giovedì 31 gennaio 2013

Hannah Arendt



Esce in Germania il film sulla filosofa tedesca, 
autrice del celebre libro “La banalità del male”

Andrea Tarquini

"La Repubblica", 30 gennaio 2013

Con Wim Wenders, Werner Herzog, Margarethe von Trotta e tanti altri il grande cinema tedesco ci stupì e ci incantò dagli anni Sessanta a prima della caduta del Muro. Ora il film made in Germany torna a una sfida importante con Margarethe von Trotta e il suo Hannah Arendt, in uscita in Germania. Il film è dedicato alla grande filosofa, storica e scrittrice tedesca emigrata negli States, ma non racconta tutta la sua biografia, bensì un momento decisivo della sua carriera. Quello in cui Hannah Arendt fu testimone e cronista d’eccezione a Gerusalemme, al processo per crimini contro l’umanità ad Adolf Eichmann, l’ingegnere dell’Olocausto. Lei che studiò a fondo la genesi di ogni totalitarismo, e provocò e irritò la sinistra comparando il nazionalsocialismo al socialismo reale staliniano, allora fece ancora un altro balzo in avanti: raccontò e poi descrisse in celebre libro la “banalità del male”.
«Molta gente a sinistra allora la schivò, la evitò, perché lei pronunciò verità scomode, già nel 1951 nel suo libro sul totalitarismo paragonò i crimini nazisti con quelli del comunismo sovietico, e a noi di sinistra ciò suonava sospetto», dice Margarethe von Trotta nella recente, bellissima intervista a due voci che ha concesso a Marie Luise Knott e Christiane Peitz del quotidiano liberal berlinese Der Tagesspiegel, insieme a Barbara Sukowa, l’attrice tedesco-americana di origini polacche. «Ancora oggi», continua von Trotta, «ci sono persone che rifiutano il pensiero di Hannah Arendt perché analizzò entrambi i totalitarismi».
Il processo ad Adolf Eichmann, ricordiamolo, fu uno dei più grandi eventi mediatici del dopoguerra. L’ingegnere che eseguì con precisione industriale assoluta l’ordine hitleriano della «soluzione finale del problema ebraico», si era nascosto in Argentina. Nel 1960 un commando dell’intelligence israeliano, giunto a Buenos Aires con falsi contratti da tecnici edili a bordo di un DC4 con falsa matricola civile, lo sequestrò e lo portò in Israele. Al processo, le cui riprese restano memorabili (e in alcune parti compaiono anche nel film della von Trotta), Eichmann ammise, da freddo ingegnere privo d’emozioni, ogni colpa descrivendo qualsiasi minimo dettaglio, da come dovevano funzionare i forni alla quantità di gas Zyklone-B usata ogni volta. Fu condannato a morte e impiccato.
Hannah Arendt scrisse per i media americani il grande resoconto del processo e ora il cinema riporta agli occhi delle giovani generazioni tedesche quella memoria terribile che per fortuna viene insegnata loro ogni giorno a scuola. Un ruolo difficile da interpretare per la protagonista del film. «Se devo affrontare una parte», dice Barbara Sukowa, «non mi pongo troppe domande, ma ho letto il copione senza sapere molto di Hannah Arendt, poi informandomi mi sono stupita di quanto tempo dedicava al teatro, ai concerti, agli amici». Piccola difficoltà: Barbara Sukowa non fumatrice ha dovuto imparare ad avere una sigaretta in mano a ogni scena, perché «Hannah Arendt senza sigaretta non è realistica».
Margarethe von Trotta ha studiato a lungo ogni dettaglio di Hannah Arendt, ogni video o filmato disponibile su di lei o su sue interviste. «La sua intervista alla tv pubblica con Guenter Gaus» racconta la regista «mi colpì sulle prime per la sua apparente arroganza, ma poi capii che quello era anche il suo charme, tra sorrisi e senso dell’umorismo». Il film sulla Arendt si inserisce in una ideale trilogia cinematografica che von Trotta ha dedicato ad altrettante figure femminili decisive nella storia tedesca, tutte peraltro interpretate da Barbara Sukowa: da Rosa Luxemburg nel film del 1986 alla mistica Hildegard von Bingen in Vision del 2009. La regista spiega di aver studiato a lungo la storia di Hannah, prima di decidere la prospettiva dalla quale raccontarla. «Non mi convinceva fare un film generico sulla sua fuga in Francia dal nazismo, sulla prigionia nel Lager, sull’esilio in America. Volevamo dedicare la pellicola al suo pensiero, per far riflettere gli spettatori, come se il film fosse tratto dai suoi appunti, per questo ci siamo concentrati sulla sua resa dei conti con la storia, al processo contro Adolf Eichmann; come ogni eroe positivo, anche Hannah Arendt ha bisogno nella narrazione filmica di un antieroe».
Il film è preciso in ogni particolare, notano von Trotta e Barbara Sukowa. Dai momenti in cui l’allora direttore del New Yorker, Wiliam Shawn, aspettava nervoso il testo del reportage di Hannah sul processo ad Eichmann divorando le matite, fino ai dettagli più minuti: «Hannah Arendt non era una donna grigia vestita di grigio come molti la ricordano » nota Barbara Sukowa, «usava sempre il rossetto, e indossava una collana di perle o un braccialetto prezioso, e vestiva sempre con gonna e pullover, non amava i jeans».

L’umano assoluto di Don Chisciotte


Giulio Ferroni


"L’Unità",  30 gennaio 2013

Nella collana di Bompiani dedicata ai Classici le gesta dell’hidalgo a caccia di mulini a vento diventano la sublime metafora di un mondo diviso tra l’utopia e la mediocrità della condizione reale

TUTTA LA VARIETÀ MOLTEPLICE ED ETEROGENEA DEL ROMANZO MODERNO, DI QUELLO CHE È STATO, DOPO, IL MONDO ROMANZESCO, SEMBRA come erompere e scaturire dal Don Chisciotte, un libro assoluto, uno dei pochi libri davvero assoluti: con le mille avventure che si dispiegano nelle pagine di Cervantes, nei volumi della prima e della seconda parte, messi a stampa nel 1605 e nel 1615, ma che da lì hanno viaggiato nell’immaginario, con il richiamo di quel tipo umano, di quel fallimentare eroe in cui spesso si riconosce anche chi il libro non l’ha letto o l’ha sfiorato solo da lontano.
In esso la realtà e l’illusione si intrecciano con i grovigli più diversi, bizzarri e pedestri, abnormi e quotidiani, negli atti e nei discorsi del cavaliere dalla triste figura e del suo scudiero Sancho Panza. Nella follia di don Chisciotte nel suo voler credere nella realtà dei romanzi cavallereschi di cui è ossessivo lettore e nella possibilità di partecipare direttamente, nel presente, al loro mondo si manifesta l’attrazione dell’illusione, l’aspirazione impossibile a vivere entro un mondo perfetto e assoluto, a cui l’individuo possa imporre senza limiti la propria forza, il proprio coraggio, per il trionfo e della giustizia, della verità, della bellezza, in cui abbiano campo reale tutte le favolose meraviglie sognate dalle fantasie romanzesche. Ma nella rappresentazione della sua follia si dà anche la critica a quell’illusione, messa a confronto con la volgarità quotidiana, con la mediocre piattezza di un mondo in cui è sempre in agguato l’inganno, la menzogna, la violenza, il sordido squallore, il più bieco egoismo (e, semmai, la giocosa disposizione a beffarsi di chi quel sogno lo prende sul serio).
Don Chisciotte è uno dei più grandi emblemi dell’umano, del nostro essere sospesi tra l’utopia (che forse sgorga da sogni favolosi di ricomposizione e conciliazione) e la mediocrità delle condizioni reale (il contraddittorio, confuso, banale, disgregato darsi dell’esistenza, dei caratteri del mondo). È tutto questo, formidabile immagine della contraddittorietà del nostro essere (anche dell’essere politico, di un essere politico che non rinuncia a cercare il meglio pur nella coscienza della crisi e dello sfacelo): ma nello stesso tempo ci gratifica con la sua indifesa testardaggine, simpatico e sinistro, allucinato e cordiale; è qualcuno a cui alla fine non si può non volere bene, come non si può non volere bene al suo scudiero Sancho e all’autore che lo accompagna ammiccando in un narrare dispiegato e cordiale, pure pieno di trabocchetti, di contorsioni, di manieristici avvolgimenti. Egli finge del resto di attribuire l’invenzione della storia ad un altro autore, l’arabo Cide Hamete Benengeli, e crea incredibili sovrapposizioni tra piani narrativi, come quelle della seconda parte, dove l’eroe e il suo scudiero incontrano personaggi già informati su di essi e sulle loro imprese, avendole già lette nella prima parte.
Per questo e per mille altri motivi il Don Chisciotte ha fatto da nutrimento alla più grande narrativa europea, agendo anche sugli scrittori da esso in apparenza più lontani: e si può avere l’impressione che una delle ragioni di debolezza della più recente narrativa italiana sia data proprio dalla scarsa presenza di questo capolavoro tra le letture correnti.
Allora può essere occasione di un ritorno più intenso di questo grande romanzo l’edizione appena apparsa nella nuova collana dei Classici della letteratura europea con testo integrale a fronte, diretta per Bompiani da Nuccio Ordine (a cura di Francisco Rico, traduzione di Angelo Valastro Canale, pagine 2182: il testo e la traduzione sono accompagnati da ulteriori apparati e puntuale annotazione).
Nella stessa collana appare contemporaneamente l’edizione di un ampio poema inglese del tardo Cinquecento, che ha molteplici tangenze con la letteratura italiana, finora mai tradotto integralmente nella nostra e in nessun’altra lingua, La regina delle fate (The Faerie Queene) di Edmund Spenser, a cura di Luca Manini, introduzione di Thomas P.Roche jr, pagine 2288: poema d’eroismo e di magia, che sembra proiettarsi ancora, pur se in un’esaltata messa in scena simbolica, su quel mondo di cui il Don Chisciotte registra contraddittoriamente la caduta.
Queste edizioni così appaiate fanno così incontrare simbolicamente questo grande e quasi dimenticato poema, che per la nuova cultura inglese sintetizzava modelli ormai rivolti verso il passato, con il capolavoro al cui seguito si svilupperà tutta la storia del romanzo moderno: e l’introduzione di Rico (a cui spetta anche la cura del testo critico, che riproduce quello da lui approntato per l’edizione critica spagnola uscita per il centenario del 2005) ritrova le ragioni della singolare modernità del Don Chisciotte nel suo radicamento nella realtà concreta della Spagna nel passaggio tra Cinquecento e Seicento, dove era diffuso uso di travestimenti e mascherate in abiti cavallereschi, di tornei e di recitazioni in costume.
Nella sua follia l’hidalgo di provincia, con la sua armatura bizzarra e la sua celata di cartone, porta in giro per la Spagna anche quegli usi spettacolari, quelle diffuse proiezioni teatrali di un orizzonte eroico in realtà sempre più lontano dalla vita quotidiana (a cui in fondo Cervantes, già combattente a Lepanto, non poteva non guardare con una certa nostalgia).
Rico, che è il maggiore studioso della letteratura classica spagnola (ed è anche uno dei maggiori studiosi del Petrarca e dell’umanesimo italiano) mette poi in evidenza la vera e propria semplicità della scrittura di Cervantes, il suo procedere in un flusso continuo, in una lingua che sembra seguire la veloce disponibilità di un narrare affidato alla voce (il che non solo spiega certe sviste e incongruenze, ma le giustifica, attribuisce loro un singolare valore); e indica come il narratore, ponendosi nella prospettiva morale del «giusto mezzo», sappia nel contempo mostrare attenzione a tutti i comportamenti estremi, positivi e negativi (appunto con un senso modernissimo della contraddittorietà dell’esperienza, dell’impossibilità di ricondurla a modelli di perfezione).
Davvero moltissimi sono gli spunti suggeriti da questa edizione e dal lavoro di Rico. Ma c’è una bizzarra possibilità di incontrare Rico, in questi giorni, in un altro libro, da poco uscito presso Einaudi, il bellissimo romanzo di Javier Marias, Gli innamoramenti: qui è Marías dà voce in prima persona ad un personaggio femminile, che si imbatte in Francisco Rico (proprio lui, col suo nome e cognome, con la sua sapienza, i suoi modi, il suo linguaggio di accademico atipico, poco formale), incontrandolo nel salotto di Luisa, vedova del personaggio intorno alla cui morte ruota la vicenda. E l’autore, tra l’inquieto interrogare su cui si sviluppa il romanzo, si diverte maliziosamente a dare una caricatura del grande studioso, della sua esclusiva passione per la letteratura del siglo de oro, della sua scarsa attenzione a tutto ciò che fuoriesce dal proprio universo.
Conosco di persona Rico, ben noto nel mondo universitario italiano, e non mi so decidere se la caricatura di Marías sia malevola o benevola: sono certo però che Gli innamoramenti sia un formidabile romanzo, uno di quelli che ancora stanno, così «da dopo» sulla scia di quel grande inizio che è Don Chisciotte, che sanno interrogare la contraddittorietà dell’esperienza nei termini del nostro presente; e forse proprio per questo non lo troviamo nelle classifiche, in mezzo a tanta narrativa vuota, trascritta da modelli di vita già fissati dall’apparenza mediatica.
Rispetto a questo orizzonte attuale, ci sarebbe qualche vantaggio ad avvicinarsi ancora e di più al Don Chisciotte: e davvero quella di Rico, a tutt’oggi la sola edizione italiana veramente completa, meriterebbe di sostare in permanenza su tanti tavoli, anche solo per occasioni casuali di lettura o rilettura di qualche capitolo (e non farà male, anche per il lettore poco esperto di spagnolo, qualche sguardo all’originale).

Per approfondire: RaiTre Fahrehneit (interventi del traduttore, Angelo Valastro Canale, professore all'Università pontificia Comillas di Madrid, di Antonio Moresco,  che ha scritto con Alessandro Sanna Don Chisciotte e la risoluta voluttà del sogno ed. Tre Lune e Guido Davico Bonino, curatore di: Fu vera gloria? Eroi ed eroismi. da don Chisciotte a Capitan America, ed. SEI).

Don Chisciotte: iconografia dell'opera.. "The archive provides free access to rare visual resources, restores the traditional connection between word and image, and facilitates a better appreciation and understanding of the impact of Cervantes’ masterpiece through 400 years, from several perspectives: textual, critical, artistic, bibliographical, and historical."


mercoledì 30 gennaio 2013

I libri d’oro di Timbuctù


Dietro la distruzione della cultura si cela l’odio di al Qaeda per l'Occidente

Roberto Tottoli

"Corriere della Sera", 29 gennaio 2013

Gli islamisti alleati di al-Qaeda hanno distrutto la Biblioteca Ahmad Baba di Timbuctu. I due palazzi che servivano alla custodia dei manoscritti sarebbero stati bruciati nel corso dell'avanzata dell'esercito francese e maliano. La notizia, diffusa dal sindaco Halle Ousmane, attende conferma nelle dimensioni e nei danni arrecati.
Con i suoi ventimila manoscritti soprattutto arabi, risalenti fino al XII secolo, la Ahmad Baba era l'istituzione più significativa di Timbuctu, capitale di un patrimonio unico di collezioni sud-sahariane, da tempo a rischio di distruzione. Finanziamenti da tutto il mondo, anche da altri Paesi islamici come l'Arabia Saudita, e missioni di ricerca europee e americane da anni cercano di organizzare progetti di recupero. L'ultimo e più importante, in ordine di tempo, era quello dell'Università di Città del Capo, che annovera al suo interno anche alcuni ricercatori italiani e aveva da poco iniziato una sistematica digitalizzazione dei documenti.
Dopo l'occupazione islamista di Timbuctu, proprio Ansar al-Din, il gruppo radicale del nord del Mali, utilizzava il centro Ahmad Baba come propria base logistica. La decisione di dar fuoco rimanda tristemente alla distruzione dei Budda di Bamiyan da parte dei Talebani, ma solo in parte ne riflette la stessa logica. Là fu l'opposizione alla raffigurazione umana e la difesa inflessibile di un principio che in realtà le comunità islamiche non avevano rigidamente imposto. E anche questo si è visto in Mali: la distruzione delle tombe per preservare l'unicità del culto al solo Dio. Tuttavia in questo caso, come nel rogo dei manoscritti, vi è qualcosa di più: il desiderio di colpire un patrimonio culturale difeso dall'Unesco e da altri organismi «stranieri», visti come corpi estranei e da allontanare con ogni mezzo. Nessuna prescrizione religiosa consentirebbe di distruggere codici coranici o la memoria di autori e uomini di lettere. Ma bruciare manoscritti equivale purtroppo a distruggere tombe, quando l'occhio del mondo occidentale, ma non solo, riserva loro un'attenzione particolare.






La distruzione di questo patrimonio è un attacco contro l’identità di tutta l’umanità 

Tahar Ben Jelloun

"La Repubblica", 29 gennaio 2013

TIMBUCTÙ è soprannominata "la Perla del Deserto", non perché splende sotto il sole, ma perché conserva un tesoro: migliaia di manoscritti in arabo, in peul e in altre lingue, testi di teologia, storia, geografia, botanica, astronomia, musica, poesia ecc. Migliaia di pagine scritte a mano, conservate in quella biblioteca che i barbari hanno appena dato alle fiamme. Le giudicavano "empie", dimenticandosi che l´età d´oro dell´Islam è stata coronata dall´esistenza di tesori culturali del genere che fanno parte del patrimonio dell´umanità. Fra questi libri ci sono dei diari intimi, scritti clandestinamente in un´epoca dov´era impossibile dire certe cose. Si dice che vi fosse un diario tenuto da una donna sposata a 15 anni a un vecchio impotente di 75, dove la ragazza raccontava il suo calvario. Altri libri fornivano la genealogia di certe famiglie, alcune di origini ebraiche che volevano tenerlo nascosto. Ma ora tutto, o quasi tutto, è stato inghiottito dalle fiamme, disperso nelle ceneri.
Da quando questi criminali, trafficanti di droga e corpi umani, si sono impadroniti di Timbuctù, non hanno fatto altro che distruggere. La distruzione è stata la loro unica parola d´ordine: distruggere e seminare il terrore. Più della metà dei 16 mausolei della città sono stati ridotti in polvere, senza parlare delle sepolture e delle tombe di santi musulmani. La distruzione di questo patrimonio è un attacco contro l´identità e la civiltà non solo dell´Africa e del mondo arabo, ma di tutta l´umanità.
Fondata nell´undicesimo secolo dalle tribù tuareg, Timbuctù era diventata la città della memoria della cultura arabo-africana. E ora dei bruti ignoranti hanno devastato ogni cosa, perché la dottrina del wahhabismo (dal nome di tale Mohamed Abd el-Wahhab, teologo saudita del XVIII secolo) dichiara empi i mausolei, i santi e la pratica mistica. L´Islam di cui si parla in quella biblioteca è un Islam della spiritualità. Dopo la morte del profeta Maometto, si contrapposero due correnti che avevano opinioni diverse su come andasse interpretato e praticato l´Islam. La prima è la dottrina "letteralista", vale a dire quella che afferma che il Corano va preso alla lettera, senza interpretazioni, senza simbolismi: quando nel Corano si parla della "mano di Dio", i letteralisti sostengono che si tratta di una mano fisica. La seconda corrente è quella dei kharigiti che interpretano il Corano con i suoi simboli e le sue immagini e attribuiscono al testo una dimensione più ampia e più profonda.
Sfortunatamente è stata la corrente letteralista, semplicistica e senza prospettive ad avere avuto la meglio. Oggi i salafiti si richiamano a quella corrente e vogliono il ritorno a un Islam immutabile, che pratichi una sharia senza giustizia e senza logica. Questa corrente è incoraggiata da Paesi che hanno adottato il wahhabismo, come l´Arabia Saudita.
Partendo dal fatto che nell´Islam non esistono né gerarchie né intermediari fra Dio e il credente, il wahhabismo ha dichiarato blasfemi i santi e i mausolei eretti in loro memoria. È per questo che nel 1991, quando vennero privati della loro vittoria elettorale, gli islamisti algerini del Fronte islamico di salvezza sono partiti in guerra contro lo Stato e contro la tolleranza diffusa nel Paese verso i santi: è in Algeria che sono stati distrutti i primi mausolei. Anni dopo, nel marzo del 2001, i Taliban hanno fatto saltare in aria le gigantesche statue del Buddha, nella parte nordoccidentale della valle di Bamiyan, in Afghanistan, statue che si trovavano là da tredici secoli. E ora l´incendio appiccato alla biblioteca dei manoscritti di Timbuctù.
Questa barbarie che non risparmia né gli uomini né il patrimonio culturale si diffonde nel mondo. Oggi l´esercito francese è riuscito a entrare a Timbuctù. I barbari sono fuggiti, ma prima hanno avuto il tempo di dare alle fiamme un tesoro dell´umanità. E hanno dato alle fiamme anche l´Istituto Ahmed Baba, creato recentemente dai sudafricani. Hanno approfittato della loro sconfitta per distruggere case, picchiare a sangue gli abitanti della città che uscivano in strada per manifestare la loro gioia e il sollievo nel veder arrivare le truppe francesi. Così i criminali del Nord del Mali hanno firmato la loro sconfitta, con il diluvio e l´annientamento dello spirito dell´Islam, della sua spiritualità, della sua poesia, della sua bellezza. Di tutto questo a Timbuctù rimangono solo ceneri e famiglie terrorizzate dal regno dei barbari.
(Traduzione di Fabio Galimberti)


I francesi a Timbuctù. In fiamme la biblioteca


Roberto Arduini

"L’Unità",  29 gennaio 2013

Era già successo l’anno scorso, quando gli islamisti entrati a Timbuctù avevano devastato i suoi monumenti e la sua storia. La millenaria città sahariana, antico crocevia di commerci e di culture, mitizzata dagli europei e venerata come santa dai mussulmani è si nuovo sfregiata. Nella «città dei 333 santi» gli estremisti islamici hanno dato alle fiamme un edificio che conteneva antichi e preziosi manoscritti prima di fuggire all’arrivo delle truppe francesi e maliane. «Un vero crimine culturale è accaduto 4 giorni fa», ha denunciato il sindaco della città, Ousmane Halle, esprimendo la sua preoccupazione che molti libri e documenti antichi possano essere andati distrutti. Il sindaco ha riferito di aver ricevuto la notizia dal suo responsabile comunicazioni, fuggito nel sud del Paese un giorno fa. Ousmane non è stato in grado di quantificare l’entità del danno, ma «è davvero allarmante. È la storia di Timbuctù e della sua gente». Riconquistata ieri, Timbuctù era da nove mesi sotto il controllo degli estremisti.
LA PERLA DEL DESERTO
L’oro arrivava dal sud, il sale dal nord e la conoscenza da Timbuctù, recita un antico proverbio africano. La città si è ben meritata il titolo di «Perla del deserto»: a partire dal XIV secolo, divenne un importante centro di commercio, mettendo in comunicazione Mediterraneo e Medio Oriente con l’Africa sub sahariana. Aveva una popolazione di oltre 100mila abitanti, di cui 2500 studenti riuniti attorno alla moschea di Sankoré e alle altre 180 tra moschee, università, biblioteche e scuole coraniche. A Timbuctù, dove secondo la leggenda sarebbero sepolti 333 santi mussulmani, oggi si conservano quasi 100mila manoscritti conservati per secoli. «I ribelli hanno appiccato il fuoco all’istituto Ahmed Baba appena costruito», ha raccontato Ousmane. Il centro è intitolato al grande studioso locale del XVI secolo che scrisse, secondo le cronache, circa 700 libri e possedeva una biblioteca personale di 1600 volumi (che per sua stessa ammissione non era la più grande della città). Ospita 18mila manoscritti antichi, alcuni risalenti addirittura al 1200, fu fondato nel 1970 e dal 2009 era ospitato nella nuova sede di 4.800 metri quadrati. La maggior parte dei manoscritti, in arabo e in lingue africane, trattano di medicina, astronomia, diritto, storia, geografia, poesia e letteratura, molti dell’era preislamica, oltre ad alcune opere di Avicenna. La maggior pare dei volumi ha un valore inestimabile. Solo pochi erano stati digitalizzati, dunque si teme che la maggior parte di essi sia andata persa per sempre. In tutta la città sono anche innumerevoli le raccolte private antichissime, da sempre conservate dagli abitanti, alcune in grotte sotterranee.
Quella degli estremisti sarebbe una vendetta, l’ennesimo pesante colpo all’eredità culturale di una città inserita dall’Unesco nel patrimonio dell’Umanità e già sfregiata, a giugno, dalla distruzione di mausolei, santuari e tombe dei teologi sufi, quei «333 santi» venerati dagli abitanti. Per questi fondamentalisti votati a un’interpretazione falsamente ortodossa del Corano, l’Islam di Timbuctù è troppo tollerante e non è autentico. I fondamentalisti di Aqmi (Al Qaeda nel Maghreb Islamico), formazione legata ai tuareg di Ansar Dine (contro l’Occidente), hanno spiegato che le tombe sono state distrutte perché incoraggiavano i mussulmani a venerare dei santi anziché Dio.
Le truppe locali e francesi sono entrate a Timbuctù, dopo aver preso il controllo la notte scorsa dell’aeroporto e delle strade che portano nella città. Il colonnello Thierry Burkhard ha spiegato che paracadutisti ed elicotteri francesi hanno sostenuto nella notte le forze di terra che avanzavano dal sud. Burkhard ha precisato che la conquista è avvenuta senza sparare un solo colpo. L’operazione militare arriva due giorni dopo la presa di Gao, l’altro bastione fondamentale degli islamici. «Poco a poco, il Mali viene liberato», ha spiegato il ministro degli Esteri francesi, Laurent Fabius. Anche secondo Hollande «stiamo vincendo la battaglia», ma ora «spetta agli africani permettere al Paese di ritrovare la propria integrità».


«Una catastrofe Distrutti per sempre tesori simbolo dei maestri dell’islam»

Domande a Malek Chebel filosofo 

"La Stampa", 29 gennaio 2013

«Una catastrofe e un delitto. Come se a Parigi qualcuno bruciasse la Bibliothèque nationale». Il celebre antropologo franco-algerino Malek Chebel, teorico dell’«Islam des Lumières», è sconvolto dal rogo di libri perpetrato dagli jihadisti al centro Ahmed Baba di Timbuctù.
Professor Chebel, lo conosceva?
«Certo, l’ho visitato e anzi conservo dalla mia visita in Mali un bellissimo Corano antico. Ahmed Baba fu uno dei maestri dell’Islam africano e Timbuctù è stata, dal XVI secolo almeno fino alla colonizzazione francese, tre secoli dopo, un grande centro culturale: una città strategica, tappa fondamentale per le carovane del Sahara, punto di partenza per il pellegrinaggio alla Mecca».
Le fonti parlano di un patrimonio di 60-100 mila manoscritti.
«Questo è eccessivo. Le “biblioteche del deserto”, uso il plurale perché ne esistono anche altre, in Mauritania, in Niger e in tutta la regione, sono molto più piccole. Toglierei uno zero. È molto difficile farsi un’idea dei danni perché non c’è quasi mai un catalogo scritto dei tesori che ospitano. Questo non toglie che siano generalmente molto rilevanti, con manoscritti antichi spesso conservati in maniera un po’ precaria. Insomma, credo che non si saprà mai con esattezza cosa è andato perduto per sempre».
Ma perché gli islamisti se la prendono con i libri?
«Vi prego, non chiamateli islamisti. Si richiamano all’Islam, ma sono solo degli analfabeti religiosi. La realtà è che odiano queste testimonianze perché l’Islam della regione, una regione di commerci e di carovane, è sempre stato un Islam di scambi, libero, tollerante. Esattamente il contrario del loro. È la stessa ragione per cui avevano distrutto i mausolei del Mali che non erano solo tombe, ma luoghi d’incontro, simbolo di un Islam pacifico e pacificato, non dottrinario e al servizio del viaggiatore».
È la guerra di due Islam?
«No, perché un vero musulmano per definizione deve rispettare il creato, dunque anche la scienza, la cultura, il sapere, tutto il sapere, quindi in una parola l’Uomo. Non parlerei di due Islam, perché questi guerriglieri ignoranti non rappresentano affatto l’Islam. Parlerei dell’ennesimo, tragico episodio della lunga guerra dell’ignoranza contro i Lumi».


martedì 29 gennaio 2013

Complimenti per gli errori


Angela Vettese 


"Il Sole 24 Ore", 27 gennaio 2013

Errare è umano, ma non sempre occorre chiedere scusa. A volte basta aspettare che il tempo passi e che ci dia ragione. Questa è la tesi di Clement Chéroux nel libro, ripresentato da Einaudi, L’errore fotografico. Una breve storia.

Ovviamente l'autore, conservatore del fondo fotografico del Centre Pompidou, sa che l'esempio in un campo così ristretto si presta a diventare metafora per ben altro: senza scomodare la filosofia scettica, il primo momento cui il beneficio del dubbio si è palesato come motore del nuovo ci ricorda l'importanza del tema per la forma mentis del Novecento: Samuel Beckett ha dedicato al successo che deriva dal fallimento un libro intero; i maestri surrealisti André Breton e Paul Eluard avrebbero voluto scrivere un libro intitolato "I cavalieri dell'errore"; Francis Picabia sosteneva addirittura che «l'arte è il culto dell'errore»; Jorge Luis Borges avrebbe voluto che i suoi libri conservassero tutti gli errori di battitura della dattilografa, come un segno di apertura a un altro senso o al nonsenso.
Dietro a questa accettazione dello sbaglio c'era la convinzione che esso avrebbe portato molto anche alla scienza: sul piano della persona, Sigmund Freud aveva fondato sulla disamina dei nostri svarioni un'evidenza dei nostri veri desideri, dei quali i lapsus, le mancanze e le gaffe sarebbero elementi rivelatori; sul piano del sapere condiviso Gaston Bachelard, nel suo libro dedicato a La formazione dello spirito scientifico, sostenne che è l'ombra gettata su quello che già sappiamo, l'ostacolo, la macchia, a spingerci verso l'individuazione e la soluzione dei problemi. 
Già nel 1754, del resto, Horace Walpole aveva portato nella terminologia della scienza il mito arabo dell'isola di Serendippo, quel paradiso in cui tutti i contrattempi finiscono per diventare vantaggiosi. Usò infatti la parola serendipità per descrivere la situazione per cui si scopre qualcosa mentre se ne cercava un'altra, magari meno rilevante. E sappiamo che buona parte della rivoluzione scientifica è stata basata sul sistema del Trial and Error. In generale, evolvere il sapere implica un tradimento del canone che non è facile affrontare da soli. Non si nega volentieri ciò che si è sudato per imparare e interiorizzare. A volte quindi una svista – ma anche la nostra capacità di guardarla meglio e di non scartarla – rappresenta l'aiuto di cui si ha bisogno. 
Nel 1913, il fotografo Jacques-Henri Lartigue fotografò un'automobile al Gran Prix e la stampa risultò storta e alterata. Lui se ne disperò, ma già nel 1924 Man Ray cercò volontariamente lo stesso effetto a Cannes, perché quel genere d'imperfezione dava la sensazione della velocità. Uno degli sbagli stigmatizzati dai manuali per fotoamatori è sempre stata la presenza della sagoma di chi fotografa al centro della scena. Ma, comprendendo il fascino fantasmatico di quel grigio, già nel 1927 André Kertész scattò un autoritratto di profilo proprio con questo sistema.


In maniera piuttosto sistematica, sia Man Ray sia Lazlo Moholy-Nagy sondarono tutti gli errori tipici del linguaggio fotografico per inventarne una nuova grammatica. Dopo avere raggiunto una buona efficienza tecnica delle macchine, si poteva provare l'effetto di una volontaria disobbedienza al loro buon utilizzo. Ne nacquero immagini sfuocate; scatti sovrapposti sul medesimo fotogramma; immagini sovraesposte o sottoesposte alla luce; bordi bruciati da processi di solarizzazione; cattivi risultati ottenuti con teleobiettivi e grandangoli; figure mosse; carta fotosensibile impressionata dalla luce ma senza la mediazione dell'obiettivo, in modo da rendere visibili le sagome degli oggetti posati sul foglio; e così via. 
La lezione fu imparata dai migliori e usata in modo consapevole e a volte commovente: Chéroux cita l'esempio delle Verifiche di Ugo Mulas, senza però ricordare la più impressionante di quelle immagini. In un autoritratto con la moglie, lui si ritrae in modo sfumato mentre lei, alla stessa distanza dalla macchina fotografica, risulta perfettamente a fuoco: un modo per raccontare tante cose, tra cui la propria malattia, la volontà di insegnare un mestiere alla madre delle sue figlie e la capacità di esprimere attraverso un dispositivo tecnico l'impatto emotivo della morte. 

Molta della fotografia che attraversa i canali del reportage – a cui è sempre stata consentita una più vasta licenza di errare –, così come quelli più estetizzanti della pubblicità e della moda, ha scelto lo sbaglio come un vezzo e lo ha incluso nel gusto corrente. La foto diurna scattata con il flash rende più pallida e bella la modella, quella che distorce il cibo o che modifica i suoi colori rende il piatto più esotico e goloso, il filmato che balla o in un bianco-nero bruciato sa di altri tempi. 
Un artista come Wolfgang Tillmans, che conosce anche i canali commerciali, usa il caso e la distorsione come metodo. 

Un fotografo preciso come Thomas Ruff, che ha incominciato usando il banco ottico, ora prende le immagini da internet per farne emergere la mancanza di risoluzione e con essa una selva di pixel. In era digitale, molti video sono composti sull'errore di caricamento, di completezza, di montaggio, come quando sullo schermo del computer, invece di una figura, appare il codice numerico che la determina. I nuovi errori ci stanno raccontando che le immagini viaggiano e che il teletrasporto può dare o togliere loro una parte della prima identità. 

Morale: non buttare via niente delle cose che sembrano malfatte. A volte si incappa in ipotesi inverosimili, come nel caso delle foto spiritiche che alimentarono la fama di alcuni medium e che, invece, erano trucchi o sbagli inutili. Ma a volte invece s'impara a sbagliare meglio e di più.

Clement Chéroux, L'errore fotografico. Una breve storia, Einaudi, Torino, pagg. 146

Le torri storte
Dice un proverbio: «Gli errori dei medici finiscono sotto terra, quelli degli architetti sotto gli occhi di tutti». Piuttosto vero. Volete un caso eclatante e noto in tutto il mondo? La Torre pendente di Pisa. Il celebre campanile di Piazza dei Miracoli, alto circa 56 metri e costruito tra il XII e il XIV secolo è pesante 14mila tonnellate. La sua pendenza verso sud è dovuta a un cedimento del terreno verificatosi già nelle prime fasi della costruzione, in quanto nessuno dei costruttori iniziali fu in grado di calcolare bene il peso che la superficie sottostante avrebbe potuto sopportare.
Nei secoli la Torre ha continuato inesorabilmente a inclinarsi, provocando spaventi e allarmi ricorrenti, e conseguenti corse alla ricerca di rimedi efficaci per la sua salvezza. Ma, ahinoi, molto spesso i rimedi escogitati non hanno fatto altro che peggiorare la situazione, al punto che possiamo tranquillamente affermare che se la Torre di Pisa è così pericolosamente storta la colpa andrà equamente ripartita tra gli architetti che la elevarono nel Medioevo e gli ingegneri che – dall'Ottocento a oggi – hanno tentato, spesso maldestramente, di raddrizzarla.
i pasticci di Bernini
Recenti studi hanno portato a galla un dato piuttosto clamoroso: ci si è accorti che il grande Gian Lorenzo Bernini, lavorando alle statue, poteva commettere errori clamorosi. Ad esempio, le sculture gli si rompevano tra le mani, come accadde col busto di Scipione Borghese il quale improvvisamente si spaccò all'altezza della calotta cranica. Raccontano le fonti che in quel caso Gian Lorenzo non fece una piega, prese un nuovo pezzo di marmo e realizzò una replica esatta del busto, cosicché oggi la Galleria Borghese ha il privilegio di possederli entrambi, uno intatto e l'altro fallato. Nel realizzare la seconda versione Bernini si dimostrò recidivo: usò lo stesso blocco di marmo e una nuova crepa si aprì sulla mantellina del porporato. Che cosa era successo? Semplice, mentre Michelangelo riserva alla scelta dei marmi una cura quasi maniacale, recandosi direttamente a Carrara per scegliere blocchi perfetti e abbandonando senza indugio opere già principiate se nel corso del lavoro rivelavano improvvise impurità, al contrario Bernini non badava mai alla qualità del marmo e scolpiva ciò che gli veniva tra le mani senza troppi controlli.

Elogio delle chiese silenziose e vuote


Pietro Citati

"Corriere della Sera", 28 gennaio 2013 

Qualche tempo fa — il giorno di Santo Stefano — sono andato in una chiesa del mio quartiere. Tutte le porte erano chiuse a chiave o con robusti catenacci. La chiesa era impraticabile, come certe chiese protestanti olandesi, che aprono un'ora al giorno o meno, solo durante le striminzite funzioni che il pastore accorda ai suoi fedeli. È così bello entrare nelle chiese vuote, dove non soffia nemmeno un respiro umano; e sedersi su un banco o una seggiola, pensando, ricordando, fantasticando, rimuginando. La mente sembra più libera, più vasta, più oggettiva, più sicura di sé; e vaga dovunque attraverso i cieli oppure si concentra in un punto fisso del cielo. Vive di pura contemplazione, nello spazio pieno di silenzio e di echi. Essere soli nella chiesa vuota dà all'anima una quiete e una profondità, che altrimenti non conosce. La fede solitaria, da solo a solo con il Figlio o il Padre: non c'è nulla di così intimamente cristiano. Tutto il resto del mondo è dimenticato. Non ci sono più i sentimenti, le passioni, la coscienza dell'io, l'orgoglio, il desiderio di potere, il desiderio di scrivere.
L'Islam conosce un'altra esperienza dello spazio religioso. Quando si entra in una moschea egiziana o persiana, centinaia di persone stanno sedute a terra, su un tappeto o con le spalle contro il muro. Qualche volta parlano con Dio: più spesso parlano, chiacchierano, cinguettano tra loro. Tanti sono gli argomenti possibili: gli amori, gli odi, la politica, gli affari del giorno o della settimana. Si compra, si vende. Qualche ragazzo studia, a mezza voce, su un libro di testo gualcito. Un europeo ha l'impressione che nella moschea piena una sola figura manchi: quella di Dio. Non è vero. Sotto la cupola della moschea, Dio esiste, ma confuso con tutti gli esseri umani, con tutta l'immensa e colorata realtà, della quale è Signore unico e nella quale sembra perdersi.
Se le nostre chiese sono vuote, la ragione è semplice e tutti la conosciamo. Come deplora il Pontefice, il cristianesimo, almeno in apparenza, è stanco: i cristiani, che frequentano le chiese occidentali, diminuiscono ogni giorno. La nostra religione si sta dunque estinguendo? Non lo credo affatto. In questi ultimi sessant'anni, il cristianesimo ha perduto i fedeli che veneravano il Cristo perché così volevano il potere e la società: dunque, mai o quasi mai per un impulso religioso. Ora, dopo tante perdite, sono rimasti i cristiani puri: quelli che siedono o pregano nelle chiese vuote, che leggono i Vangeli e le migliaia di libri, che la fede e la tradizione hanno ispirato durante quasi venti secoli. Labbra silenziose discorrono con il loro nascosto ispiratore. C'è una prova. Oggi, quando il loro numero è diminuito, i cristiani dell'Occidente leggono molti più libri di ispirazione cristiana o religiosa, di quanti non ne leggevano sessant'anni prima. Ci sono moltissime case editrici: innumerevoli edizioni di testi e di commenti. La tradizione viene esplorata, ripensata, confrontata con la vita e il pensiero del nostro presente.
Ho sempre pensato che i cristiani fossero destinati a essere pochi: una religione di minoranze esclusive e difficili. Sono stati così anche alle origini, lungo il lago di Galilea o in Giudea o nella Siria, quando i Vangeli raccontano che solo i demòni sapevano che il Gesù era figlio di Dio, o sempre, durante la storia, quando gruppi di minoranze coltivavano una fede complessa e ardente, mentre attorno a loro decine o centinaia di milioni di apparenti cristiani praticavano una fede ignara e indifferente, sebbene clamorosa. C'è un grande pericolo, lo so, nelle religioni di pochi: la presunzione, l'arroganza, lo snobismo. Ma, se i pochi pregano e leggono e cercano di capire e capiscono, questo pericolo è dimenticato.
***
Così i cristiani leggono e debbono leggere i Vangeli. È una lettura ardua, che incontra difficoltà di molte specie. In primo luogo, il testo dei Vangeli è un fittissimo intrico di citazioni dall'Antico Testamento: bisogna comprendere come Gesù abbia trasformato una massima di Mosè o di Isaia o dei Salmi. In secondo luogo, è impossibile afferrare le parole di Gesù, se non conosciamo la complicata religione del medio o del tardo giudaismo. Quando leggiamo i Vangeli urtiamo contro molte espressioni simboliche, dove il contenuto e la forma del messaggio sembrano o sono in violento contrasto l'uno con l'altro. Infine, proprio nei momenti culminanti, ci sono superbi apoftegmi o massime paradossali che in apparenza offendono la fantasia e l'intelligenza dei fedeli. Spesso le parole di Gesù, specie se le paragoniamo tra loro, sono avvolte da un fitto alone di mistero. 
Dobbiamo essere presi per mano, così da comprendere tutto ciò che è difficile o ambiguo. Abbiamo bisogno di eccellenti commenti: di natura sopratutto teologica. Così mi è caro ricordare i volumi del Commentario teologico del Nuovo Testamento, pubblicato da Paideia, una delle migliori case editrici italiane, certo la migliore in ambito religioso: volumi con il testo greco di ogni vangelo, traduzioni, commenti di millecinquecento o duemila pagine, che affrontano con sottigliezza e coraggio i segreti sui quali è fondata la civiltà occidentale. Il Vangelo di Matteo a cura di Joachim Gnilka, in due volumi: Il Vangelo di Marco, a cura di Rudolf Pesch, in due volumi: Il Vangelo di Giovanni, a cura di Rudolf Schnackenburg, in quattro volumi.
Il Vangelo di Luca è stato pubblicato in due volumi a cura di Heinz Schürmann. Ma il commento si interruppe, per la morte dell'autore, all'undecimo capitolo di Luca; ed è stato sostituito da quello di François Bovon, del quale sta per uscire il terzo volume, completando il grande Commentario teologico. Sono tutti, sempre o quasi sempre, testi buonissimi, che rispondono chiaramente ad ognuna delle nostre domande.
Non posso dimenticare un'opera fondamentale: il Grande lessico del Nuovo Testamento, a cura di Gerhard Kittel e Gerhard Friedrich, in quindici immensi volumi, sempre pubblicati da Paideia. È una lettura che consiglio a tutti i lettori posseduti dalla pura passione di conoscere. Ogni voce del Lessico studia il significato della parola nel greco classico: nel greco ellenistico: nei termini equivalenti dell'Antico Testamento, nel giudaismo ellenistico e rabbinico, nei testi apocalittici, di Qumran e della gnosi; e infine nelle Lettere di San Paolo e nell'Apocalisse.
Leggendo ognuna delle grandi voci, civiltà diverse e opposte vengono alla luce: conosciamo cosa significassero fede, alleanza, grazia, peccato, sangue, anima, conversione, per uomini che vedevano il mondo in modo profondamente dissimile. Conosciamo cosa pensava un greco del Quinto secolo, un ebreo provvisto di cultura greca e un allievo di san Paolo. Tutto è contrasto, opposizione, rovesciamento — salvo improvvise coincidenze.

Marc Augé: “Curiosi e attivi senza l’angoscia del futuro”


Contro la paura
In un nuovo libro l’antropologo francese analizza le inquietudini planetarie
E indica alcune strade per fronteggiarle

Fabio Gambaro

"La Repubblica", 28 gennaio 2013

La realtà in cui viviamo è spesso ridotta a una «matassa indistinta e confusa di paure». Una matassa che rischia di paralizzarci e impedirci di vivere, ma che Marc Augé prova pazientemente a dipanare nel suo nuovo libro, Les Nouvelles Peurs (Payot, pagg. 92). Per l’antropologo francese, che da anni si concentra sull’analisi delle trasformazioni e delle contraddizioni del mondo contemporaneo, le paure economiche e le discriminazioni sociali, le violenze politiche e le derive tecnologiche, i cataclismi naturali e le minacce criminali finiscono spesso per sovrapporsi e confondersi, amplificandosi a vicenda, producendo panico e angoscia negli individui.
«Naturalmente tutte queste paure non sono direttamente collegate le une alle altre, ma nella vita quotidiana spesso ci appaiono proprio così», spiega l’autore di Un etnologo nel metrò, Non luoghi e Che fine ha fatto il futuro?
«I media evocano senza soluzione di continuità il rischio di un cataclisma, un attentato terroristico, l’aumento della disoccupazione e la strage inspiegabile di un pazzo. Sono realtà indipendenti, che però tutte assieme in un telegiornale fanno massa. La giustapposizione crea un effetto di contaminazione che le amplifica e le semplifica al contempo, dando luogo a un’unica paura globale, diffusa e indistinta. Di conseguenza, quando ne evochiamo una, di fatto è come se evocassimo tutte le altre. Il che è indubbiamente un elemento di novità».
Nel passato le paure erano più isolate, definibili e locali?
«Probabilmente sì. Nei secoli scorsi non sono mancate le grandi paure, che però erano spesso legate a fattori e contesti ben precisi. Oppure erano paure molto più universali, come ad esempio la paura della morte. In passato inoltre non si sapeva nulla di ciò che accadeva lontano da noi, mentre oggi sappiamo tutto quello che accade in ogni angolo del pianeta. Se un pazzo uccide dei bambini in una scuola americana, ne siamo immediatamente informati come se fosse accaduto sotto casa nostra. Di conseguenza, temiamo per i nostri figli. Insomma, tutto quello che accade lontano ci riguarda e ci terrorizza come se fosse vicino. Il sistema dell’informazione crea una forma di paura nuova, più sfuggente e più astratta. Quindi più difficile da combattere. Tuttavia, il fatto che sia più astratta non significa che non abbia effetti concreti, producendo negli individui un terrore paralizzante. Come accade per le nuove inquietudini planetarie, che sono la dimensione oscura e minacciosa della globalizzazione. Dominate dall’idea che ciò che riguarda gli uni finisce prima o poi per coinvolgere tutti gli altri, le catastrofi nucleari, le epidemie, ma anche il terrorismo o le minacce del sistema finanziario assumono contorni quasi apocalittici».
Questa matassa di paure eterogenee è lo sfondo permanente delle nostre vite?
«In un certo senso sì. La paura è ridiscesa in terra e contemporaneamente si è generalizzata. Un segnale di questo timore diffuso è il successo di un libro come Indignatevi! di Stéphane Hessel. L’indignazione, infatti, è la forma sublime della paura. In questo caso, le parole di un vecchio saggio — una figura abbastanza tradizionale e quindi rassicurante — riescono a dare un contenuto preciso in termini socio-politici alle paure indistinte di un gran numero di persone. E’ per questo che il libro ha tanto successo. La nostalgia per certi valori del passato che prende forma nelle pagine di Hessel viene interpretata come un grido di rivolta nei confronti del presente. In fondo, se nei secoli scorsi si aveva innanzitutto paura della morte, oggi si ha soprattutto paura della vita».
Perché?
«Gli allarmi economici, ecologici e sanitari, ma anche la violenza o il terrorismo sono qui e adesso. Generano un’angoscia quotidiana e immediata che occupa tutto il nostro orizzonte, impedendoci di proiettarci più in là. Nell’epoca classica, proprio perché gli uomini avevano paura della morte, stoicismo e epicureismo provavano ad elaborare riflessioni in grado di consolarci. Oggi queste forme di consolazione filosofica non funzionano più. Molte delle paure che ci attanagliano non sono nuove in sé, è nuovo però il loro modo di fare sistema e la loro percezione. Nel passato, dato che le paure erano percepite come locali e concrete, si aveva l’impressione di poter fare qualcosa per prevenirle. Oggi invece, più le paure diventano un groviglio inestricabile, più si ha l’impressione che sia impossibile intervenire sulle problematiche che le alimentano. La sensazione d’impotenza è uno degli elementi costitutivi delle nuove paure».
Ciò vale ad esempio per la percezione della crisi economica. È così?
«In effetti, di fronte alla crisi economica ci sembra che non ci siano soluzioni efficaci. La crisi è percepita come ineluttabile e inarrestabile. Da qui le paure della disoccupazione, del declassamento sociale e della povertà, che peraltro vanno di pari passo con il terrore di un sistema che sembra avanzare in maniera inerziale e fuori da qualsiasi controllo. In fondo, si teme l’incompetenza e l’inconsistenza di coloro che dovrebbero governare il sistema. E naturalmente tutto ciò implica un certo fatalismo che produce battaglie solo difensive. Una volta si sognava di abbattere il sistema, oggi si spera solo che non crolli definitivamente per non esserne le vittime».
Ci sono poi le paure prodotte dalla scienza e dalla tecnologia…
«Tradizionalmente le paure nascono dall’ignoranza. A volte però anche la conoscenza può angosciarci, come accade talvolta con l’innovazione tecnico-scientifica. Diverse scoperte della scienza ci fanno paura, dal nucleare alla clonazione. Oggi, nonostante l’entusiasmo per le nuove tecnologie, l’avvenire ci sembra prefigurare un mondo d’incognite. Motivo per cui preferiamo non proiettarci troppo in un futuro percepito più come una minaccia che come una speranza. Questa scomparsa del domani come orizzonte operabile aumenta inevitabilmente l’ansia nel presente».
C’è un modo per sottrarsi a questo insieme di paure?
«Più che le minacce concrete, siamo paralizzati dalla superstizione che queste siano presenti nella nostra vita tutte allo stesso tempo, mescolate e confuse. Bisognerebbe quindi essere capaci di districarne il groviglio, isolandole e analizzandole singolarmente. Solo così è possibile disinnescarle. Occorre quindi un atteggiamento attivo. La paura globale che sfugge al controllo della ragione sembra infatti agire maggiormente su coloro che si collocano in una posizione di passività nei confronti della realtà. Chi agisce e interviene ha sempre meno timore di chi subisce passivamente. In questo senso, l’educazione e l’istruzione possono aiutarci. La conoscenza può trasformare l’angoscia in curiosità, che, secondo me, è il primo passo per disfarsene. Senza dimenticare che, se è vero che la paura produce regressione, essa può anche diventare un fattore di progresso, dato che, una volta superata la paralisi, ci spinge a cercare soluzioni per andare avanti».
Ci si può abituare alla paura e convivere con essa?
«Ciò accade spesso, dato che il timore fa parte del nostro paesaggio quotidiano, modificando le nostre vite e i nostri comportamenti. La vita però deve continuare, quindi finiamo sempre per adattarci. E’ però una vita mutilata. Per questo credo che sia sempre meglio cercare di disfarsi delle paure, smontandone i meccanismi. Che poi è il motivo per cui ho scritto questo libro».

La follia di Goethe per Wittgenstein


Giorgio Montefoschi

"Corriere della Sera",  28 gennaio 2013

Sul suo letto di morte, a Weimar, Goethe delira e a nulla valgono le pezze fredde che il suo segretario Eckermann e altri fedeli gli pongono sulla fronte. Il suo unico desiderio, prima di morire, è quello di incontrarsi con Ludwig Wittgenstein, l'autore del Tractatus logico-philosophicus, apparso nel 1922, poiché pensa che Wittgenstein sia di gran lunga la persona più intelligente che esista, un uomo degno di venerazione, l'unico che in eccellenza abbia oltrepassato l'eccellenza delle sue opere, e insieme a lui vuole discutere sul fondamentale argomento che ha per titolo: il dubitabile e il non-dubitabile.
Saldamente consapevole, pur nel delirio, di aver scritto le cose più grandi della letteratura tedesca (e dunque di aver paralizzato, al cospetto della grandezza delle sue opere, la letteratura tedesca); di aver distrutto ogni suo incauto avversario o competitore a cominciare da quel poveraccio di Schiller; infine, di aver annientato e imbrogliato i tedeschi che continuano a non capire di essere stati imbrogliati, Goethe è agitatissimo: devono andargli a prendere Wittgenstein a Cambridge a ogni costo e portarglielo a Weimar, perché alla fine della sua vita vuole conoscere il suo figlio filosofico, il suo erede. E non gli importa nulla che Wittgenstein non sia ancora nato (nascerà una cinquantina d'anni più tardi), che è inverno e i suoi assistenti dovranno attraversare la Manica nelle bufere: Wittgenstein dovrà essere al suo capezzale perché — in quel mondo di mediocri e dementi — guardandolo negli occhi, lui possa riconoscere un'ultima volta il Genio, vale a dire se stesso.
Fin da quando era bambino, un uomo che adesso ha quarantadue anni è stato torturato dai suoi genitori. Loro — i suoi genitori — sono convinti dell'esatto contrario: il torturatore, colui che ha distrutto le loro vite rifiutando caparbiamente di fare qualunque cosa gli venisse proposta, di imboccare qualunque strada gli venisse aperta e spianata davanti, è il ragazzino che non doveva nascere forse, e adesso ha quarantadue anni.
Chi ha ragione? Hanno ragione i genitori esasperati che hanno offerto al figlio restio alla vita ogni occasione di vita, o il figlio restio alla vita che ha vissuto tutto quello che gli veniva proposto come una mostruosa sopraffazione, si è sentito cavar l'anima di dosso, e pian piano si è ammalato, irreversibilmente come dicono i medici, perché i suoi genitori, e anche gli altri famigliari, al suo cuore non hanno dato tregua? Non lo sappiamo. Ma questa famiglia infelice vive in una casa di campagna che è collegata con una torre nella quale sono conservati dei libri (che naturalmente il perseguitato-persecutore ha sempre avuto il divieto di leggere), simile al castello di Montaigne. Un giorno, in gran segreto, l'uomo di ormai quarantadue anni riesce a penetrare nella torre e alla cieca trae un libro da uno scaffale. E' un libro di Montaigne.
Due amici che non si vedevano da quando erano ragazzini si incontrano sotto la pioggia nella stazione di un anonimo paese austriaco. Quando erano ragazzini facevano, insieme ai loro genitori, delle gite in montagna che entrambi odiavano.
Le odiavano perché i loro genitori volevano la quiete; perché i loro genitori suonavano la cetra e la tromba, al rifugio; perché erano vestiti da montanari; perché il sole accecava gli occhi; perché i genitori non trovavano la quiete e incolpavano loro (i ragazzini) di distruggere ogni possibilità di raggiungere la quiete. Mai sono state odiate tanto le gite in montagna! Adesso, uno dei due ex-ragazzini che si incontrano alla stazione: quello che si è ribellato al carcere dei suoi genitori, racconta tutto ciò; e incolpa l'altro della sua mancata ribellione. L'altro sta zitto.
Un uomo in fuga scrive a un amico raccontando la sua fuga per l'Europa. Non si ferma da nessuna parte. Non gli piace nulla. Finalmente, a Rotterdam, fa un sogno. Sogna che l'Austria, con tutti i suoi abitanti, brucia in un immenso falò. Si sveglia e è felice.
Questi quattro incantevoli racconti di Thomas Bernhard, raccolti sotto il titolo Goethe muore (Adelphi, pp. 109) sembrano i quattro vetri di una lanterna girevole. Dentro la lanterna, c'è tutto il sarcasmo, tutto il dolore, tutta l'ironia di Bernhard. E c'è la sua meravigliosa prosa, che sempre amiamo intensamente.

Le recensioni:
Luigi Forte, "La Stampa"
Paolo Mauri, "La Repubblica"

La lettura:
Goethe “muore”Goethe “schtirbt”], di Thomas Bernhard; 
Goethe dighs (traduzione in lingua inglese).

La Germania e il tesoro di Hitler


Lo Spiegel: «Intatto il bottino dei gerarchi»

Gherardo Ugolini

"L'Unità",  28 gennaio 2013

«Abbiamo una responsabilità permanente per i crimini del nazionalsocialismo, per le vittime della seconda guerra mondiale e, anzitutto, per l’Olocausto. Affrontiamo la nostra storia senza occultare niente e senza respingere. Dobbiamo confrontarci con questo per assicurarci di essere in futuro un partner buono e degno di fede, come del resto per fortuna lo siamo già oggi». Le parole pronunciate da Angela Merkel in un messaggio pubblicato sul suo sito Internet condensano tutta l’intensità con cui la Germania ha vissuto la celebrazione della Giornata della Memoria. Tanto più che quest’anno la ricorrenza s’intreccia con un altro anniversario funesto della storia tedesca. Ottant’anni fa, precisamente il 30 gennaio del 1933, Adolf Hitler venne nominato cancelliere dal presidente della Repubblica Hindenburg, dopo aver ottenuto il 44% di consensi alle elezioni ed aver stretto un’alleanza con il Partito popolare nazionale tedesco, che di lì a poco sarebbe stato estromesso dal governo.
Quel giorno sancì per la Germania l’inizio della fine e per l’Europa il vero principio della seconda guerra mondiale. Tra mostre convegni dedicati alla ricostruzione delle circostanze storiche in cui maturò la «presa del potere» nazista, a suscitare scandalo è l’ultimo numero del settimanale Der Spiegel che rilancia un vecchio scandalo mai del tutto chiarito: che ne è del tesoro accumulato dai nazisti? Sì, perché i gerarchi del Reich non furono solo i feroci criminali che sappiamo, ma furono anche dei ladri avidi e solerti. Ladri soprattutto di opere d’arte: nel corso del tempo accumularono oggetti preziosi d’ogni tipo, mobili, tappeti, quadri, gioielli. Vittime delle ruberie furono soprattutto le famiglie di ebrei incarcerati o deportati. Ma anche palazzi e musei di paesi occupati e annessi alla Germania hitleriana. Che ne è stato di tutto questo gigantesco patrimonio trafugato illegalmente? Quanto è stato restituito ai legittimi proprietari?
L’OROLOGIO DI EVA
L’inchiesta dei giornalisti dello Spiegel porta a risultati poco confortanti: 80 anni dopo la presa del potere la faccenda del cosiddetto «tesoro di Hitler» rappresenta uno scandalo imperdonabile, un vero e proprio «disastro morale» che nessuno si assume la responsabilità di provare a risolvere. I tesori di quell’iniquo bottino non sono stati mai restituiti, per lo più giacciono nei magazzini di musei oppure decorano gli uffici di importanti istituzioni tedesche. Il simbolo di questa «porca eredità», che campeggia sulla copertina del settimanale di Amburgo, è l’orologio di platino con il quadrante circondato da diamanti che il Führer aveva regalato ad Eva Braun per il suo 27esimo compleanno. Sul retro dell’orologio è incisa la dedica a mano «Per il 6.2.1939, cordialmente A. Hitler». Il gioiello è custodito nel deposito della Pinacoteca di arte moderna di Monaco di Baviera insieme ad altri beni preziosi dei gerarchi nazisti, come per esempio un servizio da tavola di 41 pezzi in argento con le iniziali del Führer, un astuccio d’oro per sigarette tempestato di diamanti e appartenuto a Hermann Göring, con incisa l’affettuosa dichiarazione di «eterno amore» da parte della moglie Emmy e della figlia Edda. Tra i gioielli di Göring figurano anche un diadema di brillanti da 32 carati, un fermacravatte di platino con smeraldi, dei gemelli per camicia d’oro con rubini ed un anello di brillanti con ametista.
Evidentemente questi tesori trafugati illecitamente creano imbarazzo alla Germania odierna ed è per questo che non vengono esposti, ma tenuti ben nascosti nei sotterranei dei musei. Tuttavia, i cronisti dello Spiegel hanno indagato ad ampio raggio fino a scoprire che in realtà alcune di quelle opere «maledette» addobbano uffici pubblici della massima importanza, sedi istituzionali e ambasciate tedesche in vari paesi. Un tappeto Sultanabad della collezione Göring si trova oggi nel palazzo della Cancelleria, un secretaire in ciliegio fatto trafugare da Hitler è collocato nell’Ufficio della presidenza della Repubblica, mentre la copia del dipinto di Canaletto «Canal grande con Punta della Salute e Palazzo dei Dogi» è appeso presso la Società dei parlamentari tedeschi. E il bello è che fino ad oggi, nonostante le tante parole di riprovazione, nessun cancelliere si è preoccupato di censire questi «tesori grondanti di sangue» e di procedere alla restituzione ovvero all’indennizzo dei legittimi proprietari.

lunedì 28 gennaio 2013

Chi ha paura di un capolavoro


Stefano Montefiori

"Corriere della Sera - La Lettura", 27 gennaio 2013

Charles Dantzig è un affermato scrittore ed editore francese che a 51 anni ha deciso di dedicare un erudito saggio all’idea di capolavoro. Per difenderlo, innanzitutto. «Viviamo nella società dello sforzo che ci chiede di eccellere in ogni occasione. Dobbiamo sforzarci di essere sempre competitivi sul lavoro, diventare imprenditori, fondare una famiglia, comprare una seconda casa, fare bungee jumping durante le vacanze e venerare i campioni dello sport che visibilmente si sforzano tantissimo. Solo in letteratura lo sforzo è visto con sospetto: la mancanza di stile è rivendicata, invece che giudicata per quel che è, cioè pigrizia o assenza di talento». In omaggio alla nozione di capolavoro, di quel «Fosbury verso l’inesplorato quando per anni si era saltato a forbice», Dantzig si è messo a studiarlo per scoprire che nessuno, o quasi, lo aveva fatto prima.

«Immaginavo esistesse una bibliografia sterminata sul concetto di capolavoro, invece niente. Neanche un titolo in lingua francese né in inglese, e credo lo stesso nel resto d’Europa. Si rende conto?». Dantzig è ancora stupito, mentre ne parla davanti a un succo di pompelmo in un caffè parigino. Eppure capolavoro esiste in tutti gli idiomi. Chef-d’oeuvre, obra maestra, obra prima, masterpiece, Meisterwerk, aristouryima o shedevr («importato nel russo dal francese, come un vestito da Parigi nel Settecento»), e così via.
Come si spiega, prima di A propos des chefs-d’oeuvre (Grasset, pp. 276), questa riluttanza a indagare su che cosa sia un capolavoro? «Perché viene trattato come un mistero della fede, e le persone hanno bisogno di sacro. La parola nasce intorno al 1200 tra gli artigiani, e il primo a usarla in letteratura, che io sappia, è Voltaire in Il secolo di Luigi XIV (1752): “Si giudica un grand’uomo dai suoi capolavori, non dagli sbagli”. Ma dopo 250 anni, ancora non osiamo dare una definizione di che cos’è un capolavoro».
Dantzig ci prova, alla fine di un libro che è un viaggio divertito tra secoli di libri e scrittori: «Il capolavoro letterario è un libro eccezionale che crea il suo proprio criterio e che non si può giudicare se non tramite se stesso. Espressione la più audace possibile di una personalità, ogni capolavoro è unico. Niente attiene al capolavoro se non la forma di quel capolavoro. Il capolavoro è la creazione più esaltante dell’umanità».
«È solo una proposta, un punto di partenza», dice Dantzig, che per 270 pagine cerca di illustrare il capolavoro partendo da esempi concreti. Come Teorema di Pier Paolo Pasolini. «Un capolavoro in molti casi non è perfetto. Pasolini ha avuto l’idea di scrivere una specie di romanzo muto in cui nessuno parla, non ci sono dialoghi, dà questa sensazione di affresco rinascimentale. Ma in due occasioni dimentica il progetto e fa parlare i suoi personaggi, due sbavature che tolgono il capolavoro da quel sacro piedistallo su cui viene a torto innalzato e lo rendono umano, accessibile, meraviglioso».
Poi ci sono i capolavori presunti, come Don Chisciotte di Cervantes, «che nessuno legge», e che è considerato un capolavoro spesso per le ragioni sbagliate: «Non è un romanzo picaresco, ma una critica dei romanzi cavallereschi e un’analisi dei pericoli della lettura sulle menti fragili, intuizione che influenzerà Flaubert nella scrittura di Madame Bovary, sorta di Doña Quichotte». E i capolavori negati «soprattutto in ambito accademico, perché tanti studiosi e docenti, soprattutto in Francia, Germania e Italia, meno in Inghilterra, guardano ai capolavori con sufficienza, non amano appassionarsi all’opera di un ingegno che non sia il loro. La contestazione della nozione stessa di capolavoro fa molto Europa occidentale, e va di pari passo con l’idea che la nostra civiltà sia al crepuscolo. Tutti pronti a dire che il romanzo è morto, la letteratura è morta, eccetera. Sciocchezze».
Tra le parti più interessanti del lavoro di Dantzig c’è la tirata contro la «moda Céline» e i suoi appassionati difensori. «I lettori incolti si inventano dei capolavori inesistenti. A 40, 50 anni, dopo terribili studi di commercio e vent’anni di schiavitù e schiavismo in un’azienda, si lasciano affascinare durante i 15 giorni di vacanza da un libro celebre, chiassoso e impertinente. Tornano a Parigi e durante un consiglio di amministrazione buttano lì “In Viaggio al termine della notte, Louis-Ferdinand Céline… Conoscete Céline?”. La gloria esclusivamente francese di questo romanzo è l’impostura letteraria di un Paese provinciale e politicamente malato, che non si rassegna di avere perduto la guerra dopo che De Gaulle gli ha fatto credere di averla vinta. Céline è la passione di chi ha letto molto poco. Non per niente è adorato dal nostro ex presidente della Repubblica, Nicolas Sarkozy». E da uno dei più celebri e amati attori teatrali e di cinema francesi, Fabrice Luchini. «Ma il danno che Fabrice Luchini ha fatto alla letteratura francese negli ultimi 15 anni è considerevole. Luchini è un istrione, un Alberto Sordi senza il genio di Alberto Sordi. Luchini ha accreditato la tesi che Céline, come dice lui stesso, abbia inventato uno stile, quei punti di sospensione con il punto esclamativo, ma è falso: Céline li ha copiati dal poeta Jules Laforgue, lui sì autore del capolavoro Les moralités legendaires».
Il viaggio di Charles Dantzig tra i capolavori prevede innamoramenti e stroncature ma — come è evidente dalla sua definizione — è impossibile stabilire un parametro univoco e oggettivo. Esiste un canone del capolavoro letterario e — tranne Viaggio al termine della notte — le opere che ne fanno parte generalmente non sono abusive, concede lo scrittore. L’Edipo a Colono di Sofocle, il Decameron di Boccaccio, il Riccardo III di Shakespeare, Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust sono difficili da contestare, e si potrebbe dire che il capolavoro letterario «è un grande libro verso il quale non esistono più obiezioni».
Ma non basta, anzi, il consenso è un rischio. Il capolavoro rischia di diventare un anziano che si assopisce nella venerazione che si ha di lui. Preso nella ragnatela di note a piè di pagina e impiombato dalle citazioni, sempre le stesse, fatte da persone «che non l’hanno letto ma citano persone che citavano prima di loro», il capolavoro si annoia a morte, piazzato negli scaffali delle «biblioteche ideali». Finché un insolente ragazzino rompe la ragnatela, libera l’anziano e lo porta a giocare con sé mentre i vecchi continuano a guardare gli scaffali. Il libro di Dantzig, alla fine, è soprattutto un invito alla lettura indipendente, perché «il buon lettore è l’essere meno religioso del mondo», ed è solo tramite una lettura vera e sana e perennemente critica che i capolavori possono essere salvati. «La nozione di capolavoro è fondamentale, è necessaria alla sopravvivenza stessa della letteratura», dice Dantzig. I capolavori, male che vada, corrono il rischio di impolverarsi nelle librerie e di rappresentare la Porsche del ceto medio riflessivo, il santino da esibire o da riguardare ogni tanto per sentirsi a posto, rassicurati. Ma allo stesso tempo sono un baluardo contro la volgarità, «perché quelli che pensano solo ai soldi, quelli che osservano con sguardo di sufficienza chi legge un libro sul bus o in metro, sono intimiditi dal concetto di capolavoro. Non sanno bene che cosa sia ma sono restii ad attaccarlo. Le persone volgari sono intimidite dal capolavoro e questo è un bene».
Dantzig esita a citare autori contemporanei, «per non sfavorirli. Se avessi scritto questo libro all’epoca di Chateaubriand, lo avrei probabilmente giudicato un autore medio, prima del grandissimo e finale Le memorie dell’oltretomba». Tra i libri di solito non presenti nel canone dei capolavori,ma che invece Dantzig tiene a ricordare come tra i suoi preferiti, c’è De reditu suo di Rutilius Namatianus, «un funzionario dell’impero romano che viveva in Gallia, e che un giorno va nella capitale. Il libro è il racconto, scritto benissimo, del suo ritorno in Gallia. Rutilius Namatianus vede le prime devastazioni dei barbari, ma le scambia per l’opera casuale di banditi. Lui non lo sa, ma ci racconta il crollo dell’impero romano». Sempre fuori dal canone c’è poi il misconosciuto Horn di Louis Lerne, raro caso di autore contemporaneo. «Ma vorrei citare anche Caos Calmo di Sandro Veronesi — aggiunge Dantzig —. In particolare le prime 40 pagine, quelle che raccontano lo sventato annegamento, sono eccezionali. Il resto è discontinuo, ma come dicevo prima la perfezione non è necessaria». Nella lista dei «capolavori veri» c’è soprattutto, inevitabile, Alla ricerca del tempo perduto, opera anche questa baciata da un’imperfezione. «È la celebre frase, verso la fine, in cui Proust sostiene che la letteratura è l’unica vita che valga la pena di essere vissuta. Io non sono d’accordo, la letteratura per me è il migliore strumento per vivere bene, è un’arma al servizio della vita vera».
Poco spazio è dato a Philip Roth, il re degli scrittori contemporanei. «Tra i capolavo rimetterei solo il Lamento di Portnoy, gli altri suoi libri li trovo troppo altalenanti ». Il capolavoro secondo Dantzig non prevede l’uso di troppi dialoghi, «come per esempio in Libertà di Jonathan Franzen, con quelle centinaia di pagine di botta e risposta irritanti. Trovo che i dialoghi non andrebbero usati per fare avanzare la storia, per dare informazioni, ma per suggerire al lettore la psicologia del personaggio. In questa abitudine di oggi vedo l’insidiosa influenza delle serie tv». Abbiamo a che fare con un pericoloso letterato che non apprezza la grandezza di West Wing o Homeland o Borgen? «Al contrario, sono un grande fan delle serie tv. Non sono sicuro però che la trasposizione di quel procedimento in letteratura possa funzionare».
Il libretto di istruzioni per scrivere un capolavoro, naturalmente, non esiste. Ci sono però atteggiamenti che, secondo Dantzig, ne allontanano la possibilità. Il compiacimento un po’ alla Marguerite Duras di Elsa Morante nell’Isola di Arturo. La pretesa di rappresentare un’epoca, «quando invece il capolavoro non è rappresentativo che di se stesso». E poi, la minaccia suprema, il realismo. Lo praticano certi scrittori lasciando intendere che solo loro sono esatti e seri, «ma è una forma di ricatto, un tirare arbitrariamente dalla propria parte la realtà: non esistono capolavori impersonali». Una cosa, soprattutto, Dantzig si aspetta da un capolavoro: che trasformi il lettore stesso in capolavoro. Un buon romanzo siamo in grado di domarlo. Un capolavoro si impadronisce di noi. «Quando leggo Proust, io sono Proust».
Twitter @Stef_Montefiori


Franco Cordelli

"Corriere della Sera - La Lettura", 27 gennaio 2013