Oggetti d’uso quotidiano, consunti, che urlano sulla tela la loro fatica di esistere. Ma niente mi commuove più di queste due legnose aringhe affumicate, comprate in una bottega di Arles da un uomo che disperatamente si aggrappava alla pittura per dimostrare al mondo e a se stesso di essere ancora un artista. 
Van Gogh le dipinse nel gennaio del 1889, appena dimesso dall’ospedale Hotel-Dieu - dove era stato ricoverato dopo il famigerato litigio con Gauguin, e la mutilazione dell’orecchio. Non guarito e, anzi, ancora incalzato da terrori di morte e voci persecutorie: però lucido, desideroso di normalità. Voleva erigere un argine contro la malattia che lo incalzava. Al fratello Theo scrisse di aver iniziato qualche natura morta per “ritrovare l’abitudine di dipingere”. Scelse qualcosa di semplice: piccolo formato, pochi colori. 
Benché si identificasse coi ronzini dagli occhi tristi che tirano la carrozza dei signori, van Gogh ha dipinto pochi animali. Qualche mucca, buoi, pecore, farfalle, un martin pescatore, il cavallo della raccolta rifiuti. Invece, pittoricamente stimolato dalle squame argentate del dorso, o proprio dal loro destino ‘cristiano’ di cibo dei poveri e consolazione degli affamati, aveva già dipinto aringhe rosse simili a queste (a Parigi, nel 1886-87: una l’aveva scambiata con un tappeto). Ma in modo più convenzionale. Se il soggetto è lo stesso, il ‘motivo’ è cambiato. Stavolta le guarda da vicino, strappandole a ogni spazio naturalistico. Le aringhe sono posate su un cartoccio, a sua volta posato su un piatto di ceramica, e questo su una sedia.
Ma la parete, di un pallido viola (come nella Stanza dell’artista) è ridotta a un rettangolo rigato di pennellate verticali; la sedia di paglia giallognola e verdastra (la ‘sua’ sedia, già protagonista di un quadro) a una fitta tessitura di fili orizzontali. Le pennellate si susseguono “come le parole in un discorso o in una lettera”: van Gogh scrive dipingendo. Le aringhe sono due forme aguzze - le bocche asfittiche nel dolore dell’agonia, la pelle crostosa, le code secche, le scaglie rosse come braci. Il quadro è una sinfonia in giallo e viola, colori complementari. Benché van Gogh preferisse considerarsi un calzolaio e non un musicista di colori, sbalordisce la gamma di sfumature del giallo - oro vecchio, oliva matura, limone acido, burro fresco - che riesce a esibire in uno spazio così esiguo. 
Ma i vicini di casa lo temevano e in 30 firmarono una petizione al Sindaco. Il ‘pazzo’ alcolista rappresentava una minaccia per donne e bambini: chiedevano il suo internamento. La polizia lo riportò all’ospedale, in isolamento, e mise i sigilli alla Casa Gialla. Le Aringhe affumicate, insieme agli altri quadri iniziati dopo la crisi, rimasero sotto sequestro. Quegli inoffensivi pesci morti avevano contribuito a esasperare i gendarmi, perché ad Arles essi venivano soprannominati ‘aringhe’. Come se li avesse dipinti per schernirli. 
Nella storia dell’arte sono passate in leggenda le inimicizie tra i pittori. Le cattiverie, le rivalità che opposero Bramante e Michelangelo, Tiziano e Tintoretto, Caravaggio e Baglione, Lanfranco e Domenichino, Picasso e Matisse. Di rado invece vengono ricordate le amicizie, come se si potessero capire l’invidia e il complesso di Salieri più facilmente dell’ammirazione reciproca e della solidarietà che talvolta uniscono spiriti diversi in tutto, eppure capaci di comprendersi. Le Aringhe affumicate di Arles parlano anche di questo. Esse sono l’ultima apparizione di un genere di pittura perduto: il dono d’addio. In segno di amicizia, i Greci donavano all’ospite in partenza un quadro che raffigurava frutti o cibi. Lo chiamavano xenia. Il 23 marzo, su richiesta di Theo che lo sapeva in viaggio nel sud della Francia, il pittore Paul Signac andò a trovare van Gogh in ospedale. Può sembrare un gesto doveroso. Non lo era. Nessun altro (a parte il postino Roulin e un pastore protestante) si prese la pena di fargli visita. Signac lo aveva conosciuto a Parigi nel 1887: ad Asnières avevano dipinto insieme il paesaggio industriale suburbano. Van Gogh aveva assimilato la lezione neo-impressionista di Seurat - di cui Signac era sodale e amico. Ad Arles, Signac ottenne il permesso di far uscire van Gogh dall’ospedale, ma non di sfondare la porta della Casa Gialla (la serratura era stata rotta durante l’apposizione dei sigilli). Signac la aprì lo stesso. Van Gogh gli mostrò i quadri cui lavorava prima del ricovero: Caffè di notte, La Berceuse, Notte stellata… L’anarchico Signac era un artista consapevole e un critico acuto. Parlarono a lungo di pittura, fraternamente. La sua presenza risollevò il morale di van Gogh. Credeva che l’amicizia, liberandolo della sua spaventosa solitudine e ancorandolo alla vita, potesse salvarlo. L’indomani, al momento del congedo, come ringraziamento volle regalargli un quadro: questo. 
La corrente puntinista di Signac fu sconfitta dall’influenza della pittura di van Gogh, estranea allo studio degli effetti della luce. Ma Signac non serbò rancore, e non esitò a riconoscere il genio dell’altro. Definì ‘capolavori’ i quadri visti nella Casa Gialla. Ebbe sempre care le Aringhe affumicate, e non volle venderle mai. Esse restano una lezione di pittura, e un pegno d’amicizia: xenia.

Contro Hitler la scelta di Sophie e Hans


Paolo Di Paolo 

“La Stampa” , 12 agosto 2013

Quanta energia è necessaria per resistere al peggio? Quanto slancio, quanta passione, quanta imprudenza servono per resistere? Questa è una storia di settant’anni fa, una storia di notti lunghe, elettriche: «La notte è amica della libertà» dice Sophie. Ed è di notte che suo fratello Hans sveglia gli amici, piomba a casa di un libraio per parlare di Kleist o della bozza di un volantino antinazista. 
Hans e Sophie Scholl, nel 1943, hanno poco più di vent’anni: dieci anni prima erano entrati a far parte della Gioventù hitleriana, uscendone presto, in conflitto con lo spirito conformista e 
oppressivo dell’organizzazione. La loro è una storia di scritte coraggiose – «Abbasso Hitler» a 
caratteri cubitali sulla Ludwigstrasse – e di volantini che invadono a migliaia l’Università: «Ogni 
individuo è stato chiuso in una prigione spirituale mediante una violenza lenta, ingannatrice e 
sistematica… Fate resistenza passiva, resistenza; ovunque vi troviate; impedite che questa atea macchina da guerra continui a funzionare». E ancora – nell’ultimo volantino prima dell’arresto e della condanna a morte – «Studentesse! Studenti! Il popolo tedesco ci guarda! Da noi esso si aspetta, oggi nel 1943, come già accadde nel 1813 con la distruzione del terrore napoleonico, la distruzione del terrore nazionalsocialista mediante la potenza dello spirito».
La vicenda coraggiosa e sfortunata di Hans e Sophie Scholl, del movimento giovanile antinazista della Rosa Bianca - già al centro di un film del 2005 diretto da Marc Rothemund (La Rosa Bianca – Sophie Scholl) - viene rievocata, a settant’anni dalla morte dei due protagonisti, con una mostra fino al 22 agosto alla University of Nevada Las Vegas e più avanti alla Michigan Tech University. 
D’altra parte questa è una storia di studenti, della rete appassionata e non violenta costruita giorno per giorno, ora per ora, da un drappello di ragazzi e ragazze convinti di non potere arrendersi al male del nazismo. Ma è tra i libri, nelle discussioni appassionate che tutto questo nasce, alimentato dalle lezioni e dall’esempio di professori come Kurt Huber: «Sarà nostro compito – diceva –  proclamare il più chiaramente possibile la verità, nella notte in cui è immersa la Germania».
Dopo avere terminato il servizio di leva, Hans si era iscritto a Medicina a Monaco. Segue i corsi di botanica («la lezione più bella tra quelle con obbligo di frequenza»), studia il greco. «Conoscere è potere» scrive ai genitori e chiede di mandargli, insieme a un giaccone («di sera in camera fa ancora piuttosto freddo»), un’edizione completa delle opere di Nietzsche. Annota di giorno in giorno le spese, cerca di risparmiare il più possibile, l’unico grande desiderio sarebbe avere una lampada da tavolo: «Non è un bene di lusso; gli occhi necessitano di buona luce. Per me la lampada è importante, perché di notte leggo molto. Scoppia la guerra, viene ripetutamente chiamato al fronte; nel ’42 la Studentenkompanie a cui Hans appartiene viene destinata a un servizio in Russia di «tirocinio al fronte». «Scrivetemi tanto!» chiede per lettera alla mamma e alle sorelle: «Le vostre lettere mi rassicurano molto. Poiché l’amore si eleva al quadrato della distanza, provate a immaginare quanto spesso i miei pensieri vadano a tutti voi, soprattutto di sera, quando sulla pianura russa d’improvviso cala la notte, e ci si mette a sedere, al buio. L’autunno ha già colorato di giallo le foglie delle chiome, e le betulle, sì, le betulle, se ne stanno fra gli abeti alti e solenni come  fanciulle, e tremano per il freddo». Vive a fondo la nostalgia, l’ansia, la paura, la pietà. Legge Dostoevskij nella penombra, sforzando gli occhi, e scopre di poterlo comprendere appieno solo là, nella grande pianura russa. «Ogni giorno, ogni ora, quasi tutte le persone vivono la stessa cosa; un burrone inaspettato si apre davanti ai loro passi incuranti». Tornato a Monaco, verso la fine del ’42, ritrova gli amici e la vita quasi come l’aveva lasciata, torna a studiare, ad ascoltare Bach, a leggere Verlaine, a discutere di politica e di futuro. L’aria di Monaco lo elettrizza, lo fa restare sveglio fino a notte fonda. Sente che gli studi di medicina cominciano a stargli stretti, se non si legano all’essere anche «un filosofo e un politico». La sorella Sophie, con cui vive in due stanze in affitto al numero 13 della Franz-JosephStrasse, studia biologia e filosofia, si ferma a bere il tè insieme ai professori. 
«Sono felice – scrive a un’amica – quando posso assimilare. Anche se sono ancora su un terreno oscillante». Chiede ai genitori di farle avere una bicicletta, sui tram si perdono un sacco di soldi e di tempo. Alle pagine del diario confida i dubbi e le paure; si rivolge direttamente a Dio: «Non posso fare altro che balbettare con Te. Non posso fare altro che tendere verso di Te il mio cuore». Teme i pensieri frivoli e la volontà egoista, di concedere troppo spazio alle proprie sofferenze e poco alle altrui. A volte desidera di non essere altro che un albero, o soltanto la sua corteccia. Ma a riportarla nel vortice del presente è l’impegno nel tenere le fila della “Rosa Bianca” insieme ad Hans e tutti gli altri, Christoph, Alexander, Willi. «Uno spirito forte, un cuore tenero» è il suo motto. Dopo l’atto di volantinaggio del 18 febbraio ’43, Hans e Sophie vengono arrestati dalla Gestapo, con l’accusa di avere incitato al sabotaggio dello sforzo bellico e propagandato idee disfattiste. Saranno ghigliottinati dopo quattro giorni. Pare che Hans, in faccia agli ufficiali colpiti dal suo coraggio, abbia gridato «Viva la libertà!». 

venerdì 23 agosto 2013

Il giallo racconta di noi


Salvatore Cannavò
"Il Fatto quotidiano", 5 agosto 2013
Carlo Lucarelli non è solo uno scrittore. Custodisce e coltiva il mistero e ne fa un genere attraverso il colpo di scena, “un gancio straordinario” con cui crea emozioni letterarie. Il giallo può essere una categoria difficile da catalogare. Ormai esiste l’hostage thriller, il medical thriller, il crime o il mistery, i sottogeneri sono decine. “Quando all’estero mi chiedono cosa scrivo non so cosa dire”, racconta Lucarelli. Per spiegare di cosa stiamo parlando, allora, propone una formuletta molto semplice: “Un bambino torna a casa, racconta della scuola, i genitori lo ascoltano, poi si mettono a pranzo. Non succede niente. Ma se quel bambino, tornando a casa, guarda i genitori in silenzio per qualche secondo e poi dice: ‘Non potete immaginare cosa ha fatto oggi la maestra’... allora il gioco è fatto. La storia può cominciare, abbiamo un giallo”. La differenza è il modo di raccontare. “Posso raccontare le stesse storie di Baricco ma quello che fa la differenza è scrivere un’opera di narrativa incentrata su un mistero sviluppato secondo le tecniche della suspence e del colpo di scena fino a uno svolgimento finale inatteso. Questo è noir. Come i Promessi sposi, in fondo”.

Carlo Lucarelli è la persona giusta per entrare nella storia del genere e dei suoi personaggi: Poirot, Sherlock Holmes, Marlowe, Maigret, Montalbano. Figure dalla forza espressiva notevole che rimangono appiccicate al lettore molto più dei loro autori.

Che distinzione c’è tra giallo, noir, poliziesco e tutti gli altri generi? 

È vero che il giallo classico risponde a una domanda ben precisa: chi è stato condannato e perché. Il poliziesco, invece, utilizza la polizia come protagonista con tutta la sua struttura. Gli americani utilizzano la definizione di procedural, come ad esempio la serie televisiva The Shield. Ma è difficile dare una definizione a qualcosa che nel frattempo si è fuso e mescolato. Io ho sempre preso come riferimento la “libreria del giallo” di Milano, gestita da Tecla Dozio. Tutto quello che c’era su quegli scaffali apparteneva al genere. Ci avremmo potuto trovare sicuramente Agatha Christie, il giallo classico ma anche Raymond Chandler, con il suo poliziesco americano d’azione, l'hard boyled. Ci avremmo trovato Patrick Manchette o Leo Malet, gli autori del polar francese con storie molto disperate e con risvolti sociali forti, che parlano di individui braccati dalla polizia in cerca di una resurrezione. C’erano Eraldo Baldini e, poi, Massimo Carlotto. Una fusione di cose che si sono sviluppate nel corso degli anni. Lo svizzero, Friedrich Glauser diceva: “Il giallo è un ottimo modo per dire cose sensate”. Quindi non va inteso come un “genere” ma come un’ottima macchina, una specie di Ferrari che è la narrativa del colpo di scena, un gancio meraviglioso per attrarre il lettore.

All’inizio, però, abbiamo un genere piuttosto elegante e definito. Agatha Christie, Conan Doyle.

Il primo romanzo che rientra nella definizione di “giallo” è I delitti della Rue Morgue pubblicato da Edgar Allan Poe nel 1841. È una storia quasi fantastica, per certi versi soprannaturale. Il delitto è avvenuto in una stanza ermeticamente chiusa dall’interno. Il detective, utilizzando solo la propria testa cerca di capire cosa è successo. E ci riesce. Per un lungo periodo il giallo è stato questo: un “fattaccio” che viene scomposto e analizzato da un detective. Il disordine rimesso in ordine. Il modello però va in crisi, anche quello di Agatha Christie, perché il mondo cambia: il detective eccentrico, il più eccentrico possibile, non funziona più. È un modello che non racconta più la realtà ed ecco che arrivano gli americani con l’hard boiled, Raymond Chandler (vedi Marlowe) o Dashiel Hammett. Secondo Chandler bisognava “restituire il delitto a chi lo commette davvero”. Basta con gli omicidi del visconte scozzese in un castello con la stanza ermeticamente chiusa, senza lasciare tracce. Un gioco letterario che ai tempi di Agatha Christie poteva andar bene ma dopo, nel vivo di crisi sociali acute, non regge più. Diamo il delitto, quindi, al killer di mafia o andiamo a vedere chi ha ucciso il garzone del macellaio per coprire la corruzione del governatore. Questo è l’hard boiled americano. L’uomo di cui si parla non è più “strano”, come Sherlock Holmes o Hercule Poirot, uno strano investigatore belga dai baffi impomatati, ma una persona normale. Generalmente un uomo solo contro il potere. Marlowe è un investigatore privato, buttato fuori dalla Procura ma che non perde la voglia di indagare e di contrastare le ingiustizie.

Il protagonista, però, rimette ancora a posto le cose. Mette ordine nel disordine.

Sì, ma i modelli cambiano continuamente. Chandler sosteneva che l'investigatore dovesse essere ineccepibile, “un cavaliere senza macchia e senza paura”. Marlowe, infatti, ha una sua morale. Se ha un difetto è quello di bere troppo; è troppo indipendente ma non va a letto con le clienti; si innamora. È un romantico.
Ma a un certo punto, ad esempio con Patricia Highsmith (che crea Tom Ripley, ndr) ci troviamo di fronte a protagonisti che diventano anch’essi cattivi, a indagini condotte da poliziotti negativi, esponenti di un potere oscuro. Uomini con molti più difetti e contraddizioni. La contraddizione si impone. Non ricordo chi, tra Sciascia e il grande scrittore svizzero Durrenmatt, abbia definito questo genere come “il romanzo problematico o dell’inquietudine”. In effetti, quello di cui parliamo è il romanzo della metà oscura.

La storia del genere, quindi, prosegue a tappe e ognuna ingloba l’altra.

Diciamo che c’è un’evoluzione letteraria e storica. All’inizio il giallo è razionalità, una soluzione che risolve l’irrazionalità (Sherlock Holmes, il cavalier Dupin di Allan Poe, Agatha Christie). Poi si passa a storie dallo sfondo sociale che “restituiscono il delitto a chi l’ha commesso davvero”, per arrivare alla contraddittorietà in cui fuoriescono protagonisti negativi. Penso, però, che ci sia un momento in cui si arriva alla mescolanza dei generi. Storie noir, ad esempio, con venature di horror. Uno dei maestri è Stephen King, altrimenti difficile da collocare. Oppure il nostro Niccolò Ammanniti. Contemporaneamente c’è stata l’evoluzione del lettore - il vecchio lettore dei Gialli Mondadori era in grado di leggere un libro ogni quindici giorni - che si è cibato di una letteratura mondiale. Questo ha prodotto anche l’evoluzione degli editori che hanno iniziato a sperimentare. Così il genere è uscito dalle “collane di genere” ampliando l’offerta. Sellerio inizia a pubblicare molti polizieschi, tra cui il mio, perché, spiega, “facciamo letteratura di frontiera”. E il noir è letteratura di frontiera.

Il protagonista più affascinante sembra essere “l’irregolare”. Cosa rappresenta? 
L’irregolare è quello che si alimenta di una realtà che sta al margine. Il noir francese di Jean Patrick Manchette o Leo Malet parlano di persone emarginate, piccoli criminali, delinquenti, anarchici, rivoluzionari, impegnati in una Parigi tentacolare contro l’ingiustizia e il potere. Lo facevano “dalla parte sbagliata” ma il protagonista del noir è sempre una persona che da sola svolge un’indagine non autorizzata. Altrimenti non avremmo inquietudine e contraddizione. Se avessimo la società intera che in maniera pacifica indaga su sé stessa, con tutta la magistratura, la squadra mobile e magari anche la politica, non ci sarebbe ansia. Noi abbiamo a che fare, invece, con un “poveraccio” che si muove in un mondo che, invece, gli è contro.

Ma funziona anche il romanzo con il poliziotto regolare?

Il bello del nostro genere è che non c’è mai stato un modo di scrivere codificato, nonostante qualcuno tenti di fissare le “dieci” o “venti” regole del giallo. Perché quello che conta è la sorpresa. Il colpevole non può essere sempre il maggiordomo. Occorre scardinare e gli esempi contraddittori non mancano mai. Ad esempio il commissario Maigret, la figura più noir di tutte, quella che nelle sue memorie scrive, lui, una lunghissima lettera al proprio autore, Georges Simenon, in cui gli rimprovera tutto quello che non ha capito. Quasi come se a esistere fosse Maigret e non Simenon. Eppure, lui se ne sta alla Sureté di Parigi, ha dietro tutti i suoi uomini, è perfettamente integrato, portatore dei valori della società, e rimette le cose in ordine. Lo fa con calma, rimanendoci male perché scopre ogni volta che il mondo è brutto ma in fondo lo sapeva già. Maigret è anche uno dei pochi personaggi che ha un rapporto pacifico con le donne, tranquillamente e felicemente sposato. Tutti gli altri sono soli, divorziati, con situazioni critiche, con problemi.

Da regolare a irregolare il passo è sempre breve.
Infatti, prendiamo il caso di Duca Lamberti, di Giorgio Scerbanenco, protagonista di quattro romanzi noir di una bellezza eccezionale. Racconti della Milano del boom e della connessa ingiustizia sociale, che sembrano ancora attuali. A I ragazzi del massacro basterebbe sostituire le etnie, con marocchini e rumeni al posto dei meridionali di allora, per avere un romanzo di oggi. Lamberti è totalmente irregolare, è un medico radiato dall’ordine perché ha praticato l’eutanasia. Comincia ogni romanzo con la convinzione ferrea che gli assassini vadano ammazzati, e finisce sempre con l’idea opposta dopo essersi confrontato con la sua ragazza, femminista e psicologa degli anni 60.

Nella sua Storia sociale del Romanzo poliziesco, scritta però nel 90, Ernest Mandel cita cinque autori italiani: Scerbanenco, Eco, Sciascia, Fruttero e Lucentini. Che nomi potremmo aggiungere?

I nomi di Mandel sono giustissimi. La Donna della Domenica di Fruttero e Lucentini è straordinario. Il nome della Rosa rompe il pregiudizio accademico perché a scrivere un giallo è un uomo dell’alta cultura. Ne vanno aggiunti molti che sono venuti dopo, come il “noir mediterraneo”. Alcuni, però, potevano esserci anche prima ma appartenevano alla stagione in cui il giallo era solo letteratura di genere e scontava il pregiudizio accademico - “il giallo è straniero e noi non ce lo abbiamo nelle nostre corde” - oppure quello politico. Quando il giallo esplode, infatti, negli anni 20-30, viene proibito dal fascismo perché questo capisce che si tratta di letteratura ad alta valenza politica. Si veda il lavoro di Augusto De Angelis (Il commissario De Vincenzi, ndr) che verrà perseguitato dalla censura.
Poi ci sono stati i pionieri che sono andati avanti lo stesso negli anni 60 o 70. Giorgio Scerbanenco ma anche Loriano Macchiavelli che scrive Sarti Antonio nel 1974 perché sta facendo teatro di strada, molto politico, finendo spesso in galera. E lì capisce che le sue storie, raccontate in un romanzo poliziesco, avrebbero raggiunto molta più gente. Poi arriviamo “noi”. Grazie alle case editrici che “aprono le gabbie” nascono scrittori che vogliono raccontare la realtà, attuale o del passato, tramite una storia poliziesca. Sicuramente vanno citati
Massimo Carlotto e Andrea Camilleri.

Arriviamo a Montalbano. Come si spiega il successo di questo personaggio?

Anche lui non è un irregolare. Forse è il più vicino a Maigret. Il suo successo si spiega con la bravura di Camilleri che utilizza magistralmente i punti di forza della tecnica narrativa. Nel giallo esiste “l’uomo che cerca” e “l’uomo che nasconde”. L’uomo che cerca è il detective e può essere quello che vuoi. Questo ti permette di costruirlo a tutto tondo. Come, appunto, avviene con Montalbano. L’altro punto di forza è che il giallo consente la serie. La storia non finisce e così anche il lettore si affeziona. Camilleri è stato molto bravo, inoltre, a costruire altri personaggi di supporto al commissario, personaggi che al pubblico piacciono: Catarella, Fazio. Poi racconta storie belle e poliziesche che vogliamo sapere come vanno a finire. Il tutto raccontato in una lingua estremamente musicale. Camilleri sfrutta sapientemente tutte le possibilità di questo modo di raccontare. È tra i pochissimi, ad esempio, che in un romanzo parla efficacemente dei fatti di Genova 2001 quando Montalbano pensa di dimettersi dalla polizia.

Ha parlato spesso di “noi”, del “noir mediterraneo”. Di cosa parliamo? Una scuola, un gruppo?

Non esistono scuole. Noi ci siamo ritrovati a Bologna nel Gruppo 13 con Marcello Fois, Pino Cacucci, Loriano Machiavelli e molti altri, unita da una sensibilità comune. Il “noir mediterraneo”, che negli Usa chiamano noir europeo, ha avuto come esponente in Francia Jean Claude Izzo, l’ ideatore di Fabio Montale che, purtroppo, muore troppo presto. In Spagna è rappresentato da Francisco Gonzales Ledesma e, ovviamente, da Manuel Vàsquez Montalban. In Italia vanno poi citati Camilleri, Massimo Carlotto con il suo Alligatore, Giampiero Rigosi. La caratteristica più comune, oltre a interpretare il periodo storico, è l’attenzione alla scrittura. Siamo legati alla parola. All’umanità, alla contraddizione del personaggio. Al contesto sociale e politico.

Il nome da salvare più di tutti nella storia del noir?

Come modello ho sempre avuto Giorgio Scerbanenco e Duca Lamberti, un personaggio attualissimo. È davvero il personaggio che avrei voluto inventare io. Per il presente se ne scegliessi uno dovrei scartarne troppi.


Parliamo dei suoi personaggi, allora. l’ispettore Coliandro, Grazia Negro, il commissario De Luca. Cosa rappresenta ognuno di loro?
Coliandro è nato in maniera negativa, mi serviva per raccontare, in maniera umorista e caricaturale, le contraddizioni contemporanee. Poi è diventato televisivo e non è più un personaggio letterario. Nella letteratura era cattivo e disperato mentre in tv è passato a un altro mondo. Un altro personaggio disperato, anche se non sembra, è Grazia Negro che vive le angosce non tanto subendole ma osservandole nelle persone attorno a lei. Il commissario De Luca, invece, è quello che vorrebbe raccontare i misteri italiani. È compromesso con il regime fascista ma cerca di dimenticarlo. Assiste a momenti fondamentali della storia italiana, è un osservatore prezioso. Il mio prossimo romanzo sarà con lui. Mi piacerebbe portarlo fin dove è possibile, agli anni 50, 60, per fare con la letteratura quello che ho realizzato in televisione con Blu Notte. Utilizzare un personaggio per raccontare come gli italiani sono finiti nei guai. In fondo scriviamo noir per questo.