giovedì 30 gennaio 2014

Psicoanalisi per librai. Le cinque regole auree per far felici i lettori


Suscitare emozioni, capire il cliente e comunicare appassionatamente 
che in un libro c’è il mondo (ed è vero)
Un vademecum firmato dal celebre psicoanalista 
per la Scuola di Umberto e Elisabetta Mauri, oggi a Venezia

Stefano Bolognini*

“l’Unità“, 29 gennaio 2014


OGNI CLIENTE È DIVERSO DAGLI ALTRI, E DEL RESTO OGNI LIBRERIA È DIVERSA DALLE ALTRE: per locazione, dimensioni, atmosfera, disposizione dei libri, metodologia di funzionamento commerciale e stile relazionale nel servizio al cliente.
Ciò premesso, è però vero che si possono distinguere (parlo appunto da cliente...) due grandi tipologie di libreria: quella di solito più grande in cui il cliente si aggira tra i banchi e gli scaffali in relativa autonomia, consultando i librai prevalentemente per la ricerca di un titolo ben predefinito, e quella più intima, di stampo più personalizzato, in cui il libraio viene interpellato per ricevere un’indicazione, un suggerimento, un consiglio non ben precisati a priori.
Il cliente, a sua volta, può essere corrispondentemente classificato in due grandi gruppi: clienti che sanno già cosa vogliono e chiedono aiuto per il reperimento di un oggetto ben preciso, e in questo caso la sequenza del contatto con il libraio è di regola piuttosto tecnica: «aiutami a trovare ciò che ho già scelto»; e clienti che non sanno già cosa vogliono, ma sentono di cercare qualcosa di non ancora definito chiaramente e che sono alla ricerca del loro «plancton» culturale.
Lo psicoanalista sa che questi ultimi non sanno di sapere già cosa vogliono, ma profondamente qualcosa già vogliono, anche se non lo sanno: sono inconsciamente indirizzati dai loro desideri e bisogni verso oggetti culturali che daranno rappresentazione descrittiva o narrativa a ciò che si muove dentro di loro senza una forma ben precisa, e che è in attesa di un testo che “li incontri” e li renda reali.
L’incontro in questione (tra il cliente «vagante» e il testo che darà rappresentazione ai suoi desideri e bisogni) necessita, per realizzarsi, di un campo relazionale appropriato: la libreria, i libri e il libraio possono costituirlo, in un insieme che favorisca il riconoscimento dell’oggetto adatto e il suo acquisto.
In generale, c’è una profonda equivalenza psicologica inconscia tra l’atto del leggere e il nutrirsi: si tratta di «prendere dentro» qualcosa di non materiale ma non poi così astratto, perché alle parole o alle figure corrispondono emozioni ancora non conosciute e pensieri che, una volta entrati, faranno parte del mondo interno della persona.
Questa analogia consiste non solo e non tanto nel senso di «incorporare» il cibo (cioè di introdurlo nella cavità orale), quanto nel senso di «farlo entrare dentro» in profondità, digerirlo e assimilarlo adeguatamente: noi chiamiamo questo processo «introiezione», e questa parola tecnica ci serve per distinguerlo appunto dall’ingurgitamento precipitoso e maldigerito.
Chi entra in una libreria entra, in un certo senso, in un vero e proprio ristorante della mente; può essere eccitato e attratto dalla ricchezza dell’offerta (in certi ristoranti che espongono i piatti più diversi verrebbe voglia di assaggiare tutto), ma può essere anche spaventato dall’eccesso spaesante di possibilità di scelta e può ricercare una dimensione più intima in cui poter valutare ed assaggiare ciò che sarà poi introdotto al proprio interno.
È però anche vero che la dimensione meno confidenziale di una libreria ampia e a libera circolazione senza assistenza immediata al cliente può favorire un senso di libertà esplorativa, e può preservare da effetti collaterali indesiderati come un certo disagio sperimentato da alcune persone quando, chiedendo un consiglio, sentono di dover mettere in mostra una loro incompetenza: non tutti sanno accettare di chiedere.
Questa difficoltà riguarda soprattutto i soggetti che definiamo «narcisisti»: sono gli uomini o le donne che «Non devono chiedere. Mai».
Per amor della clinica, vi devo anche segnalare che i clienti a funzionamento paranoide, invece, temono che il libraio possa intrudere nella loro mente e condurli a scelte pilotate, come se il libraio avesse in mente un piano diabolico volto a controllare i desideri o le scelte individuali; ma queste sono eccezioni che cito più per gusto narrativo che per reale incidenza statistica; né si richiede che il libraio faccia una valutazione psichiatrica dei suoi interlocutori!
Quello che invece si raccomanda è che nell’incontro anche di pochi secondi il libraio si renda percettivo verso alcuni specifici aspetti della relazione che si stabilisce di volta in volta con il cliente che lo consulta:
1. Evitare possibilmente la relazione «alto-basso»
In molti casi il libraio è oggetto di un transfert del tipo: «adulto (che sa) bambino (che non sa e che dunque è costretto a chiedere)». È molto importante che il libraio percepisca se la richiesta è rivolta con fastidio per questa temporanea micro-dipendenza o se al contrario il cliente gradisce di essere consigliato e «nutrito» (attraverso il consiglio tecnico) dalla persona competente.
Ovviamente, nel primo caso conviene ridurre il peso di tale dipendenza (vedremo come), mentre nel secondo caso è da evitare viceversa un sentimento di «abbandono» nel cliente bisognoso.
2. Dare valore alla personalizzazione della richiesta
Questo significa che la libreria non deve risultare simile ad una mensa che tende a rifilare a tutti un menu standard, ma dovrebbe piuttosto concedere qualche secondo di interlocuzione in favore del cliente per confortare la sensazione che qualcuno sia disponibile a «cucinare qualcosa di speciale per lui».
Questo riguarda, ovviamente, soprattutto il paziente sperduto che cerca un suggerimento o un’indicazione, che non è in contatto con i propri bisogni e sente di volere qualcosa ma non sa bene che cosa.
3. Comunicare il fatto (vero!...) che in un libro c’è un mondo
Per alcune persone un libro è un insieme rilegato di carta stampata; per altri, è la porta su un mondo che si dispiega nella mente dei lettori, veicolandovi scenari, temperature emotive, colori, storie, relazioni, e comunque parti già sperimentate o solo potenziali del proprio Sé.
Il libraio somministra qualcosa che può avere gli effetti trasformativi di un farmaco o, come dicevo, di un alimento; non dico che ad esso si dovrebbe accludere un “bugiardino” (compresa la descrizione degli effetti collaterali: l’ultimo libro che ho letto «Montenegro» di Bato Tomasevic, mi ha tenuto in una condizione piuttosto alterata di commozione per una intera settimana...), ma la seconda e la quarta di copertina possono essere intese come qualcosa di analogo.
Un libro può essere qualcosa che ti cambia la vita, o per lo meno che la arricchisce potentemente: è un mondo interno di altri che si mescola con il nostro e lo trasforma.
La libreria come farmacia della mente, come ristorante dello spirito, come officina delle idee, come apertura di porte su laboratori, giardini segreti, cattedrali silenziose, fiere di paese, stanze private, e via dicendo.
Ma io so che i librai queste cose le sanno, e sono certo che svolgono il loro lavoro più che altro per questo, oltre che per avere una professione che consenta loro di guadagnare e di vivere.
4. La dimensione «Timeless»
A differenza dei compratori su Internet, che di solito compiono acquisti ultra-mirati e programmati, e che non vogliono intermediari di sorta tra loro e l’acquisto, quelli che si rivolgono alla libreria abbisognano di una paradossale situazione: da un lato richiedono competenza, efficienza commerciale e rapidità nell’esaudire le aspettative del cliente; dall’altro, sembrano entrare viceversa in una dimensione «senza tempo», dove il vagabondare esplorativo tra un banco e l’altro induce a perdere il senso del tempo.
Per comprendere meglio questa realtà soggettiva dell’esploratore di libreria, è utile rifarsi alle sensazioni dell’infanzia quando non si era a scuola e ci si abbandonava al gioco o comunque a momenti sospesi, senza tempo appunto.
La libreria consentitemi un altro paragone apparentemente incongruo può diventare qualcosa di analogo ad un campeggio estivo, nel quale il tempo è scandito più da movimenti interni che da ritmi coscienti esterni: l’orologio, in libreria, perde la sua centralità, e questo va bene.
Si regredisce al punto giusto, e le difese si allentano, consentendo alla curiosità e al desiderio di emergere dal magma del non sentito e del non pensato (o non pensabile, fino a che non si crea la situazione adatta). Secondo me in nessuna libreria dovrebbe esserci alla parete un orologio.
5. L'importanza della dedica
E per finire, un dettaglio che non dovrebbe mancare: un libro destinato a costituire un dono dovrebbe sempre essere accompagnato da una dedica, non dovrebbe mai essere «sbolognato» anonimamente come un oggetto di pura rilevanza quantitativa.
Il destinatario del libro sta per ricevere qualcosa di potenzialmente molto significativo: è consigliabile che chi lo regala gli manifesti qualcosa di più personale e «pensato» che non la semplice consegna di un pacchetto più o meno costoso. Non so come si potrebbe favorire l’usanza della dedica, ma so che si dovrebbe.
*Psicoanalista

mercoledì 29 gennaio 2014

La felicità della cultura


Questa nostra società veloce che non riesce più a pensare
Un saggio di Gustavo Zagrebelsky 
sull’importanza del sapere per la qualità della democrazia

Simonetta Fiori

“La Repubblica“, 28 gennaio 2014

E se davvero ci fossimo ridotti come Funes “el memorioso”, che ricordava tutto ma non capiva niente? Il sospetto è avanzato dal nuovo saggio di Gustavo Zagrebelsky, Fondata sulla cultura, che sceglie il personaggio di Borges come emblematico delle dissennatezze presenti (Einaudi, pagg. 110). Capace di ricordare ogni dettaglio, anche il più insignificante, Funes però non sa pensare. Le idee generali gli sfuggono. Nella sua mente sovraccarica di elementi infinitesimali, non c’è spazio per concetti compiuti. E che c’entriamo noi con questo prodigioso matto, che «sapeva le forme delle nubi astrali dell’alba del 30 aprile 1882 e poteva confrontarle nel ricordo con la copertina marmorizzata d’un libro visto una sola volta»?
C’entriamo eccome, ci dice Zagrebelsky. Questa è la condizione in cui ci conduce il sapere iperspecializzato, suddiviso in competenze differenziate e sempre più piccole, e soprattutto sprovviste di una cornice comune. E a questo ci costringe anche una politica incapace di uno sguardo generale, una politica che risponde alla disgregazione sociale perseguendo l’interesse di ogni minima categoria e rinunciando a un quadro d’insieme. «Le ideologie», scrive lo studioso, «sembrano cose d’altri tempi. Crediamo che ciò sia perché hanno dato cattiva prova di sé, nel secolo scorso. Forse, invece, è perché stentiamo a raffigurare la straordinaria frammentazione sociale in qualche idea complessiva».
Una singolare forma di miopia colpisce il nostro sguardo, che è poi la malattia del “memorioso”. La vista diventa «acuta, acutissima sui particolari», ma «cieca di fronte a ciò che li dovrebbe tenere insieme, cioè a ciò che è generale». Da qui la missione che investe tutti, a partire dagli intellettuali di professione: restituire la vista alla politica. E restituire alla cultura la sua funzione originaria, ossia fungere da collante di una società. Una funzione ribadita anche dalla carta costituzionale, nell’articolo 33, formulato per difenderne l’autonomia dal potere e dal mercato.
Quella del rapporto tra politica e cultura è una lunga e travagliata storia, che è andata esaurendosi in Italia tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Un divorzio progressivo che ha impoverito la politica, schiacciata sul “giorno per giorno”. E ha messo ai margini la figura del maître à penser, caricaturizzata dallo Zeitgeist contemporaneo in pallone gonfiato o in accademico polveroso, incapace di misurarsi con la cultura di massa. Un nome, quello di intellettuale, che oggi è perfino imbarazzante pronunciare, scrive Zagrebelsky. Ma non è sua preoccupazione riabilitare la categoria, coprotagonista non certo innocente del graduale decadimento. Ciò che sembra stargli più a cuore è “la felicità delle idee”, senza le quali non esiste la libertà dal senso comune e dal conformismo.
Fondata sulla cultura può essere letto anche come un trattato sul piacere delle idee, in un’epoca che sembra farne volentieri a meno. E sulla gioia della conoscenza, in un paese che non ci crede più.
Le idee celebrate da Zagrebelsky non sono però “beni in commercio”. Non si traducono in valore economico. E non sono un fattore produttivo. Qui la sua analisi si distingue dalla nutrita saggistica che combatte l’infelice slogan della destra “con la cultura non si mangia”. Con la cultura certo si mangia, ma non è questo che interessa a Zagrebelsky. Anzi, viene denunciata l’ossessione economicistica con cui oggi, in ogni luogo della geografia culturale, anche a sinistra, si soppesano invenzione e creatività. «Il fine è sempre e solo economico: le idee sono strumentali alla felicità e al benessere che questa ideologia continua a collocare nell’economia della ricchezza di beni materiali». Ne consegue che un’idea incapace di produrre innovazione nel mercato delle merci – ma solo consapevolezza o arricchimento spirituale – di per sé non vale niente. Mentre, proprio sulla base della vivacità delle idee, potremmo stabilire classifiche della felicità: sia per le vite dei singoli, sia per ciascuna collettività.
Pur nella forma del trattato classico – e della riflessione intellettuale – il libro di Zagrebelsky parla dell’attualità. Delle idee che sono di per sé “divisive” – categoria bandita nella stagione delle larghe intese – e dei governi tecnici, che come gli idraulici possono al più riparare il danno ma non certo incidere sul cambiamento. Degli intellettuali di servizio – al potere, al mercato, ma soprattutto alle personali carriere – e di quelli scettici che tutto comprendono e tutto giustificano, abilissimi nel destreggiarsi tra i vari poteri. Di quelli apocalittici, in attesa del messia (che non arriva mai, e se arriva sono dolori), e degli eterni consenzienti, per paura di restare esclusi dal “cerchio formidabile” di cui parlava Tocqueville. Una ricca fenomenologia dell’intellettuale smarrito che resta quasi sempre innominata, ma non è difficile riconoscervi i vari personaggi del teatrino pubblico.
Ora però si pone il problema: come restituire integrità alla funzione culturale? Qui Zagrebelsky introduce la categoria del “tempo”. «Se la chat e i suoi fratelli appartengono al mondo dell’istantaneità, i libri richiedono durata». Da una parte la comunicazione, dall’altra la formazione. «La comunicazione vive nell’istante, la formazione si alimenta nel tempo». Non una contrapposizione, ma una necessaria integrazione. «Non si costruisce sommando istanti isolati, ma collegandoli in un senso che crea comunanza. Il collegamento è compito della cultura».
E chi l’ha detto che sia un compito facile? «Io voglio che il mio lettore», scrive Petrarca, «pensi solo a me, e non stia a pensare alle nozze della figlia, alla notte che ha passato con l’amante, alle trame dei suoi nemici, alla causa in tribunale, alla terra e ai soldi». No, il lettore deve concentrarsi sul testo, perché «non voglio s’impadronisca senza fatica di ciò che non senza fatica io ho scritto». Il monito di Petrarca, fatto proprio da Zagrebelsky, vale ancora oggi. Soprattutto oggi. Costanza e dedizione. Tempo e durata. L’unico modo – ci avverte l’autore – per salvarci dalla sindrome di Funes, che pensava di saper tutto mentre era solo un demente.


Correva l’anno 1910, il nichilismo conquistava l’Europa



Il saggio di Thomas Harrison sulle metamorfosi di una civiltà

Valerio Magrelli

“La Repubblica“, 28 gennaio 2014

Pochi anni fa, Paolo Conti pubblicò da Laterza un libro intitolato 1969. Tutto in un anno. Rispetto al celebre Sessantotto, il testo riscopriva eventi di vasta portata: Jan Palach a Praga, piazza Fontana a Milano, il divorzio in Italia, il festival di Woodstock, canzoni come Mi ritorni in mente di Battisti e Abbey Road dei Beatles, film quali Easy Rider e Fellini Satyricon, fino allo sbarco dell’uomo sulla Luna. Da parte sua, mesi fa, Florian Illies ha presentato 1913. L’anno prima della tempesta (Marsilio, pagg. 303, euro 19,50). Tra musica, arte e letteratura, l’autore studia Marcel Duchamp e Ludwig Kirchner, Stravinskij e Schönberg, quindi Kafka, Rilke, Brecht, scorgendo, sullo sfondo, Freud e Hitler. Ben diverso dal primo, più simile al secondo, appare adesso 1910. L’emancipazione della dissonanza, di Thomas Harrison (Editori Riuniti pagg. 330, euro 20).
Anche questo testo (uscito una quindicina d’anni fa per l’University of California Press di Berkeley) parte da congiunture impressionanti. Se il 19 aprile Sigmund Freud e la Società psicoanalitica di Vienna, sgomenti di fronte al crescere dei suicidi nella gioventù austro-ungarica, dedicano al tema un’apposita conferenza, il 17 ottobre 1910, a Gorizia, il ventitreenne filosofo e poeta Carlo Michelstaedter si uccide con la rivoltella, e mentre il 17 maggio la cometa di Halley turba i cieli d’Europa, alla fine di ottobre Max Weber, Martin Buber e Georg Simmel si incontrano nella Prima conferenza della Società tedesca di sociologia. Insomma, basterebbero queste notizie a giustificare l’affermazione di Virginia Woolf: «Intorno al dicembre 1910, il carattere dell’umanità cambiò».
Ma non è tutto. Nel medesimo anno compaiono i più angosciati autoritratti di Egon Schiele e Oskar Kokoschka, Schönberg abbandona le classiche strutture armoniche per l’atonalità, Freud menziona per la prima volta in uno scritto il complesso d’Edipo, Carl Schmitt pubblica Sulla colpa e i tipi di colpa, e Georg Simmel dà alle stampe La metafisica della morte. Contemporaneamente, il giovane tossicodipendente austriaco Georg Trakl comincia a scrivere «la più inquietante poesia della prima metà del secolo», e la sua controparte a sud delle Alpi, Dino Campana, getta le fondamenta dei Canti orfici: il primo, incestuosamente legato alla sorella, si ucciderà senza aver raggiunto la trentina, mentre il secondo, più o meno alla stessa età, sarà chiuso in manicomio.
Alla luce di simili materiali, Harrison intende mostrare la nascita di un atteggiamento comune al nichilismo in filosofia e all’espressionismo in arte, un atteggiamento segnato cioè dalla concezione della storia come incubo e dall’ossessione per l’estenuazione, la decadenza, la mortalità (cenni a suo tempo colti da Massimo Cacciari nel saggio sulla crisi del pensiero negativo). I protagonisti di questa data cruciale sono quindi poeti (George Trakl, Dino Campana, Rainer Maria Rilke), pittori (Wassily Kandinsky, Egon Schiele, Oskar Kokoschka), pensatori (György Lukács, Martin Buber, Georg Simmel, Scipio Slataper, Wilhelm Worringer), musicisti (Arnold Schönberg): «Al pari di Michelstaedter molti di questi personaggi erano ebrei e cittadini dell’impero austroungarico, morirono in giovane età e, a volte, per propria mano. Quasi tutti si dimostrarono tanto incerti nel governare i loro intenti quanto l’età in cui vissero lo fu nell’imboccare il proprio cammino».
Dando prova di una estrema capacità documentaria, spaziando dalla pittura alla musica, dalla filosofia alla sociologia, Harrison sceglie di soffermarsi in particolare sul capolavoro di Michelstaedter, La persuasione e la rettorica.
Infatti, a suo parere, in questo testo ha luogo un autentico collasso dell’io e dei suoi mezzi d’espressione, tanto da far pensare che la tradizione soggettivista della filosofia occidentale giunga al capolinea. Tale accesissima stagione culturale, va tuttavia precisato, non durò a lungo. Innanzitutto perché nel 1918 molti dei suoi protagonisti erano già morti o impazziti (Michelstaedter, Trakl, Schiele, Campana, Slataper, Marc e Boine), poi per l’incombere della Prima guerra mondiale: «Tra il 1914 e il 1918 tutto ciò che i pensatori del 1910 avevano lamentato — la deficienza d’essere, l’insuccesso della retorica razionale ed etica, la tragedia di tutti i tentativi di autodeterminazione, le lotte di ognuno contro tutti — trovò una conferma talmente vivida da far impallidire ogni precedente trattazione teorica».
Così, con la sicurezza e la competenza di un diagnosta, Harrison individua il ganglio nevralgico intorno a cui prese avvio la metamorfosi della nostra civiltà. Abbiamo cominciato citando Virginia Woolf. Sarà bene concludere con quanto il grande poeta tedesco Gottfried Benn scrisse sul 1910, «l’anno in cui tutte le impalcature cominciarono a crollare».

1910 L’emancipazione della dissonanza di Thomas Harrison, Editori Riuniti, pagg. 330 

martedì 28 gennaio 2014

Il dibattito sulla lingua


Tullio De Mauro e la lingua salvata
«Troppi codici per comunicare L’incomprensione è più frequente»
Intervista al linguista: 
«Dobbiamo sintonizzarci non solo sulla grammatica ma anche sul contesto
Non è facile in un Paese che ha ancora percentuali altissime di analfabetismo»

Cristiana Pulcinelli

“L'Unità“, 26 gennaio 2014

IL FESTIVAL DELLE SCIENZE DI ROMA OGGI CHIUDE I BATTENTI E, in occasione dell’ultima giornata, Tullio De Mauro, decano dei linguisti italiani, sarà il protagonista di un caffè scientifico  dedicato al tema dell’incomprensione linguistica.
Professor De Mauro, sotto il profilo dell’esperienza quotidiana, l’incomprensione è qualcosa che ognuno di noi ha provato nella sua vita, ma che cos’è da un punto di vista tecnico?
«È il non tenere conto dei fattori che aiutano la comprensione di ciò che altri dicono o scrivono. Sono molti e diversi. Le parole, anzitutto, e il loro susseguirsi secondo la grammatica di una lingua, il che significa che dobbiamo sintonizzarci sulla lingua che supponiamo propria di chi parla o scrive. Se vedo scritto «I VITELLI DEI ROMANI SONO BELLI», per capire il senso devo capire se chi ha scritto voleva parlare, e parlava, latino o italiano. Se non conosco la lingua di chi parla o scrive, le possibilità di comprensione si riducono quasi a zero. Quasi: ci aiutano altri fattori di cui possiamo e dobbiamo tenere conto nel comprendere. Dati importanti sono conoscere o sapere chi è che parla o scrive, il contesto in cui si colloca. Una frase come “Il cane abbaia” ha un senso molto diverso se ce la dice un nostro familiare infastidito o preoccupato dall’abbaiare del cane di casa oppure se ce la dice chi sta insegnando ai bambini come si denominano i versi dei differenti animali o, infine, se la leggiamo in un testo di etologia animale. A capire ci aiutano molto le intonazioni del parlato e lo sfondo, l’impaginazione, nello scritto. Qualche anno fa Annamaria Testa ha scritto e illustrato un piccolo libro importante e istruttivo, Le vie del senso, per mostrare quanti sensi diversi assume la frase “Ma che bella giornata! ” a seconda degli sfondi su cui la vediamo scritta. Per capire una qualunque frase dobbiamo mobilitare, anche senza accorgercene, tutte le risorse delle nostre conoscenze ed esperienze. Se manchiamo di farlo, la comprensione delle parole altrui fallisce».Quando nel linguaggio comune diciamo che qualcuno non ci comprende, in effetti, non ci riferiamo solo alle parole, ma a qualcosa di più profondo. Ci riferiamo, magari senza saperlo, a questi fattori? «Altri linguaggi funzionano bene anche se non sappiamo chi ne usa i segni o non teniamo conto del contesto d’uso. Le parole invece non sono cifre, simboli matematici o chimici, ma si capiscono appieno solo capendone l’ancoraggio al loro contesto e alla persona che le dice o scrive».
Qualche tempo fa, lei riportava i risultati di un’indagine secondo cui il 71% della popolazione italiana non è in grado di leggere e comprendere un testo di media difficoltà. Ci può spiegare un po’ più nel dettaglio questo dato?
«Noi adulti italiani, molto più degli adulti di altri Paesi, abbiamo un pessimo rapporto con i testi scritti: libri, giornali, pagine internet e perfino cartelli e avvisi al pubblico (spesso, oltre tutto, formulati male). Non una, ma tre successive ricerche internazionali, l’ultima delle quali promossa dall’Ocse e svolta per l’Italia dall’Isfol, hanno stabilito che il 5% della popolazione adulta è in condizione di analfabetismo totale, ma in più il 66% ha gravi difficoltà dinanzi a un testo scritto. Del resto i dati sulla lettura di libri e di quotidiani ci portano a risultati simili».
Eppure in Italia ci si diploma e ci si laurea di più rispetto al passato (anche se siamo sempre agli ultimi posti in Europa), come spiegare questo fenomeno?
«La scuola fa quello che può. Proprio in questa materia sappiamo che alle elementari i bambini e le bambine arrivano a risultati di eccellenza nel confronto internazionale. All’inizio delle scuole medie superiori le cose già non vanno più bene. A mano a mano che vanno avanti nello studio pesano sui ragazzi le condizioni culturali delle famiglie e dell’ambiente. Le cose quindi nella media superiore non vanno bene, ma attenzione: i ragazzi sono poco sotto la media europea, le ragazze addirittura più in alto delle loro coetanee. Il complesso non è brillante, ma non è catastroficamente sotto le medie internazionali come avviene per gli adulti e le adulte. Quando usciamo dalla scuola e dalla formazione cadono bruscamente le sollecitazioni a leggere, tenersi informati, capire il nostro mondo con l’aiuto di pagine scritte. Gli stili di vita ce ne allontanano e solo una minoranza avverte importanza e fascino della lettura.
Oggi la comprensione è diventata più difficile? Pensiamo ai tanti linguaggi diversi: i social network, gli sms, i linguaggi sempre più specialistici delle scienze. Siamo costretti a imparare più codici? «Sì, abbiamo più strumenti, più codici che dobbiamo sapere usare. Il primo resta sempre l’abbiccì e la nostra lingua nativa. Ma non basta più. Per capire le etichette dei prodotti del supermercato o delle medicine, per orientarci nella vita anche quotidiana delle città, per lavorare e produrre abbiamo bisogno di notizie più sofisticate di un tempo, almeno dell’abbiccì di molti diversi campi del sapere. O ci rivolgiamo ai ciarlatani oppure, per campare, avremmo bisogno di un rialzo deciso delle nostre competenze individuali e collettive».


Italiano, la lingua di mezzo
Fin dal ‘500 esisteva una comunicazione d’uso pratico capace di unire le classi sociali e superare i dialetti locali

Paolo Di Stefano

“Corriere della Sera“, 26 gennaio 2014

La storia della lingua italiana, di solito, viene raccontata come la persistenza di una polarità tra lingua scritta, colta, letteraria da una parte e ricca varietà orale di dialetti dall’altra. Per un grande studioso come Carlo Dionisotti la letteratura è stata «il più forte elemento unitario»: l’italiano sarebbe stato per secoli una lingua, unicamente scritta e posseduta da pochi, pressoché impermeabile alla «selva» degli idiomi locali. Secondo l’idea più diffusa, l’avvenuta unificazione politica non era ancora unificazione linguistica, cui avrebbero contribuito numerosi fenomeni, tra cui la scolarizzazione, la crescita dell’industria e la conseguente migrazione interna, la diffusione della stampa e infine la forza attrattiva della televisione. È la tesi di tanti, tra cui Tullio De Mauro. Ma da qualche tempo si fa strada un’idea diversa, più sfumata e meno bipolare. 
L’italiano nascosto, il nuovo libro di Enrico Testa (Einaudi) interpreta questa visione nuova e la illustra con l’avallo di numerosi documenti, alcuni dei quali rari o inediti. «Il libro — dice Testa, docente di Storia della lingua all’Università di Genova, oltre che poeta di valore — propone un’interpretazione delle vicende dell’italiano completamente diversa da quella canonica che vedeva in epoca preunitaria una bipartizione tra letterati e rozzi parlanti dialettali. È impossibile non pensare che esistesse, nel corso dei secoli, una lingua intermedia d’uso pratico che permettesse una comunicazione tra scriventi e parlanti di luoghi e strati sociali differenti». È ciò che sosteneva Ugo Foscolo quando ipotizzava l’esistenza di una lingua comune, «corrente e vivissima in tutte le provincie intesa da Torino sino a Napoli, scorretta, deforme, ed era anche un po’ letteraria»: una «lingua d’espediente», suggerita dai bisogni primari quotidiani, «diversa in tutto da’ dialetti provinciali e municipali, e che serba alcune qualità bastarde di tutti». Insomma, un terzo polo: un italiano capace di stabilire contatti e scambi orizzontali tra le regioni e verticali tra i livelli sociali. Di questa varietà di mezzo, che Tommaso Landolfi chiamò «italiano pidocchiale», Testa va alla ricerca risalendo al Cinquecento. 
«È un italiano che per secoli ha una forte resistenza: ci sono alcune strutture-base di lunga durata che corrono come un filo nascosto e risalgono alla prosa del Duecento». Urgenza comunicativa e «passione di dirsi», secondo la definizione di Claude Hagège, spingono anche la grande massa dei semicolti, né analfabeti totali né arcadi, a prendere in mano la penna. Ai semicolti si deve quell’opera di messa di commistione tra oralità e scrittura che produce una lingua a metà strada tra l’italiano normativo e il dialetto. «È interessante chiedersi come si rivolgevano i semicolti alle autorità per superare la distanza intellettuale e fisica. Impossibile pensare a una netta paratia che divida la letteratura alta e le classi popolari. Abbiamo testimonianze di ciabattini che recitano Dante e di gondolieri che cantano le arie di Metastasio…». Si aprono altri interrogativi, socioculturali: «Che letture facevano i semicolti per impadronirsi di quel minimo di italiano utile alla comunicazione pratica e su che libri soddisfacevano le loro esigenze intellettuali e artistiche?». Con l’espressione «libri per leggere» si definiscono quelle opere, per lo più di paraletteratura, molto diffuse a livello popolare (equivalenti ai tanti titoli che oggi affollano le classifiche): libri devozionali, romanzi d’avventura, d’armi e d’amore, cronache, leggende, libri di viaggio eccetera. Testa ricorda la lista di undici titoli in volgare fornita dal mugnaio friulano Menocchio durante il processo che nel 1601 gli costò la condanna a morte per eresia: dal Decameron non purgato al Fioretto della Bibbia. Lo studio di Testa chiama a raccolta streghe e servitori, mezzadri, pescivendoli, mercanti, parroci, catechisti, maestri di strada, briganti e soldati, monaci: personaggi che portano alla penna (e probabilmente sulle labbra) un italiano capace di farsi capire ovunque ben prima che comparisse sulla scena Mike Bongiorno, assunto troppo spesso come fascinoso tramite dell’italianizzazione, con il maestro Manzi e le canzoni di Sanremo. 
«D’altra parte — continua Testa — che strumenti linguistici usavano, per esempio, le autorità religiose per trasmettere princìpi e ammaestramenti ai semplici?». È emblematica la figura di Alfonso Maria de Liguori, fondatore, nel Settecento, dell’ordine dei Redentoristi nel Regno di Napoli, i cui «brevi avvertimenti» e schemi predicatòriȋ erano destinati all’apprendimento dell’italiano dei suoi allievi, con l’invito a mitigare gli eccessi retorici della lingua della predica, adottando moduli più semplici e sintatticamente franti in direzione comunicativa. E i grandi letterati, i prìncipi della cultura classicistica, i notai, gli avvocati, i religiosi come si rivolgevano ai loro servitori? Un esempio è quello di Baldassar Castiglione, esponente autorevole della diplomazia tra Chiesa, Mantova e Urbino in epoca rinascimentale. Guardando al retroscena del laboratorio di scrittura privato, per esempio nelle lettere di carattere più domestico e familiare, si nota lo sforzo di adattamento al livello linguistico del destinatario. Quando scrive al suo fattore, il rustico Cristoforo Tirabosco, il Castiglione mostra di presupporre un terreno comune di comprensione e una competenza almeno passiva dell’interlocutore. Una dinamica analoga a quella che legava Vittorio Alfieri con il suo fedele servitore Francesco Elia, autore di un gruppetto di lettere che dimostrano una discreta familiarità con la scrittura, oltre a una «intelligente perspicacia e sottilissima avvedutezza», come segnalò Lanfranco Caretti. 
«È difficile pensare — dice Testa — che questo tipo di lingua non venisse utilizzato anche oralmente, quando si incontravano tra loro personaggi di diversa estrazione culturale o di diversa provenienza geografica. Il caso più clamoroso è quello dei frati itineranti o dei maestri irregolari che, pur conoscendo un solo dialetto, riuscivano a stabilire contatti con uditori linguisticamente distanti o si muovevano per insegnare l’abaco e i rudimenti della lingua». La dimensione orale rimane comunque necessariamente più oscura. «Per l'oralità, non avendo documentazione, è chiaro che dobbiamo affidarci a una sorta di procedimento indiziario, ma si può facilmente immaginare un panorama analogo a quello della lingua scritta. L’italiano ”pidocchiale” o d’espediente ha sempre una forte componente locale, soprattutto sul piano fonetico e lessicale, però al di sotto si scopre una condivisione sintattica e morfologica e una resistente continuità diacronica». Ci sono luoghi deputati in cui questo italiano «pidocchiale» viene coltivato più che altrove: officine, laboratori, botteghe, confraternite che utilizzavano l’italiano per statuti e verbali, monasteri femminili in cui le pratiche religiose si sposavano con l’apprendimento della lingua. «Paradossalmente, — ricorda Testa — persino il brigantaggio nell’Ottocento ha finito per diffondere l’italiano, perché anche per scrivere le lettere di riscatto a un ricco possidente bisognava farsi capire».

Testa insegna Storia della lingua italiana all’università di Genova. Il suo ultimo volume è «L’italiano nascosto. Una storia linguistica e culturale» (Einaudi, pp. 292, 20). Da Einaudi ha pubblicato anche: «Eroi  e figuranti. Il personaggio nel romanzo», l’antologia «Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000», e proprie raccolte di poesia. 

domenica 26 gennaio 2014

Mostri. Creature fantastiche della paura e del mito

Mostri. La paura e l’attrazione
I protagonisti della mitologia che piacciono molto ai bambini

Edoardo Sassi

“Corriere della Sera“, 26 gennaio 2014

Nelle fonti antiche che ne tramandano le gesta, di tutti i «Mostri» lui è il più terribile: Tifone, personificazione dei venti e distruttore del fuoco, dalle cui spalle spuntavano cento serpenti. Questa e cento altre storie, risalendo indietro nei secoli (storie di superstizioni, credenze e paure di una umanità bambina) si apprendono visitando la bella e scenografica mostra dal titolo, appunto, «Mostri», allestita fino al 1° giugno a Palazzo Massimo, una delle quattro sedi del Museo nazionale romano. 
Una mostra archeologica di impianto rigorosamente scientifico ma di grande impatto visivo e adattissima ad ogni tipo di pubblico, compreso quello delle scuole, che infatti sta affollando il percorso espositivo pensato non a caso in forma di labirinto, forma più antica di viaggio iniziatico. Ad aprire il cammino di visita c’è infatti un Torso del Minotauro dal gruppo con Teseo, in marmo bianco e di età flavia (fine I secolo d.C), scultura di norma esposta al primo piano del museo e ritrovata a Roma nella zona dello Stadio di Domiziano, attuale piazza Navona. 
Eccezionalmente spostata per introdurre la mostra, la statua assume così una sorta di ruolo-guida tra i tanti esseri — mostruosi certo, ma bellissimi — esposti nella rassegna e generati secoli addietro dalla fantasia e dalla paura dell’essere umano. 
Sculture, terrecotte, vasi, armi, affreschi e mosaici raffiguranti grifi, chimere, gorgoni, centauri, sirene, satiri, arpie, sfingi, tritoni, Pegaso, Scilla o l’Idra di Lerna: in tutto un centinaio di meraviglie che in origine ebbero per lo più funzione apotropaica, dunque con il ruolo di tenere lontani effetti malefici, fino a oggi mai o poco viste, straordinari prestiti nazionali e internazionali da Atene, Berlino, Basilea, Vienna, Los Angeles, New York e provenienti da diversi ambiti culturali e cronologici (Oriente, Grecia, mondo etrusco, italico e, ovviamente, romano). Curatrici della mostra (organizzata dalla Soprintendenza archeologica di Roma guidata da Mariarosaria Barbera), la direttrice di Palazzo Massimo, Rita Paris, ed Elisabetta Setari. «Per mostri — spiegano — s’intendono esseri che non trovano corrispondenza nella realtà, nell’ordine naturale, per lo piu originati da combinazioni di parti di esseri reali, creati dall’immaginazione dell’uomo, che hanno animato racconti ancestrali e miti. La mostruosità di queste creature, nel repertorio vastissimo dell’arte antica, presenta quasi sempre elementi di nobiltà e di eleganza, per il legame con la sfera cultuale e le loro imprese mitologiche». 
E sono, questi «mostri», per lo più transitati fino a noi, in una sterminata tradizione che attraverserà tanta arte (a quanti pittori, da Bosch a Böcklin, da Füssli a Salvador Dalí, sarebbe piaciuta questa esposizione) e letteratura, giungendo fino al cinema. Per spiegare quanto la «mostruosità» antica sia servita da fonte d’ispirazione per l’arte a venire, la mostra presenta infine anche tre opere di epoche successive: una tela del Cavalier d’Arpino raffigurante Perseo che libera Andromeda, una Medusa di anonimo fiammingo del XVII secolo e un Minotauro con testa di giraffa di Alberto Savinio. 


E il Simbolismo inquieto ritrovò il caos primordiale
A fine ‘800 il recupero di un disagio psichico 
che la serenità apollinea greca aveva eliminato

Francesca Bonazzoli

In un ormai vecchio saggio, Simbolica e mitologia, rimasto comunque seminale, Friedrich Creuzer indagava il passaggio dal simbolo al mito chiedendosi che cosa ci fosse stato prima della «ciarliera» tradizione di Esiodo e Omero la quale aveva sistematizzato l’albero genealogico degli dei, attribuendo a ciascuno di loro onori, funzioni, appellativi. Prima delle parole chiare dei Greci, ci furono gli enigmi dei Pelasgi, sosteneva il filologo tedesco. La brevità, la sintesi, costituiva il carattere fondamentale della dottrina religiosa più antica, e il dare un nome a ciò che prima era senza, rappresentava la funzione sacerdotale primaria. 
Tuttavia, «come il devoto presentimento di quei Pelasgi si connesse ad un nome, e grazie alla moltiplicazione dei nomi nella preghiera il loro pensiero religioso trovò un ordine sempre maggiore, così un universale impulso della natura umana richiede molto presto segni esterni determinanti ed immagini per indicare sentimenti indeterminati e idee oscure». In questa fase più antica della religiosità, quindi, interpretare i simboli e dar loro una forma coinciderebbero nella figura sacerdotale. È così che nascono sia l’aura divina intorno all’artista, sia la funzione magica attribuita all’immagine. E infatti ancora oggi è di questo che parliamo quando diciamo «artista divino» o vediamo milioni di persone in pellegrinaggio al Louvre davanti alla «Gioconda», o persino quando il vandalo spiega il suo gesto iconoclasta con affermazioni come: «Quell’immagine mi guardava con cattiveria». 
L’immagine nasce dunque divina. Ma è paradossalmente con i Greci che questo legame originario fra divinità e immagine si cominciò a sciogliere. Friedrich Nietzsche indicò proprio nella «serenità greca» della tarda grecità, nel prevalere dell’apollineo, cioè della razionalità e della scienza sul dionisiaco, la malattia che da lì in avanti indebolì l’Occidente. Che cosa restò, dunque, della potenza primigenia delle loro Arpie, Sirene, Gorgoni, Meduse o Sfingi? Nel Cinquecento, quando l’Umanesimo le riportò in auge sostituendole al bestiario medievale che decorava le facciate delle cattedrali, rimase solo l’eleganza di un divertissement intellettuale. 
Il compiacimento colto e raffinato per una bellezza artificiosa, tipico del Manierismo, trasformarono per esempio il Perseo del Cavalier d’Arpino in un cavaliere fiabesco che libera Andromeda da un mostro marino simile a quelli che nel basso Medio Evo venivano dipinti negli inferni dei Giudizi Universali. Anche Benvenuto Cellini, nel fondere in bronzo Perseo che brandisce la testa mozzata di Medusa, puntò tutto sull’ammirazione dello spettatore verso la magnificenza del corpo dell’eroe. All’inizio del Seicento, la terribilità della Medusa di Caravaggio è dunque solo la parentesi personalissima, di un uomo che provocava la morte rimanendone perseguitato. 
La situazione degradò ulteriormente nel Settecento dove umani e mostri vennero indifferentemente infiocchettati e incipriati diventando innocui ninnoli di un mondo dai colori pastello. Bisognerà aspettare il Simbolismo (1886) per riprovare un brivido di inquietudine e avvicinarci all’insondabilità del caos primordiale della psiche. Finalmente una società già febbricitante, ma non ancora illuminata dalla psicanalisi, tornò a «dire» il disagio psichico attraverso gli unici simboli che conosceva: quelli antichi. 
Le Sfingi di Gustave Moreau; i Centauri di Arnold Böcklin e Max Klinger; le Arpie di Munch o le Sirene di Klimt sono tutti mostri associati a ciò che si nasconde dietro le apparenze della realtà, quel magma di disagio arcaico che verrà chiamato inconscio. Lo stesso «espediente» che sarà utilizzato da Freud, il quale non a caso tornerà a far riferimento ai miti greci parlando per esempio di complesso di Edipo. In questa fase storica, dunque, i mostri antichi sembrano recuperare la loro forza di simboli e le immagini il loro potere magico. 
Metafisici e Surrealisti continueranno con consapevolezza su questa strada finché, dopo la seconda guerra mondiale, le Erinni, le Meduse, le Arpie e i Tifoni che assediano la razionalità umana verranno documentati dalla fotografia e dal cinema. Il valore simbolico si smarrisce allora nuovamente: il Mostro diventa l’orrore della cronaca o, addirittura, intrattenimento per bambini attraverso pellicole blockbuster


La metamorfosi delle sirene, da uccellacci a seduttrici
Ma nel mondo ellenico il volto femminile era «noir»

Eva Cantarella

Non c’è alcun dubbio, il mondo dei Greci era pieno di figure mostruose, di creature dall’aspetto spesso ripugnante, a volte pericolose, a volte senza scampo mortali. Sempre, comunque, difficili da classificare, nella loro varietà. 
Partendo da esseri semiumani, a ben vedere meno «mostruosi» come i Centauri, mezzi uomini e mezzi cavalli, o i Satiri, mezzi uomini e mezzi caproni, si arriva a creature dall’aspetto orripilante e disgustoso come le Erinni che, in Eschilo, accovacciate come cani, stillano sangue dagli occhi e a celebri mostri come le terribili Scilla e Cariddi. E poi, ancora, le Sirene. Proprio così, proprio loro, nell’immaginario odierno donne bellissime, seducenti e ovviamente irresistibili. Nelle raffigurazioni cinematografiche, ad esempio, hanno l’aspetto della stupenda Daryl Hannah, che nel film «Una Sirena a Manhattan» fa innamorare il protagonista al punto da indurlo a gettarsi nel mare per raggiungerla negli abissi, dove si presume vivranno per sempre felici. Ma per i Greci le sirene erano tutt’altra cosa, erano appunto dei mostri. Per cominciare, non erano affatto mezze donne e mezze pesci: in Omero, così come in Ovidio e più in generale nell’antichità classica, le Sirene sono donne con ali di uccello (o, se si preferisce, uccelli con testa di donna). La tradizione che le trasforma in pesci è solo medievale. 
Quale sia la loro genealogia è cosa incerta. Le tradizioni sulla loro nascita sono diverse: a volte sono figlie di Melpomene e del fiume Acheloo, a volte di Acheloo e di Sterope, altre volte ancora di Acheloo e di Tersicore. Ugualmente incerto il loro numero: in Omero sono due, ma nelle tradizioni posteriori diventano tre, o anche quattro. Quando sono tre si chiamano Pisinòe, Aglaòpe e Thelxièpeia (ovvero Parthenope, Leucosla e Ligheia). A volte sono quattro e si chiamano Telès, Raedné, Molpè e Thelxiòpe. Meno controverso il luogo in cui abitavano: tre isolette rocciose, tre scogli sulla costa tirrenica dell’Italia, oggi chiamate Li Galli, tra la punta della penisola amalfitana e Capri. Ma torniamo al loro aspetto, a ben vedere molto simile a quello delle Arpie. Figlie di Thaumas e di Elettra, discendente di Oceano, le Arpie appartenevano alla generazione divina preolimpica e abitavano le isole Strofadi, nel mare Egeo, ove — come peraltro in tutta la Grecia — godevano di pessima fama: la loro attività, infatti, consisteva nel rapire i bambini e condurre i morti nell’aldilà. Più che spiegabile, dunque, la loro frequente rappresentazione sui monumenti funebri. Al pari delle Sirene: anche queste — che così appaiono in numerose rappresentazioni, a partire dall’VIII secolo — erano demoni dell’oltretomba, grandi uccelli sgradevoli che intonavano, con voce gracchiante, lamenti funebri per ordine dei sovrani dell’Ade. 
Una rappresentazione per noi sorprendente che, per capirla, è necessario aprire una parentesi sulle personificazioni greche della morte: la più celebre delle quali, forse, è Thanatos. Figlio di Notte e gemello di Sonno (Hypnos), Thanatos è molto diverso dal fratello. Questo percorre pacificamente terre e acque ed è dolce con i mortali; Thanatos invece ha cuore di ferro, spirito di bronzo e petto implacabile. Una volta afferrato un essere umano, lo tiene con sé per sempre. 
Personaggio inevitabilmente temibile, Thanatos ha tuttavia tratti meno terrificanti di altre rappresentazioni della morte: più specificamente, di altre rappresentazioni della morte di genere lessicale e dal volto femminile. Morte e Sonno infatti hanno una sorella, Kera (a volte Kere, al plurale), la nera morte che terrorizza, rendendo insostenibile l’idea di un destino che pure, quando ha genere e volto maschile, viene in qualche modo accettato, con filosofica rassegnazione di fronte all’ineluttabile. E lo stesso vale per Gorgò, il mostro dal volto di donna e dallo sguardo che pietrifica, il cui solo pensiero indurrà Ulisse ad abbandonare precipitosamente l’Ade (quando, nell’Odissea, è costretto a visitarlo). 
L’associazione stabilita dai Greci, le donne, la morte e le immagini mostruose di questa, quando sono femminili, è non poco inquietante. Ma non è questo il momento per parlarne. Qui e si voleva ricordare la presenza, nel mondo greco, una volta idealizzato immaginato come luogo perfetto di ogni bellezza, la presenza di immagini inquietanti immagini mostruose, che pongono interessanti interrogativi sulla vita interiore dei Greci. 

Dacci oggi il nostro zombie quotidiano
Con l’era digitale le creature fuori dal comune si annidano nella normalità

Roberta Scorranese

«Il suo corpo guizzante come un pesce, l’ignobile rabbia espressa dal suo viso cattivo, calcinavano in me la vita e la sbriciolavano fino alla nausea». Un racconto poco conosciuto di Georges Bataille, Madame Edwarda (1941), tratteggia una mostruosità femminile che nasce da un desiderio sfrenato, un’estasi torbida. E, in fondo, il «mostro» moderno, novecentesco, scaturisce da questa interiorità devastata, lontana dalle fantasie gotiche dell’Ottocento, dove le creature fantastiche evaporavano nelle nebbie. No, da Edgar Allan Poe a oggi, il mostro è più sottile, imprendibile perché sempre più simile a noi, come ci ha suggerito Magritte con i suoi fantasmi. O Bacon, con autoritratti sfregiati. E persino la saga degli «zombie», dai film di Romero ai recenti rifacimenti, come una vita simile alla nostra che ritorna inaspettata. 
Ma negli ultimi decenni, nell’era dell’accesso e della virtualità condivisa, l’immaginario dei mostri è cambiato ancora, con sfumature sempre più vicine alla «normalità». O, meglio, alla trasfigurazione della normalità. È un mostro Walter White, il protagonista della serie televisiva americana Breaking Bad: la malattia lo rende sempre più abietto modificandone, insieme al destino, anche l’aspetto fisico; è un mostro Joker (rigorosamente nell’interpretazione di Heath Ledger) ne Il cavaliere oscuro del 2008, diretto da Chris Nolan; è un mostro Cate Blanchett nella scena finale di Blue Jasmine di Woody Allen, dove si arrende alla sua trasfigurazione che la lascia piangente, scarmigliata, volutamente cieca e sorda al reale; è un mostro Tony Soprano, dell’omonima saga televisiva, boss italo americano «cariato» all’interno da un destino di degrado morale. 
Così, curiosamente, mentre l’apparato cinematografico ci regala mostri sempre più sofisticati anche grazie a tecnologie che sfiorano la perfezione digitale (come tutta la recente serie dei «vampiri»), la sensazione è che il perturbante non risieda tanto nella finzione cinematografica o letteraria, quanto piuttosto si annidi nella vita di tutti i giorni, perfettamente impastata con i guizzi erotici, gli affetti, gli odi. 
Il monstrum (prodigio, creatura fuori dal comune) è nella serie infinita di fotografie modificate dai filtri dei social network; è nell’immagine distorta dell’altro che Skype ci restituisce ogni giorno (quante coppie oggi, si frequentano più su Skype che non nella vita reale?); è nel nostro stesso mostrarci poco per come siamo realmente, preferendo relazioni virtuali; è nella paura non tanto di invecchiare (paura che sa ormai di modernariato) quanto di cambiare, terrorizzati da un futuro che percepiamo come un abisso, più che come una possibilità. 
Persino nell’immaginario dei bambini il mostro è cambiato e ha preso le sembianze di un maialino «normale» come Peppa Pig. Perché le Carrie o gli Esorcisti che tanto ci hanno spaventato in passato, oggi tornano con la disarmata stanchezza dei remake. Quei mostri lì non ci sono più, quelle paure sono finite e lo dimostra lo scrittore che forse ha meglio interpretato il concetto di «mostro» moderno: Stephen King. Dopo aver raccontato la ferocia delle macchine (quindi del progresso) e la spietatezza dell’inconscio, King da tempo veste i panni (raffinati) di chi si limita a citare se stesso con ironia. 
Paradossalmente, il mostro, oggi, è più vicino a Freaks di Todd Browning, film del 1932 in cui il «mostro» era il nano, lo storpio, il diverso. Quelle creature che le città hanno relegato in abissi sempre più difficili da raccontare. 

Resterà aperta fino al 1° giugno l’esposizione «Mostri. Creature fantastiche della paura e del mito», a Roma, al Museo nazionale romano Palazzo Massimo (Largo di Villa Peretti 1), promossa dalla Soprintendenza Speciale per i beni archeologici di Roma in collaborazione con Electa e a cura di Rita Paris ed Elisabetta Setari.

Filosofia e fotografia. Il mondo in un'immagine


Per Cartesio il dispositivo ottico consentiva di sottrarre il mondo 
al caos della percezione, 
mentre per l'uomo del '900 l'obiettivo moltiplica lo sguardo soggettivo

Anna Li Vigni

''Il Sole 24 ore - Domenica'', 26 gennaio 2014

«Per sapere occorre immaginare. Dobbiamo provare a immaginare l'inferno di Auschwitz nell'estate del 1944. Non parliamo di inimmaginabile. Non difendiamoci dicendo che immaginare una cosa del genere è un compito che non possiamo assumerci». Così George Didi-Huberman ci introduce a quattro fotogrammi scattati furtivamente, nell'agosto del 1944, da alcuni prigionieri del campo di sterminio destinati alle camere a gas. Quei «quattro pezzi di pellicola strappati all'inferno» ci permettono oggi di rileggere la storia – secondo l'indicazione di Benjamin – «in contropelo», ovvero di assumere uno sguardo critico sul passato, andando con l'immaginazione al di là dei luoghi comuni forniti dalla tradizione. Se anche il ruolo della fotografia si limitasse a questo, sarebbe già abbastanza. Ma c'è tanto di più. La fotografia non è soltanto la rappresentazione del reale indissolubilmente legata al suo apparato tecnico. E non è solo un'arte, da sempre ingiustamente considerata in rapporto o alla pittura o al cinema. La sua scoperta è coincisa con la più grande rivoluzione della percezione e della cognizione, una frattura culturale che ha profondamente modificato lo sguardo dell'uomo contemporaneo.
Il volume Filosofia della fotografia, curato da Maurizio Guerri e da Francesco Parisi, è un'utile antologia ragionata di alcuni tra i principali testi di teoria della fotografia, dagli esordi fino all'odierno dibattito d'ambito analitico: da Ernst Mach a Vilélm Flusser; da Walter Benjamin a George Didi-Huberman; da Roger Scruton a Marshall McLuhan; da Gregory Currie a Kendall Walton. La prima grande questione filosofica riguarda il portato cognitivo della rappresentazione fotografica: «In che modo la macchina fotografica e i media che hanno sviluppato le potenzialità di riproducibilità tecnica delle immagini hanno mutato il nostro modo di guardare le cose?». L'inizio della storia della fotografia coincide con il momento in cui l'uomo contemporaneo ha conformato il proprio sguardo alle condizioni socioculturali e tecnologiche del suo tempo. Non esiste una rappresentazione visiva separata dalla tecnica ottica che l'ha prodotta.
Già Cartesio, facendo esperimenti con la camera oscura, riteneva che attraverso il dispositivo ottico si potesse oggettivare il mondo, offrendone una visione assoluta e sottratta al caos della percezione; ma l'uomo del '900 ha imparato che l'obiettivo fotografico persegue un fine opposto, quello di trasferire e di moltiplicare lo sguardo soggettivo. In un certo senso, come sottolinea Susan Sontag, la fotografia ha anche contribuito a "deplatonizzare" la visione occidentale di realtà: ha evidenziato l'importanza dell'immagine in quanto cosa tra le cose e non più, tradizionalmente, come copia di un originale. L'altra grande questione filosofica riguarda il dibattito estetico sulla fotografia come arte; un'indagine che non può prescindere dal rapporto con la pittura, considerato che la valutazione delle immagini fotografiche si è molto spesso basata su criteri pensati per i dipinti. Tuttavia, ciò che bisogna chiedersi è, al contrario, quanto la fotografia ha influito sulla pittura a partire dall'età dell'impressionismo, trasformando il modo di guardare e di trasporre la visione sulla tela. Una posizione come quella di Roger Scruton, che non considera le immagini fotografiche vera arte in quanto secondo lui verrebbero create senza alcun sostrato intenzionale, non è altro che l'eco di un assurdo atteggiamento critico che accompagna da sempre la storia della fotografia. Non solo è un'arte, ma un'arte unica nel suo genere, capace di dare scacco al tempo e alla storia.

venerdì 24 gennaio 2014

Perché la filosofia


Umberto Eco


Nel 2014 una nuova Storia della Filosofia,
a cura di Umberto Eco e Riccardo Fedriga

La meraviglia e il naso del filosofo

Nella Grecia classica si riteneva che l’uomo iniziasse a filosofare (come diceva Aristotele) come reazione ad atti di meraviglia. Rispondono a un atto di meraviglia sia la domanda “chi ha fatto tutte le cose che ci circondano?” (domanda certamente filosofica, comune pure a tutte le religioni) sia la domanda “come mai i ruminanti hanno le corna, salvo il cammello?”, questione a cui Aristotele aveva tentato di rispondere ma che oggi noi affidiamo alla ricerca scientifica e non alla filosofia. LEGGI l'introduzione.

giovedì 23 gennaio 2014

Google. Il giro dell’arte in un clic


Dai quadri di Warhol ai paesaggi di Turner 
La più grande galleria d’arte del mondo fruibile da casa In digitale 57 mila opere


“La Repubblica“, 22 gennaio 2014

PARIGI Uno sguardo ai quadri di Andy Warhol al Moma, un giro davanti ai paesaggi di Turner dentro alla Tate Britain, la contemplazione dei più famosi impressionisti al Museo d’Orsay. Ma anche, con un salto nello spazio, la visita nella galleria d’arte moderna di Istanbul, oppure in quelle di Hong Kong e Sydney. Dalla poltrona di casa, senza muoversi. È il più grande museo del mondo. Anzi è il museo dei musei: oltre 57mila opere disseminate in 50 Paesi. Neppure Walter Benjamin, che aveva incominciato la sua riflessione sull’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica, poteva immaginare che saremmo arrivati a tanto.
La nuova frontiera è in una palazzina elegante di rue de Londres, nono arrondissement. Dentro all’Istituto culturale di Google lavorano una trentina di ingegneri che hanno messo a punto software e tecniche interattive per catalogare ma anche vedere e avvicinarsi (virtualmente) ad alcuni dei più grandi capolavori dell’umanità.
Nella sede del gigante americano non ci sono opere, solo schermi, computer, scanner. Un luogo asettico e molto professionale che ha poco a che vedere con l’emozione estetica. Direttori e conservatori di musei vengono qui dal mondo intero per discutere della digitalizzazione delle opere e dell’esperienza immateriale che se ne può avere davanti a un computer. «Era necessario avere un luogo fisico. Comunicare di persona è molto meglio che per email» spiega con una battuta Laurent Gaveau, già responsabile dei contenuti digitali del Castello di Versailles e ora direttore del Lab, il nuovo spazio di 340 metri quadrati inaugurato a dicembre ma disertato polemicamente dal ministro della Cultura, Aurélie Filipetti.
È uno dei tanti segnali di come il progetto artistico del gruppo americano sia tutt’altro che consensuale. Alcuni musei francesi, come il Louvre e il Pompidou, sono ancora scettici sull’iniziativa e non hanno autorizzato Google a fotografare la loro preziosa collezione. La Francia, tra l’altro, è il paese che ha più osteggiato il colosso di Mountain View. Ha aperto un contenzioso fiscale, ha inflitto una multa di 150mila euro per violazione della privacy, e ha costretto il gruppo a versare agli editori una somma,seppur ridotta, per l’uso dei contenuti giornalistici.
Eppure è qui, nella “tana del lupo”, che Google ha deciso di aprire uno dei suoi progetti simbolo. «La Francia è la Silicon Valley della cultura» ha commentato Nick Leeder, direttore di Google France. Il gruppo americano insiste sul fatto che si tratta di una piattaforma no profit. «Forniamo gratuitamente i tool ai musei che ce lo chiedono. Nessuna ingerenza, ogni partner usa la piattaforma in perfetta autonomia» racconta Gaveau. «Quando ho iniziato questo lavoro, due anni fa, molti temevano che la visita virtuale avrebbe sostituito quella fisica. Ora sappiamo che non è così. Anzi più si possono trovare opere online e più si provoca il desiderio di vederle dal vivo. Sono due esperienze complementari».
Nel Lab di Google l’atmosfera è tipicamente californiana. Ragazzi trentenni che sorseggiano bibite all’open bar. All’ingresso si ritrova la solita ossessione per i segreti industriali del gruppo. Prima di entrare bisogna firmare la dichiarazione: «Tutto ciò che vedrete o sentirete durante la vostra visita deve restare confidenziale». Non sono autorizzate fotografie né riprese all’interno della palazzina di rue de Londres. Al pianterreno c’è un “Big Wall”. Sullo schermo interattivo di 65 metri quadrati — «il più grande del mondo» — vengono proiettati quadri che, nella realtà, sono dieci volte più piccoli. L’occhio della Venere di Botticelli, che misura pochi millimetri, si allunga su un’intera parete. È così che si riescono a vedere dettagli invisibili normalmente, come il volto di un ragazzo disegnato dentro alle minuscole lacrime della donna ritratta in “No Woman, No Cry” dell’artista Chris Ofili, esposto alla Tate Modern di Londra. Sul Big Wall appare “La Mietitura”, l’olio su tavola dipinto nel 1565 da Pieter Bruegel il Vecchio. In scala ingrandita si scopre che, in fondo al quadro, c’è un gioco medievale: il tiro a bastone contro l’oca. Una scena che nella realtà è grande come un’unghia. Con un clic, ecco lo zoom su un altro dettaglio: dei monaci che fanno il bagno. Nel dipinto originale, così come lo vedono milioni di persone al Metropolitan Museum of Art di New York, sarebbe quasi impossibile accorgersene.
«È un modo inedito di immergersi nell’opera» spiegano i responsabili del Lab. Gran parte delle opere nei musei non si possono toccare, maneggiare. Sullo schermo viene proiettata una maschera vecchia di 9mila anni esposta al museo di Gerusalemme. Con un altro clic si può girare a 360 gradi, scrutare sotto diverse prospettive. Google propone adesso una digitalizzazione in gigapixel, la migliore definizione possibile. Ci sono già 73 opere disponibili con questa qualità. È una sorta di realtà aumentata, con informazioni e dettagli che non sono percettibili nel consueto approccio alle opere d’arte. Molti musei utilizzano anche il robottino del famoso Street View, ribattezzato Museum View, per registrare una visita virtuale attraverso la loro collezione. Ci si può muovere in libertà tra stanze e piani, senza il frastuono e la ressa dei turisti. Un’»esperienza», dicono a Google, che raramente si può sperimentare nei grandi musei del mondo.
La sede parigina di Google è chiusa al pubblico ma ospita periodicamente visite di studenti delle scuole d’arte. La visione ravvicinata delle opere permette di esaminare meglio la tecnica utilizzata da grandi artisti. Al primo piano c’è un grande atelier con stampante 3D, scanner, laser cutter, strumenti per forgiare, persino il prototipo di un robot capace di fare dei pancake. Cosa c’entra con l’arte? Lo dovranno scoprire i primi due artisti invitati a lavorare in questo “Bateau Lavoir” del ventunesimo secolo. Le giovani promesse della creazione interattiva saranno in residenza per sei mesi, selezionate da Hans Ulrich Obrist e Simon Castets, promotori del progetto “89plus” che riunisce una nuova generazione di creatori nati nel 1989, anno della caduta del Muro di Berlino e dell’avvio del World Wide Web. Nel Lab di Google saranno anche organizzati seminari e conferenze. Il prossimo appuntamento, in primavera, è dedicato alle donne nell’arte e nell’ingegneria informatica, in nome di una parità che ancora non c’è.
La piattaforma interattiva è stata lanciata due anni fa ed è già stata visitata da milioni di persone: 7,4 milioni di abbonati al Google Art Project, che comprende anche l’iniziativa World Words Project per visitare monumenti e luoghi archeologici, da Pompei alla Tour Eiffel. Alcuni partner, come il museo d’Orsay, hanno deciso di mettere in linea i loro archivi, normalmente non accessibili al pubblico. «Non siamo un museo, né una galleria» puntualizza il direttore del Lab di Google. «Abbiamo solo messo a disposizione di chi lo desidera un luogo d’incontro e formazione ». Il dibattito con gli esperti del settore è spesso acceso, polemico. «I conservatori di musei sono molto esigenti » riconosce Gaveau. Il lavoro degli ingegneri è più volte affinato, migliorato. Il software deve procedere per sottrazione. «Il nostro obiettivo — dice il manager Google — è cancellare il più possibile la tecnologia per valorizzare al massimo le opere». Un tempo esistevano i musei immaginari. Ora c’è la possibilità, grazie alla piattaforma, di creare una “galleria personale”, selezionando ai quattro angoli del mondo le opere preferite, riunendole tutte in un unico luogo virtuale. Che sia davvero questo il futuro, o la morte, dell’arte per come l’abbiamo conosciuta,nessuno ancora può dirlo.


Anche la Venaria Reale e l’Archeologico di Ferrara sono già in Rete
Dagli Uffizi a Palazzo Grassi “Così la cultura è globale”

FIRENZE C’è anche chi, della Rete, non ha avuto paura. E all’appello di Google Art ha risposto subito, e senza tentennamenti. Sul progetto di raccolta di immagini ad alta risoluzione delle opere e di tour virtuale dei più importanti musei mondiali hanno scommesso fin dall’inizio, e senza tentennamenti, gli Uffizi, la più visitata galleria italiana (oltre un milione e 875 mila le presenze nel 2013), entrata a far parte fin da febbraio 2011 della lista dei diciassette pionieri dell’iniziativa insieme alla Tate di Londra, al Metropolitan di New York e al Van Gogh Museum di Amsterdam. Un ruolo di apripista, quello dell’istituzione fiorentina, la quale, in virtù di un accordo tra il Mibac e l’azienda di Mountain View, ha aperto i propri corridoi e offerto ai tecnici di Google la propria consulenza sulla scelta delle collezioni da fotografare, le indicazioni sull’angolatura degli scatti e tutte le informazioni tecniche e storico-artistiche necessarie a corredo dell’operazione. Un esempio seguito, l’anno successivo, dai Musei Capitolini di Roma, entrati a far parte del progetto nell’aprile del 2012 e, successivamente, da Palazzo Grassi a Venezia, dalla Venaria Reale di Torino e dal Museo archeologico di Ferrara, tutti oggi visitabili totalmente o parzialmente, con un clic, dalla propria scrivania, grazie alla tecnologia Street View, la stessa usata da Google Maps e Google Earth.
Il direttore degli Uffizi, Antonio Natali, racconta di non aver avuto alcun dubbio: «Voglio che la Galleria sia al passo con i tempi», afferma, per poi spiegare: «Indipendentemente dal mio personale rapporto con la tecnologia, la mia concezione di museo è quella di un luogo il più aperto, democratico possibile. Questo non significa criticare le scelte e le perplessità di chi svolge il mio lavoro altrove, anche perché credo che, sull’opportunità finanziaria di far parte di un progetto come questo, debba essere il ministero competente a decidere. Per quanto mi riguarda — aggiunge però — sono convinto che un’iniziativa del genere abbia un valore educativo, oltre che di promozione. Sono sicuro che chiunque si trovi di fronte una sala come quella della Niobe o la Tribuna, da poco restaurate, non possa non aver voglia di venire a vederle dal vivo. E se questo, oltre che in un input culturale, si traduce in un vantaggio economico per lo Stato italiano, non posso certo disprezzarlo».
Della visita virtuale al museo fiorentino fanno parte, al momento, i due lunghi, iconici corridoi al secondo piano, e le sale attigue. Mancano, perché inaugurati dopo il 2011, i nuovi ambienti al Piano nobile, comprese le Sale cremisi dedicate al Manierismo fiorentino o quelle gialle del Barocco, ma in compenso fanno bella mostra di sé, per esempio, la Sala di Botticelli, quella di Leonardo, quella di Giotto e quella di Filippo Lippi, sede di alcune delle principali attrazioni della Galleria, a cominciare dalla celeberrima Primavera. Ai Capitolini, il tour virtuale non risparmia capolavori come l’Annunciazione di Garofalo, la cui fotografia, tra l’altro, è disponibile in qualità “giga pixel”, un’altissima risoluzione che permette ai fruitori di apprezzarne ogni minimo dettaglio, più di quanto sia possibile fare ad occhio nudo. Tra gli altri musei italiani, hanno aderito in parte al Google Art Project, fornendo non la possibilità di effettuare una vera e propria visita, ma scatti di tutte o di alcune delle opere più importanti delle proprie collezioni, anche Ca’ Pesaro, il museo Correr e il museo del Vetro di Murano a Venezia, la Fondazione Musei Senesi, il museo di Strada Nuova a Genova, il Diocesano e il Poldi Pezzoli di Milano e, sempre a Firenze, il museo di Palazzo Vecchio. Tra i grandi assenti, spiccano — almeno per il momento — Brera, la Reggia di Caserta, l’Archeologico di Reggio Calabria, Capodimonte.

Diversamente Italiano La lingua segreta che usiamo davvero


Lo studioso Enrico Testa ricostruisce la vicenda di un idioma parlato da “semicolti” 
a metà strada fra Dante e gli analfabeti ma che, per quanto povero, 
è utile alla comprensione reciproca

“La Repubblica“, 22 gennaio 2014


L’amministratore delegato che esordisce: «Innanzitutto vorrei fare una postilla»; il giornalista che dice «paventare» e intende «prospettare» e «schernirsi» al posto di «schermirsi»; l'innamorato che scrive su Facebook «Vorrei baciarti sulle tue dolcissime l'abbra»; il ministro dell'Istruzione che inciampa rovinosamente su un congiuntivo; i personaggi di Corrado Guzzanti e le persone reali (conduttori, politici, mafiosi, studenti) di cui sono la parodia. Tutti loro, tutti noi: che italiano parlano e parliamo? Forse Tommaso Landolfi, grande e coltissimo scrittore, lo avrebbe definito «italiano pidocchiale», come quello che in un suo romanzo del 1939 (Pietra lunare) uno studente universitario sente usare malamente dai suoi incolti famigliari. Solecismi, anacoluti, costruzioni per analogia, proposizioni sbilenche, che incominciano in un modo e finiscono in un altro, irruzioni del dialetto o della varietà regionale, parole mal scelte e peggio accozzate.
Un po' a sorpresa il linguista, e poeta, Enrico Testa non sarebbe d'accordo con la diagnosi. L'immagine della lingua «pidocchiale » si staglia proprio all'inizio del suo ultimo libro, ma nelle conclusioni una netta separazione viene posta fra le varianti più rozze dell'italiano del passato e quelle presenti. Queste sono sfacciate e degenerative e quello che dà il titolo al libro è invece L'italiano nascosto (Einaudi, pagg. 328) e generativo. Ma per fortuna il fulcro dello studio di Testa non è la deprecazione dei nostri tempi, bensì la riconsiderazione di cosa sia stata la lingua nei tempi andati.
Secondo l'ipotesi storiografica comunemente accettata (e anzi data spesso per pacifica), il volgare italiano è stato nobilitato da Dante, pulito e codificato come lingua letteraria da Petrarca, discusso nel Rinascimento e mantenuto come lingua dei colti, a fianco del latino, sino a Manzoni e poi all'Unità d'Italia. In questo quadro la vera unificazione linguistica avrebbe dovuto attendere la televisione. Testa si rifiuta con una certa nettezza di affiancare Mike Bongiorno all'Alighieri, fra i padri della lingua italiana, ma non sovverte del tutto questo modo di vedere le cose. La sua tesi centrale è che fra l'italiano dei colti (dotto, letterario e scritto) e i dialetti del popolo (incolti, pratici, orali) sia sempre esistito un italiano comune, «per quanto rozzo, povero e variegato». Una lingua senza alcuna mira estetica, riferita a circostanze molto concrete e rivolta a un interlocutore ben identificato. Italiano di mercanti, notai, mezzadri, artigiani, monaci e soprattutto monache di cui recano testimonianza lettere, diarie, scritti autobiografici, atti, cartelli, ex voto, scritte murali. A proposito di queste ultime, si può cogliere la continuità con il presente: «Un altro segno della diffusione dell’italiano è il proliferare a Roma di cartelli infamanti: scritti, epitaffi (talvolta in versi e spesso osceni) affissi pubblicamente e anonimamente per colpire qualcuno (soprattutto i potenti) descrivendone colpe, delitti o difetti» (da Pasquino a Twitter, ogni alfabetismo fa emergere il rimosso ostile del discorso popolare).
È la lingua dei «semicolti». Nati analfabeti, sono riusciti a entrare a contatto con l'insegnamento dell'italiano, per esempio tramite le scuole religiose (Testa dedica un capitolo a catechismo, predicazione e alfabetizzazione da parte della Chiesa), e hanno frequentato i libri, a diversi livelli di fruizione (dalla lettura vera e propria alla consultazione o all'ascolto di letture ad alta voce). I popolani trecenteschi che deturpano i versi di Dante nelle novelle del Sacchetti testimoniano quanto precoci fossero i contatti fra cultura alta e supposta incultura. Nel Cinquecento gli stampatori provvedevano edizioni povere, «in ottavo» dei libri che stampavano lussuosamente e«in quarto» per il pubblico di ceto alto. Praticamente, i tascabili: «onde hora tutti possono imparare», si rallegrava il poligrafo Tommaso Garzoni nel 1587. Invisa alla Chiesa, la letteratura cavalleresca incendiava fantasie popolari.
Di questo italiano nascosto si sono accorti gli stranieri prima che gli italiani. Il primo a studiarla fu il filologo austriaco Leo Spitzer. Durante la Grande Guerra era incaricato di censurare le lettere dei prigionieri italiani: la corvée militare non lasciò insensibile l'animus del ricercatore. Le trascrisse e nel dopoguerra pubblicò un'antologia di questi campioni di lingua né colta né analfabeta. Ma già Stendhal scriveva: «La lingua scritta d'Italia è anche lingua parlata a Firenze e Roma». E Ugo Foscolo, nell'esilio londinese definiva questo italiano comune («tal quale tanto da farsi intendere») una «lingua d'espediente». Quale lingua avrebbero dovuto usare i predicatori vaganti, per parlare ai fedeli di zone lontane dalla loro nativa? Non certo il latino. E i mercanti? E le monache costrette dai superiori a mettere per iscritto le loro visioni mistiche?
Se una lingua serve per comunicare con gli altri, deve mettere in comunicazione anche l'alto e il basso della società. Il servo di Vittorio Alfieri, Francesco Elia, scriveva ai ricchi parenti dello scrittore per informarli della vita che egli conduceva nei suoi viaggi: «Abiamo fatto più miglia per indare in una picola isola deserta, dove mi fece ancora suonare molto il violino, e faceva belisimo tempo, che in diffetto di questo non so come se ne saresimo tiratti noj due soli a remare, che sul principio indava molto male...». Ma Testa trova tracce di italiano comune o «pidocchiale» persino negli scritti di «backstage» di squisiti maestri dell'italiano letterario: nelle lettere di Baldassar Castiglione al suo fattore, persino in quelle di Pietro Bembo, il più classicista dei teorici della lingua, o in quelle di Ludovico Ariosto, rigettate perché «tirate di fretta» da Benedetto Croce, e a Testa utili per il medesimo motivo. Sono le «lettere rubate» dell'italiano comune: nascosto, e sotto gli occhi di tutti.

martedì 21 gennaio 2014

Claudio Abbado



W. A. Mozart, Don Giovanni

Ruggero Raimondi (Don Giovanni) 
Cheryl Studer (Donna Anna) 
Karita Mattila (Donna Elvira) 
Marie McLaughlin (Zerlina) 
Anatoli Kotscherga (Commandatore) 
Lucio Gallo (Leporello)
Carlos Chausson (Masetto) 

Vienna Philharmonic Orchestra

dirige 

Claudio Abbado

domenica 19 gennaio 2014

Il supplizio del giovane Rimbaud divenne la verità di un veggente


Walter Siti

“La Repubblica“, 19 gennaio 2014
Mon cœur couvert de caporal :
Ils y lancent des jets de soupe
Mon triste coeur bave à la poupe :
Sous les quolibets de la troupe
Qui pousse un rire général,
Mon triste coeur bave à la poupe,
Mon coeur couvert de caporal.

Ithyphalliques et pioupiesques
Leurs quolibets l’ont dépravé.
Au gouvernail, on voit des fresques
Ithyphalliques et pioupiesques.
O flots abracadabrantesques
Prenez mon cœur, qu’il soit lavé.
Ithyphalliques et pioupiesques
Leurs quolibets l’ont dépravé !

Quand ils auront tari leurs chiques
Comment agir, ô cœur volé ?
Ce seront des hoquets bachiques
Quand ils auront tari leurs chiques
J’aurai des sursauts stomachiques
Moi, si mon coeur est ravalé:
Quand ils auront tari leurs chiques,
Comment agir, ô cœur volé ?

Arthur Rimbaud, Le Cœur Volé
Mai 1871

Il mio triste cuore sbava a poppa,
Il mio cuore è pieno di trinciato:
Gli lanciano schizzi di zuppa,
Il mio triste cuore sbava a poppa:
Sotto i lazzi della truppa
Che scoppia in una risata generale,
Il mio triste cuore sbava a poppa,
Il mio triste cuore è pieno di trinciato!

Itifallici e soldateschi
I loro lazzi l’han depravato!
Al timone si vedono affreschi
Itifallici e soldateschi.
Oh flutti abracadabranteschi,
Prendete il mio cuore, che sia lavato!
Itifallici e soldateschi,
I loro lazzi l’han depravato!

Quando avranno finito quelle cicche,
Che fare, o cuore rubato?
Ci saranno bacchici rutti
Quando avranno finito le cicche:
Avrò un voltastomaco
Se il mio cuore triste è svilito.
Quando avranno finito quelle cicche,
Che fare, o cuore rubato?

Arthur Rimbaud, Il cuore rubato
Maggio 1871

Non è che non voglia dire niente», scrive Rimbaud al suo professore di liceo inviandogli per lettera questa poesia; mette le mani avanti, teme che il testo possa passare per un giochino goliardico, con quei termini buffi o inventati e quel ritmo da filastrocca. Così infatti la prenderà il professore, che gli rimanderà indietro una parodia con la stessa metrica; il triolet era una forma medievale (strofe di otto versi su due sole rime, in cui il quarto verso ripete il primo mentre il settimo e l’ottavo ripetono i primi due) ripresa recentemente dai parnassiani, ultimo grido della moda poetica. Rimbaud non ha ancora compiuto diciassette anni, scrive poesie da quando ne aveva quindici e frigge dal desiderio di essere pubblicato. Questo testo lo invia anche a Paul Demeny, un poeta amico del suo professore, e a lui lo presenta come un esercizio anti-romantico, una fantasia bizzarra composta in antitesi ai cuoricini e alle sviolinate; vuole mostrarsi cinico, scafato, ma da adolescente aggiunge «non si arrabbi». Sa di avere in mano una bomba, la trascrizione di un’esperienza che quei due letterati non si sognano neanche; la superiorità che sente su di loro è tale che non vale la pena di dichiararla. Molti adolescenti snobbano gli adulti, ma in questo caso lui ha ragione.
Da quando ha sedici anni Rimbaud scappa di casa: la madre è anaffettiva, tratta il figlio con severità ottusa e lui parte da Charleville per Parigi ma non ha i soldi per il biglietto, sicché lo riportano a casa; allora riparte a piedi. Arriva a Parigi nel mese che precede lo scoppio rivoluzionario della Comune, per dormire si rifugia in una caserma. È un biondino di sedici anni curioso di tutto, i soldati sono eccitati e alticci, succede l’irreparabile e lo violentano. Quando lo ha inviato al professore, il titolo di questo testo eraIl cuore suppliziato, a Demeny l’ha spedito come
Il cuore del pagliaccio; solo per Verlaine, ricopiandoglielo, troverà il titolo Il cuore rubato (in francese volé, a un passo da violé, violentato). Trasforma il trauma in una recita grottesca: il cuore che sbava da dietro è l’osservazione precisa, crudele, dell’avvenuto stupro. Il “caporal” è il tabacco di pessima qualità che masticavano i militari: sono gli sputi, le derisioni, le cicche che gli danno il voltastomaco. Eppure non si tira indietro da niente, l’ottonario non dimentica una sillaba e gli occhi restano asciutti — è già il ragazzo che due anni dopo si proclamerà «della razza di chi cantava sotto i supplizi» e condannerà la vita come «una farsa universale».
Qualche accademico prudente dà al testo un’interpretazione simbolica: la nave sarebbe la società provinciale che il giovane Rimbaud detesta, la truppa sarebbero i buoni borghesi e lo sbavare a poppa sarebbe semplicemente il protagonista che vomita tutto il suo disgusto. Troppo pallido, tutta l’energia va perduta. Qui a essere un naviglio è lui stesso, come pochi mesi dopo sarà un battello ubriaco, ansioso che l’acqua penetri il suo scafo per lavarlo. Nelle caserme parigine era raffigurato lo stemma della città, un vascello con sotto il motto fluctuat nec mergitur; il latino può essere l’abracadabra dei flutti, da lì può venire la metafora marinaresca, i graffiti sporcaccioni dei soldati sulla parete dello stemma come affreschi accanto al timone. I “pioupiou” sono le reclute, o spine: inventando un aggettivo canagliesco che li riguarda si pone sul loro piano di scherzi, quasi sta dalla loro parte; musicalmente si identifica con gli aggressori senza smettere di sentirsi vittima — lo schifo del mondo (a Parigi viene denunciato perché scoperto a scrivere «merda a Dio» su una panchina) si confonde con una voglia oscura di autodistruzione; con un estremismo esistenziale e formale che può essere paragonato solo ai più violenti degli odierni gangsta rapper.
Ci sono dei testi-limite, dei testi-spartiacque;nella stessa lettera in cui gli spedisce questo, Rimbaud confessa al suo professore di volersi rendere veggente— «si tratta», scrive, «di giungere all’ignoto mediante lo sregolamento di tutti i sensi» e aggiunge «io è un altro». Come non vedere che proprio il trauma raccontato qui (e proprio perché ha saputo tenergli testa col ritmo) provoca in lui una scissione psichica, spingendo la sua poesia verso l’allucinazione e la droga? La visionarietà del Rimbaud maggiore sarà sempre materialista come solo certi mistici sanno esserlo: via verso un altro mondo perché l’esistente non ci merita ma senza spiritualismi nebulosi — concreti e brutali nella fantasia come si è saputo essere fantasiosi nella brutalità. La domanda finale, in quella caserma parigina, è stata «come agire?»; per lui la poesia è azione, ribellione spinta fino al bisogno di cambiare la vita.La lirica, presa alla lettera, conduce a un dissidio insanabile con la realtà, il sogno mostra la corda e la vita si vendica: spogliata dei suoi veli ambigui ebbene sì, «la poesia è una cretinata». Rimbaud a diciannove anni avrà già bruciato l’intercapedine di malafede che permette alla poesia di esistere e di volare, non scriverà più. Peregrinerà per l’Europa esercitando i mestieri più strani, lo scaricatore di porto e l’interprete in un circo, poi in Africa sarà commerciante e trafficante d’armi. Tornato in Francia con un tumore complicato dalla sifilide, muore a trentasette anni. Il mondo ha vinto, la poesia si è suicidata per eccesso di onestà.