domenica 30 dicembre 2012

The information


Divulgare la scienza, in un mondo dominato dalla tecnica, 
è uno dei temi culturali del futuro

Ian Tucker

"La Repubblica",  30 dicembre 2012

“Molte idee sono difficili anche per noi Per capirle facciamo domande idiote a persone intelligenti e le traduciamo per tutti” “Pochi accademici sanno comunicare l’essenza del loro pensiero. Per evitare l’esoterismo bisogna saper distillare gli elementi importanti”
Quali devono essere le qualità di un bravo divulgatore scientifico in un mondo dominato dalla tecnologia? Come si fa a spiegare cose complesse in modo semplice? Per saperlo abbiamo coinvolto, prima della cerimonia per l’assegnazione del Winton Prize, premio per il miglior libro scientifico dell’anno secondo la Royal Society di Londra, cinque dei sei finalisti: Steven Pinker, James Gleick, Brian Greene, Lone Frank e Joshua Foer, tra le maggiori autorità in questo campo.
Il tema è centrale, nella nostra società. Man mano che la scienza scopre sempre più cose sul nostro universo, le teorie e le scoperte diventano progressivamente più tecniche e infarcite di dati. Tanto più difficile e importante diventa quindi il compito di scienziati e divulgatori, che devono trasformare questo complesso lavoro in una prosa chiara e accessibile.
Perché è importante la divulgazione scientifica?
Joshua Foer:
Quando fu fondata la Royal Society, nel 1660, era ancora possibile per una persona istruita, un erudito, sapere qualcosa su tutti gli argomenti. Oggi non è possibile. Steven Pinker è un grande esperto di scienze cognitive, ma scommetto che non è in grado di spiegare come hanno scoperto il bosone di Higgs.
Brian Greene:
Me l’ha spiegato proprio poco fa e direi che se l’è cavata piuttosto bene.
JF:
Questo fa capire perché ci sia bisogno più che mai di persone brave a fare da interpreti. Quello che facciamo diventa sempre più importante perché la scienza diventa sempre più esoterica e servono persone che aiutino tutti a capirla.
Quando scrivete, qual è il livello di difficoltà che considerate accettabile per i vostri lettori?
Steven Pinker:
Prima di scrivere il mio primo libro di scienze cognitive una redattrice editoriale mi diede un consiglio. Mi disse che il problema che hanno molti scienziati e professori quando scrivono per il grande pubblico è che sono sussiegosi: danno per scontato che i lettori non siano troppo intelligenti, che il loro pubblico sia composto da camionisti, spennapolli e nonnine che lavorano a maglia, perciò scrivono come se si rivolgessero a un bambino piccolo, parlano con condiscendenza. Questa redattrice mi disse: «Devi partire dall’idea che i tuoi lettori sono intelligenti quanto te, curiosi quanto te, ma non sanno quello che sai tu e il tuo compito è dirgli quello che non sanno». Io sono favorevole a far fare un po’ di fatica al lettore, come io faccio la fatica di fornirgli tutto il materiale di cui ha bisogno per dare senso compiuto a un’idea.
Lone Frank:
Tantissimi ti dicono di non usare termini tecnici complicati, ma si può spiegare tutto alle persone se lo si fa scrivendo bene e usando parole semplici.
Vi è mai capitato di omettere qualcosa perché lo trovavate troppo difficile da spiegare?
BG:
Mai? Sempre. Sono d’accordo, in linea di principio, che tutto sia spiegabile, ma provate a spiegare le simmetrie nella geometria algebrica a un pubblico di non addetti ai lavori. Buona fortuna. Ci sono cose che sono davvero troppo difficili da comprendere se non si ha una formazione tecnica, ma l’abilità sta nel lasciare quel tanto che basta dell’essenza dell’argomento trattato da non svuotarlo del suo significato e rendergli giustizia.
JF:
Alla fin fine tutte le persone presenti in questa stanza per certi versi sono degli intrattenitori. Siamo in competizione con blog, videogiochi, film per catturare l’attenzione dei lettori. Io cerco di raccontare storie capaci di portare le persone dal posto A al posto B, non semplicemente nel senso di un tragitto narrativo, ma anche nel senso della comprensione dell’argomento. Farsi condurre in un viaggio del genere può rivelarsi straordinariamente gratificante.
James Gleick:
Non so se suonerà come una confessione o come una sbruffonata, ma spesso ci sono certi argomenti di cui scrivo che io stesso a stento riesco a capire. Scrivo libri su cose che mi interessano, racconto storie che considero importanti per la nostra cultura, e le cose scientifiche hanno sempre più peso.
L’informazione per certi versi non è un libro scientifico, ma scrivendolo ho dovuto barcamenarmi con cose parecchio tecniche. Perciò, per quanto mi riguarda, per capire queste cose spesso sono costretto a fare un sacco di domande idiote a persone intelligenti.
Nella mente della maggior parte delle persone, l’apprendimento è sinonimo di fatica. Vi capita di pensare che se non è difficile non è scienza?
SP:
Vi racconto un aneddoto che può far capire la differenza fra la mentalità dello scienziato e quella dello studioso di discipline umanistiche. Una volta andai a una conferenza a cui partecipavano scienziati e umanisti. Alla fine di una chiacchierata sull’analisi di un dipinto, l’oratore disse: «Bene, spero di aver reso più complicata la materia in oggetto sotto diversi aspetti». Mi venne da pensare che era questa la differenza fra uno scienziato e un critico, che lo scienziato avrebbe detto: «Spero di aver reso più semplice la materia in questione sotto diversi aspetti».
LF:
Tantissimi lettori di questi tempi si aspettano che tutto sia facile: non c’è nulla per cui siano disposti a faticare, e non accettano di leggere un libro se questo libro è appena un po’ difficile: lo buttano via e trovano qualcos’altro.
In questo momento sembra che ci sia un mini-boom dei libri scientifici. Cosa ne pensate?
BG:
Penso che ci siano sempre più persone desiderose di sapere veramente che cosa succede nel mondo della scienza.
SP:
Teniamo anche conto che noi persone istruite viviamo sempre di più in un mondo definito dalla scienza. La gente non crede che il mondo sia stato creato 5.000 anni fa, almeno non il tipo di persone che cerchiamo di convincere a comprare i nostri libri. Le persone istruite accettano il fatto che ci siamo evoluti dai primati, che la nostra vita mentale dipende dal funzionamento del nostro cervello, che siamo soggetti a illusioni, superstizioni e pregiudizi. Sono interrogativi esistenziali profondi, ed è la scienza a sollevare questi interrogativi e dar loro una risposta.
JG:
È chiaro che noi attribuiamo valore alla scienza, è chiaro che noi siamo consapevoli che è la scienza che spiega le domande a cui vogliamo assolutamente trovare una risposta. La cosa che più spaventa è che negli Stati Uniti (il Paese dove quattro di noi vivono) vediamo affermarsi la tendenza opposta: improvvisamente ho l’impressione che le persone siano sempre più ostili all’idea che sia la scienza quella a cui bisogna rivolgersi per trovare la risposta a queste domande.
SP:
Sì, probabilmente è vero che uno dei due grandi partiti politici in America si mostra fieramente ostile alla visione scientifica del mondo. Ma secondo me non è il modo migliore per vedere la faccenda, perché quando devono cercare un giacimento di petrolio queste persone fanno comunque affidamento sulle teorie sull’età della Terra che tutti consideriamo valide; quando si ammalano vanno dal dottore e si preoccupano dell’evoluzione della resistenza ai farmaci, proprio come facciamo noi. Non sono Amish, non è gente che ritorna a coltivare la terra. In un certo senso hanno già accettato il mondo della scienza, ci sono solo alcune questioni fortemente simboliche, che definiscono l’identità morale e politica di un individuo, su cui non sono disposti a discutere, e io penso che questo sia molto diverso dall’ignoranza scientifica. Uno studio fatto da un ex specializzando nel mio dipartimento, a Harvard, dimostrava che le persone che credono nella teoria dell’evoluzione non ne hanno una conoscenza migliore di quelle che la contestano. Non dobbiamo confondere la moralizzazione di un numero limitato di temi controversi con un’ostilità generale verso la visione scientifica del mondo.
La divulgazione utilizza spesso analogie. È meglio cavarsela con un’analogia comprensibile ma magari imperfetta o descrivere la faccenda nel dettaglio ma con il rischio di risultare incomprensibili?
SP:
L’analogia possiede una forza straordinaria. Si potrebbe dire che a parte il mondo fisico della caduta dei gravi la nostra comprensione delle cose passa sempre per l’analogia. Se guardate il linguaggio, in pratica è una metafora continua. Ma c’è una differenza fra la metafora letteraria e l’analogia scientifica, e sta nel fatto che in una metafora letteraria più collegamenti ci sono fra la figura retorica e la cosa concreta più la metafora è bella e ricca, mentre nell’analogia scientifica se ci sono troppi rimandi differenti al mondo reale vuol dire che è un’analogia infelice. Le analogie devono essere scelte e spiegate con cura. Bisogna mettere bene in evidenza al lettore, punto per punto, la corrispondenza fra la cosa concreta che si sta spiegando e l’analogia. Essere sballottati da un’analogia all’altra senza sapere quale è il punto, questo rende un’analogia fuorviante.
Ho letto da qualche parte che le analogie sono come soprabiti della misura sbagliata: le parti più importanti sono coperte, ma qualcosa può sporgere e intralciare il movimento.
JG:
Non sono d’accordo! Qualunque cosa può essere fatta male, ma sono anche convinto che l’analogia sia il modo in cui noi esseri umani impariamo ed esploriamo il nostro mondo. È vero, da un certo punto di vista, che un fisico vi dirà che il linguaggio della natura è la matematica, ma sono anche convinto che qualsiasi fisico, quando si crea la sua comprensione del mondo, pensa automaticamente mediante analogie. Qualunque modello scientifico o teorico è una sorta di analogia, il che è come dire che è imperfetto, fallace per definizione e come minimo incompleto. È un modello, non è il mondo in sé e per sé.
Gli autori scientifici sono reporter alle frontiere della conoscenza o dell’immaginazione?
LF:
Tantissime persone non si rendono conto che quello che fa la scienza influenza concretamente il loro modo di pensare. Pensano che la cultura nasca dalla filosofia, dalle opere teatrali e roba del genere, e che la scienza produca solo gadget. Io voglio cercare di far vedere come la conoscenza scientifica influenza la nostra cultura.
BG:
Penso che sia fondamentale che i bambini si rendano conto che la scienza implica la stessa creatività di qualunque altra disciplina definita creativa.
JG:
Penso che tutti noi che siamo seduti a questo tavolo non scriveremmo di scienza se condividessimo l’idea che il processo scientifico sia qualcosa di mnemonico e ripetitivo. Tutti e cinque abbiamo concentrato la nostra attenzione sull’immaginazione e la creatività, non solo come elementi occasionali accidentali del processo scientifico, ma come le cose che fanno funzionare questo processo, che lo rendono eccitante.
SP:
L’unico appunto che mi viene da fare a tutto questo è che nella scienza non basta essere immaginativi e creativi, bisogna anche dire cose esatte. Ci sono un mucchio di persone piene di immaginazione di cui la storia non ha conservato traccia, perché i loro bellissimi ed eleganti schemi non trovavano riscontro nella realtà.
Gli scienziati sono i peggiori nemici di se stessi quando si tratta di comunicare il proprio lavoro?
BG:
All’Università di Stony Brook c’è un nuovo istituto che nel programma di studi per gli specializzandi delle facoltà scientifiche prevede anche lezioni di comunicazione scientifica. A me sembra ragionevole pensare che se le persone riuscissero a comunicare meglio, anche tra scienziati e scienziati, più liberamente, in modo più chiaro, si metterebbero in moto più cose.
JF:
Quello che dovrebbe fare un libro o un articolo divulgativo è distillare, trovare gli elementi essenziali e comunicarli. Non è semplicemente un atto narrativo, è un atto del pensiero e richiede una chiarezza comunicativa da cui non solo gli scienziati, ma anche gli accademici in generale si sono allontanati: e il mio parere è che questo rende meno chiaro il loro pensiero.
(Traduzione di Fabio Galimberti) © /Guardian News & Media Ltd

Chi dice che il tempo scorre?


Carlo Rovelli

"Il Sole 24 Ore", 30 dicembre 2012

Ma il tempo scorre davvero? La domanda sembra paradossale, ma la settimana scorsa si è tenuta a Città del Capo una vivace conferenza interdisciplinare centrata su questa domanda, mettendo a confronto riflessioni sulla natura del tempo in un arco di discipline che va dalla fisica alla filosofia, dalla psicologia all'antropologia. Il titolo dell'incontro, organizzato da Huw Price, filosofo dell'Università di Cambridge e grande esperto di filosofia del tempo, e dai membri del «Centro di ricerca sul Tempo» dell'Università di Sydney, era la domanda: «Abbiamo bisogno di una fisica dello "scorrere del tempo"?». Il dialogo fra le discipline si è rivelato fluido e costruttivo, confermando come l'auspicato avvicinamento fra scienze della natura e scienze dell'uomo sia bene in corso nel mondo. Non sono mancate divergenze, ma la conferenza ha mostrato ancora una volta che discipline molto diverse possono parlare un linguaggio mutualmente comprensibile e offrire elementi di risposta l'una ai problemi dell'altra, e ha addirittura portato a una insospettata convergenza: dopo una settimana di animate discussioni è emerso un certo consenso su una risposta negativa alla domanda del titolo: «No, non ci serve una fisica fondamentale del "passaggio del tempo"». Un po' come dire: «il tempo, in fondo, non passa davvero»...
Il problema di cosa sia il fluire del tempo nasce nella fisica classica ed è stato sottolineato dai filosofi fra il XIX e il XX secolo, ma diventa assai più acuto con la fisica moderna. La fisica descrive il mondo per mezzo di formule che dicono come variano le cose in funzione della «variabile tempo». Ma si possono anche scrivere formule che descrivono come variano le cose in funzione della «variabile posizione», oppure come varia il gusto di un risotto in funzione della «variabile quantità di burro». Ora la quantità di burro o la posizione nello spazio non "scorrono", mentre il tempo sembra "scorrere". Da dove viene la differenza? Un altro modo di porre il problema è chiedersi cosa sia il "presente". Diciamo che le cose che esistono sono quelle nel presente: il passato non esiste (più) e il futuro non esiste (ancora). Ma nella fisica non c'è niente che corrisponde alla nozione di "adesso". Confrontate "adesso" con "qui". "Qui" designa il luogo dove sta chi parla: per due persone diverse, "qui" indica due luoghi diversi. Anche "adesso" designa l'istante in cui la parola viene detta. Ora nessuno si sognerebbe di dire che le cose "qui" esistono, mentre le cose che non sono "qui" non esistono: perché allora diciamo che le cose che sono "adesso" esistono e le altre no? Il presente è qualcosa di oggettivo nel mondo, che "scorre" e fa "esistere" le cose l'una dopo l'altra, oppure è solo soggettivo come "qui"?
La questione può sembrare cervellotica. Ma la fisica moderna l'ha resa scottante, perché la relatività di Einstein ha mostrato che la nozione di "presente" è addirittura mal definita. Chiedersi se una cosa avviene "proprio ora" ha significato solo per cose vicine nello spazio; chiedersi cosa stia succedendo "ora" su una galassia lontana è senza significato, come chiedersi cosa succede "qui" a Pechino. Gli eventi su una galassia lontana si dividono in tre gruppi: quelli per noi "passati", di cui vediamo gli effetti, quelli "futuri", sui quali possiamo influire, e un gruppo intermedio di eventi né passati né futuri, che include però milioni di anni sulla galassia. Per le cose vicine, questo lasso di tempo «né passato né futuro», è molto breve (un nano-secondo a qualche metro da noi e un milli-secondo a New York), quindi non ci rendiamo conto dello «spessore del presente» che alle nostre distanze è più piccolo della nostra soglia di percezione. Ma lo «spessore del presente» esiste, e mostra che l'idea intuitiva di "presente", come insieme degli eventi che accadono «ora nell'universo», è solo una limitatezza delle nostre percezioni. Il presente come lo concepiamo di solito, non esiste.
Cosa dedurne? Fisici e filosofi sono arrivati alla conclusione che l'idea di un presente dell'universo è un'illusione, e lo "scorrere" universale del tempo ha carattere illusorio. In una lettera commovente scritta alla vedova quando muore il suo grande amico italiano Michele Besso, Albert Einstein scrive: «Michele è partito da questo strano mondo, un poco prima di me. Questo non significa nulla. Le persone come noi, che credono nella fisica, sanno che la distinzione fra passato, presente e futuro non è altro che una persistente cocciuta illusione». L'alternativa è l'immagine dell'«universo blocco»: passato, presente e futuro dell'universo rappresentati in un unico «blocco». Nel blocco, il significato della parola "adesso" è come il significato di "qui": solo il particolare punto in cui la parola viene pronunciata. Piuttosto che un tempo che "scorre", siamo noi stessi, o meglio la nostra coscienza, ad "arrampicarsi" pian piano su per una linea dentro l'universo blocco, come un tarlo che scava il tronco di un albero.
Ma è davvero così? Non manca qualcosa che spieghi il fatto che il tempo "scorre", "passa", "fluisce"? Lo scorrere del tempo è palese per ciascuno di noi: i nostri pensieri e il nostro parlare esistono nel tempo, la struttura stessa del nostro linguaggio richiede il tempo (una cosa "è", oppure "era", oppure "sarà"). Possiamo immaginare un mondo senza colori, senza materia, anche senza spazio, ma non senza tempo. È Heidegger che ha espresso con forza questo nostro «abitare il tempo». Possibile che il fluire del tempo che Heidegger pone come primitivo, sia assente dalla descrizione fondamentale del mondo? Alcuni filosofi, tra i quali i più devoti heideggeriani, ne concludono che la fisica non è capace di descrivere gli aspetti più fondamentali del reale, e la squalificano come un modo di conoscenza fuorviante. Ma troppe volte in passato ci siamo resi conto che sono le nostre intuizioni immediate a essere sbagliate: se ci fossimo attenuti a esse, penseremmo ancora che la Terra sia piatta e il Sole le giri intorno. Le intuizioni si sono evolute sulla nostra esperienza limitata. Quando guardiamo un po' più lontano, scopriamo che il mondo non è come ci appare: la Terra è rotonda e a Città del Capo hanno i piedi in su e la testa in giù. Fidarsi delle intuizioni immediate, più che dei risultati di una disamina collettiva razionale, attenta e intelligente, non è saggezza: è la presunzione del vecchietto che si rifiuta di credere che il grande mondo fuori dal paesino dove vive possa essere diverso da quello che lui ha sempre visto.
Ma allora da dove viene la vivida esperienza dello scorrere del tempo? La conferenza di Città del Capo ha offerto articolati elementi di risposta, combinando pezzi del puzzle provenienti da discipline diverse. Gli psicologi hanno puntato il dito sulla percezione diretta del fluire, per esempio quando vediamo il movimento. Le lancette di un orologio che segnano ore, minuti e secondi si muovono tutte, ma la lancetta dei secondi, in più, la vediamo muovere. Ma la percezione, insegnano gli studi sui neuroni, è il risultato di una ricostruzione complessa all'interno del nostro cervello, non un'esperienza diretta. Un contributo cruciale viene dagli psicologi dell'infanzia e dagli studi di antropologia e linguistica. I primi esplorano il formarsi dell'organizzazione temporale dell'esperienza adulta, nei bambini intorno ai quattro e cinque anni. I secondi, sottolineano come le nozioni di tempo siano profondamente diverse in culture lontane. Chris Sinha, dell'Università di Lund in Svezia, ha scoperto che la popolazione degli Amondawa, in Amazonia, parla una lingua in cui non esiste una parola che traduce "tempo", e in cui l'idea di un "tempo" in sé, distinto dagli avvenimenti, non esiste. Queste ricerche convergono nell'indicare che la percezione del tempo, lungi dall'essere esperienza primaria e universale, sia piuttosto una ricca costruzione sociale, cresciuta lentamente nella storia, influenzata per esempio dall'introduzione di calendari e orologi. La nostra nozione di tempo è un potente «strumento cognitivo culturale», per mezzo del quale strutturiamo il nostro vivere comune, prima di essere esperienza diretta.
Ma la possibilità stessa di avere tale strumento non richiede che esista qualcosa di fisico a cui il fluire del tempo faccia riferimento? Un'idea sulla quale si sono trovati a convergere diversi interventi a Città del Capo è che il fluire del tempo emerga come nozione fisica, ma nell'ambito della termodinamica, invece che nelle leggi fondamentali. I fenomeni termodinamici (temperatura, calore, equilibrio...) distinguono passato e futuro: il calore fluisce dai corpi caldi a quelli freddi e non viceversa. La fisica della fine del XIX secolo, e in particolare il genio di Boltzmann (morto suicida perché le sue idee non erano state prese sul serio) hanno mostrato che questi fenomeni sono statistici, appaiono quando si considerino sistemi con tantissime componenti (come l'aria, fatta di miriadi di molecole). Un termometro "vede" solo un valore medio dei movimenti delle molecole e la specificità dei fenomeni termodinamici nasce da questo "fare la media". Questa potrebbe essere la chiave per il mistero del tempo. Il "presente" non esisterebbe in modo oggettivo più di quanto non esista un "qui" oggettivo, ma le interazioni microscopiche del mondo fanno emergere fenomeni temporali per un sistema (come noi stessi) che interagisce solo con medie di miriadi di variabili. In qualche modo, certo ancora poco chiaro, la nostra coscienza si costruisce su questi fenomeni. A una vista acutissima il tempo "non scorre" e l'universo è un blocco di passato presente e futuro, ma noi esseri coscienti abitiamo il tempo perché vediamo solo un'immagine sbiadita del mondo; in questo sfocamento del mondo nasce la nostra coscienza dello scorrere del tempo.
Chiaro? No, certo. Molto rimane da capire, per antropologi e psicologi, per le scienze cognitive che cercano di sciogliere il nodo di comprendere questa incredibile macchina che è il nostro cervello, per i fisici che vogliono capire l'emersione termodinamica del tempo, per i filosofi che cercano di porre ordine nel guazzabuglio e mettere a nudo errori e ingenuità logiche di questo o di quello. Ma il comune terreno fornito dall'adesione a un elementare naturalismo – il rifiuto di idee contraddette dalla nostra conoscenza del mondo – permette a saperi diversi di parlarsi, e fare passi avanti verso la comprensione. Scrivendo questo resoconto della conferenza durante il lungo volo notturno di ritorno da Città del Capo, mentre il resto dei passeggeri dorme, e ripensando agli interventi e ai dibattiti vivaci, mi sembra che qualcosa del mistero si stia diradando. L'Africa scorre oscura sotto il mio oblò. Quell'Africa dalla quale la nostra specie è partita centomila anni fa per esplorare il mondo e imparare a guardare più lontano. Chissà se uno dei nostri antenati, alzandosi e mettendosi in cammino verso gli aperti spazi del nord, abbia guardato il cielo, e abbia mai potuto immaginare che un suo lontano nipote si sarebbe interrogato sulla natura del tempo, volando in quel cielo.

Galileo e la scoperta del cannocchiale


La favola del cannone di cristallo che mandò in crisi la Serenissima

Giulio Giorello

"Corriere della Sera", 29 dicembre 2012

L'antefatto della nostra storia tratta di una nobildonna di Venezia e del «suo infinito amore per un maestro vetraio, il quale, discendendo dagli dei, aveva imparato a fondere le stelle del firmamento e a portarle in terra, per illuminare le notti senza luna e un giorno aveva illuminato la sua vita, dandole un figlio».
Poi la vicenda del protagonista di Vetro, romanzo di Giuseppe Furno che Longanesi manda in libreria il 2 gennaio, si snoda tra mille colpi di scena nella Venezia della seconda metà del Cinquecento, quando la marea della potenza della Serenissima ha passato il culmine della fortuna, mentre il fasto dei dogi ancora nasconde il declino della «città malata», come la chiama sprezzantemente il pontefice romano. Andrea Loredan è il figlio della gran dama, conteso tra la pratica della legge, che applica con intransigenza contro la prepotenza dei corrotti, e il fascino delle «metamorfosi del vetro», modellato in infinite forme bellissime dagli artefici di Murano. Assiste all'incendio dell'Arsenale (a suo tempo cantato da Dante e che sarà ancora celebrato da Galileo all'esordio dei suoi Discorsi), appiccato non da agenti turchi ma da uno sprovveduto veneziano. Traditore suo malgrado, viene degradato lui stesso da patrizio a galeotto (un po' come il grande Dago del fumetto di Robin Wood) e fa l'eroe nel caos ribollente del «macello» delle Curzolari, evento più noto come battaglia di Lepanto (1571). Vi trova la salvezza, e viene premiato dall'amore della donna per cui si è giocato la carriera, strappandola agli artigli dell'Inquisizione.
L'istituzione non si limita a straziare i corpi. Colpisce le anime, perché mira a distruggere qualunque libro che porti in sé i germi del dissenso. Loredan abbandona la sua fede in legge e ordine mentre si batte per difendere la biblioteca segreta della madre, che contiene non solo i volumi proibiti degli «eretici», da Erasmo a Calvino, ma persino una copia del Corano e, soprattutto, le esoteriche ricette per domare il «drago delle fornaci», ovvero il fuoco da cui sorge il vetro.
Come racconta Furno, alla fornace, strumento dell'arte antica, si affianca il torchio dello stampatore, congegno principe della modernità: «Nei libri non abbiamo mai cercato la verità — dichiara uno dei personaggi chiave del libro —, ma la libertà». Anzi, qualsiasi libro va difeso, non foss'altro «per dare al falso pari dignità del vero». Prima che qualcuno oggi, e non nel 1570 o giù di lì, dia a Furno o a certi personaggi del suo Vetro la patente di «relativista», è bene ricordare che è il diritto all'errore che ha consentito insieme la ricerca scientifica e la sperimentazione artistica. Come diceva un quasi contemporaneo di Andrea Loredan, il grande Francesco Bacone, è meglio cominciare da una teoria falsa che dalla mera confusione mentale. Ma ciò comporta la curiosità tutta mondana per i corpi — terrestri o celesti che siano — che è anatema per gli inquisitori di ieri come per i fondamentalisti di oggi.
E qui c'entra anche il vetro: «Avete visto Venere e Giove, ma con la stessa facilità si possono osservare le cose sulla Terra. Proprio qui, dal campanile, scorgemmo le vele nel golfo di Venezia, a trentacinque miglia di distanza e anche il riflesso dorato dell'arcangelo sulla guglia di San Marco». In alcune pagine Furno si concede il lusso di un po' di fantatecnologia, attribuendo ai suoi inquieti eretici veneziani l'impiego di un «occhiale sidereo», quello che poi sarà il cannocchiale con cui Galileo scoprirà qualche decennio dopo i satelliti di Giove e le fasi di Venere! Nella finzione, però, il percorso dello strumento va dall'impiego nello studio del cielo alle possibili applicazioni militari su questa terra: i turchi vogliono impadronirsi dei libri segreti per disporre anch'essi di quella meravigliosa tecnologia. Salvo che a Lepanto il capo della flotta ottomana si spazientirà nel vedere solo «macchie», appoggiando l'occhio al nuovo «cannone ottico», preferendo alla fine servirsi della propria vista, come avrebbe fatto qualche tradizionalista rifiutando le osservazioni di Galileo, ma non gli accorti gesuiti, i quali dovevano dichiarare «veridico» lo strumento!
Siamo di fronte a un paradosso creativo della modernità: il cristallo dei tecnici e degli scienziati manda in pezzi le sfere cristalline in cui erano incapsulati gli astri della cosmologia aristotelica, porta acqua al mulino dell'eresia scientifica di Copernico, rivela un universo senza confini. Chiede uno sconcertato ragazzino al sentire quei discorsi: «Ma se tutto si muove, e anche la Terra, perché noi non cadiamo?». La risposta dei nuovi filosofi è che solo «la pesantezza» (cioè l'attrazione terrestre, come dirà Newton) ci impedisce di fluttuare come fantasmi nello spazio. Che dire allora degli uccelli che si librano nell'aria? «Perché non riescono ad andare sulla Luna?», chiede il giovane. La risposta è: «Sì, ci andranno». Nel nostro secolo, e si chiameranno astronauti.
I personaggi di Vetro fanno la stessa esperienza di cosmico spaesamento che proveranno realmente, non molto tempo dopo Lepanto, i contemporanei di Galilei e Keplero. Nel romanzo le menti più sottili di quella Venezia affacciata sull'Adriatico come un «labirinto di Minosse» cominciano a percepire che anche la gloria dell'Arsenale — pur nell'apparente trionfo di Lepanto — sta cominciando a tramontare; e sentono quel «vasto palazzo celeste» che è il mar Mediterraneo. Gli astronomi hanno insegnato che non c'è più qualcosa come una volta celeste che racchiuda il cosmo intero, e che questa non è che un'illusione dei sensi; già da prima gli esploratori hanno mostrato che il mondo abitato non finisce alle colonne d'Ercole: al di là del «Mare Grande», cioè dell'oceano Atlantico, c'è il mondo nuovo delle Americhe, dove alla fine approderanno tutti i «buoni» del romanzo di Furno. Forse con qualche rimpianto.
Insieme con la fortuna di Venezia, finisce pure quel «tempo dei maghi», degli alchimisti e dei cabalisti che aveva ispirato le più belle realizzazioni delle fornaci di Murano. Come nota Yves Hersant (grande studioso di storia delle idee), la malinconia dei moderni nasce dallo scarto «meravigliosamente perverso» tra il nuovo che si scorge e il vecchio che si è sottratto alla nostra vista (vedi il suo bel saggio nel volume Diafano. Vedere attraverso, a cura di Chiara Casarin ed Eva Ogliotti, pubblicato dalle edizioni ZeL). Ma anche per questa malinconia ci vuole coraggio.

sabato 29 dicembre 2012

L'anno che verrà


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Enea, quel viaggio continua


Pietà, patriottismo, affetti: l'attualità del poema di Virgilio

Cesare Segre

"Corriere della Sera,  28 dicembre 2012

«Queste acque e correnti controlla Carònte, nocchiero/ orrido, di spaventoso squallore, a cui giace incolta/ molta canizie sul mento, gli occhi son fissi e di fiamma,/ sordido manto pende dall'omero, stretto in un nodo./ Lui con un palo spinge la barca e governa le vele/ e nel suo scafo colore ferrigno i corpi trasporta». «Cèrbero questi regni assorda latrando imponente/ per tre fauci, immane, riverso in un antro di fronte, vedendogli ai colli già ritte le serpi/ (…) / E l'indovina (la Sibilla) una focaccia gli getta (…) e lui, spalancando le tre gole in fame rabbiosa, quel ch'è gettato ghermisce».
Siamo ai canti III e VI dell'Inferno di Dante? No, siamo nel VI libro dell'Eneide di Virgilio (vv. 298-303; 417-422), e per molti particolari o episodi si constata l'attenzione con cui Dante ha letto il poema di Virgilio, e ne ha fatto tesoro: anche per lui Caronte è «bianco per antico pelo», Inf. III, 83, e «intorno alli occhi avea di fiamme rote» (99); anche per lui Cèrbero «con tre gole caninamente latra», Inf. VI, 14, e ingoia con le «bramose canne» non già la focaccia ma il pugno di terra che gli viene gettato nelle fauci. Le poche centinaia di versi con cui Virgilio narra il viaggio di Enea nel paese dei morti traspaiono in ogni momento dei primi canti della Commedia, che hanno anzi nell'Eneide il modello principale. A pensarci, è meraviglioso che un'opera letteraria avesse ancora un potere modellizzante dopo più di 1300 anni; ma non ce l'ha anche per noi? Altrettanto meraviglioso il cammino dell'invenzione: Virgilio, che scrivendo l'Eneide ha raccontato il mondo dei morti, ora fa da guida nello stesso mondo a Dante, come rivivendo la propria immaginazione.
Però all'influsso stilistico va anche aggiunto quello ideologico, e qui la continuità tematica è ancora più impressionante. Si sa che l'Eneide, secondo un programma encomiastico che però rispecchiava anche l'indole e i gusti di Virgilio, voleva celebrare la pace raggiunta da Augusto dopo decenni di guerre, anche intestine. Così, persino le vicende belliche, inevitabile argomento di un poema epico, erano narrate alla luce, finalmente vicina, di una pace promessa. Un disegno escatologico, in cui entrava anche l'origine della famiglia Giulia e del popolo romano, un destino di cui il greco Enea è il portatore e il simbolo.
Il discorso di Dante è più complesso, ma è strettamente legato a quello di Virgilio. Come si sa, secondo Dante la funzione provvidenziale dell'impero romano è stata quella di favorire l'espansione e l'affermazione del Cristianesimo. Perciò Giulio Cesare e Augusto, come fondatori dell'Impero, hanno svolto un ruolo determinante in un disegno, ancora, escatologico.
La propensione per la pace spicca persino nella struttura del poema, che nei primi sei canti è una narrazione di avventure, spesso dolorose, alla ricerca dell'Italia profetizzata come futura patria, e solo negli ultimi sei canti fa spazio alle guerre per il predominio sulla regione laziale. Come mettere in tandem prima l'Odissea, poi l'Iliade. E si è persino notato che, negli eroi dell'Eneide, vigore e combattività sono meno celebrati da Virgilio che pietà, patriottismo, affetti familiari.
Quest'ultima osservazione si trova già nell'ottima premessa a un'Eneide appena curata e tradotta in italiano: Publio Virgilio Marone, Eneide, traduzione e cura di Alessandro Fo, note di Filomena Giannotti, Einaudi, (pp. CVI-926). Parlando di traduzioni dell'Eneide, chi ha fatto il liceo qualche anno fa pensa subito a quella, cinquecentesca, di Annibal Caro, in endecasillabi sciolti, che fu a lungo libro di testo. Ma poi ne vennero pubblicate molte altre, con vari tentativi di rendere gli esametri latini. Si sa che la fonazione dei versi latini è lontana dal nostro sistema, dato che all'alternanza di sillabe toniche e atone, con cui abbiamo familiarità anche noi, s'intrecciava un'alternanza quantitativa: vocali lunghe e brevi, secondo schemi prosodici precisi. Si è tentato di far corrispondere i nostri accenti a quelli di un latino letto all'uso moderno, oppure alle lunghe e alle brevi della prosodia quantitativa. In proposito Carducci, che, da eccellente latinista, fece tentativi in questo senso, definiva i suoi prodotti «odi barbare», cioè incolte e un po' blasfeme rispetto alle norme latine: la pubblicazione di queste odi barbare rappresenta un episodio notevole della storia della nostra poesia, col suo programmato abbandono della metrica tradizionale italiana, fatta di versi isosillabici e di rime.
Fo, nel tradurre Virgilio, si allontana dai precedenti noti, e fonda i suoi versi su un'ingegnosa alternanza di schemi dattilici e schemi spondaici, creando delle specie di costellazioni fisse di lunghe e di brevi. Il risultato, a dirla nei termini più semplici, è che i versi della traduzione risultano più adattabili e più ampi del modello latino, così da poter assorbire eventuali esplicazioni del contesto. Basti un esempio, già citato: «Lui con un palo spinge la barca e governa le vele». I tre nuclei del verso si distribuiscono, stando alla prosodia italiana, fra due quinari e un senario (la congiunzione svanisce, assorbita nel nucleo che precede), ma la sequenza complessiva lascia intravedere una presenza di quattro dattili e due spondei. Se la nuova traduzione indurrà qualcuno, anzi molti potenziali lettori, a leggere o rileggere l'Eneide, ancora una volta essi testimonieranno la vitalità dei testi grandissimi. Ma sono proprio i traduttori a garantire, spesso, questo miracolo.

Se tocca alla Francia salvare Venezia


Salvatore Settis

"La Repubblica",  28 dicembre 2012

La direzione regionale dei Beni Culturali, su parere dell’Ufficio legislativo del Ministero, ha dichiarato (27 novembre) che l’area è sottoposta ex lege a vincolo paesaggistico a tutela dell’ecosistema lagunare, ma secondo Orsoni il Consiglio comunale ratificherà comunque l’accordo, e per la cessione dei suoli Cardin verserà 40 milioni, indispensabili per «affrontare le imposizioni del patto di stabilità». Invano Italia Nostra stigmatizza le «distorsioni della prassi amministrativa » di un Comune che si arroga i poteri di autorizzazione paesaggistica, mentre le professionalità utilizzate (due geometri e un perito industriale) sono palesemente inadeguate. Intanto, le banche francesi rifiutano a Cardin il prestito di 40 milioni, e mentre lui giocando al ribasso propone di versare “a fondo perduto” solo il 3% (1.200.000 euro), il cardinal nepote Basilicati dichiara che il documento firmato «è solo una bozza».
In tanta confusione, qualche punto è chiaro: primo, i dati sull’inquinamento sono truccati. Nel documento Cardin presentato in Conferenza dei servizi, si vanta una bonifica delle aree destinate al grattacielo (ad opera della Provincia) che non è mai avvenuta, si parla a vanvera di valori nei limiti tabellari di legge, senza precisare che si tratta di valori previsti per le aree industriali e non per quelle residenziali, e si ignora che le fondamenta dovrebbero attraversare tre falde acquifere; intanto la stessa Direzione Ambiente del Comune assicura che farà rispettare le norme contro il dissesto idrogeologico, cioè condanna il progetto senza appello. Secondo: se non avrà i permessi, Cardin minaccia di trasferire in Cina il suo palazzo, con ciò mostrando con quanta attenzione a Venezia esso sia stato concepito, se può indifferentemente stare anche a Shanghai. Terzo: mentre un ex sindaco di Venezia dichiara cinicamente che «il progetto è orribile, ma a caval donato non si guarda in bocca», Cardin monetizza la vista su Venezia, mettendo in vendita a prezzi altissimi gli appartamenti dei piani alti, destinati ai ricchi, «perché ci saranno sempre ricchi e poveri ». Insomma, il suo “dono” è quello che Manzoni chiamerebbe “carità pelosa”, fatta non per amore del prossimo ma per proprio interesse.
Ma mentre il ministro dell’Ambiente Clini ed altri notabili esultano per l’imminente disastro, una dura mozione della massima accademia francese di scienze umane (Académie des Inscriptions et Belles Lettres) «esprime viva inquietudine per le minacce che pesano su Venezia e la laguna. Deplora che navi di grande tonnellaggio continuino a entrare nel bacino di San Marco, sfidando la fragilità di un sito unico al mondo e mettendolo alla mercé di possibili incidenti. Si stupisce che possano esser presi in considerazione progetti architettonici offensivi e assurdi, e osa sperare che il “Palais Lumière” previsto a Marghera, a causa della sua smisuratezza, non venga mai realizzato. Unisce la sua voce a chi disapprova queste iniziative e chiede che vengano respinte». Dalla Francia viene dunque un forte monito e una lezione di civiltà, coerente con la recente decisione, dopo un referendum popolare, di bloccare il progetto (non di un neolaureato, ma dell’archistar Jean Nouvel) di costruire cinque grattacieli sull’isola Seguin, già sede di stabilimenti Renault (sulla Senna, a 8 km dalla torre Eiffel), riducendolo a un solo edificio, e più basso. Ma perché Cardin, se davvero vuol dar lavoro ai veneti, non può edificare, nei 200.000 metri quadrati che avrebbe a disposizione, cinque torri da 50 metri, con la stessa volumetria totale? Perché l’inquinamento dell’area viene trattato con tanta leggerezza, proprio mentre il patriarca di Venezia Moraglia dichiara che «non è accettabile contrapporre il lavoro alla salute o all’ambiente, come si è fatto a Taranto»? Perché si favoleggia di “risanare Porto Marghera”, quando l’area interessata è di soli 20 ettari su 2.200? Perché i notabili della città fomentano la frattura fra i contrari al progetto e chi con l’acqua alla gola (letteralmente) è pronto a svendere tutto? Perché non rispondere nel merito e passare agli insulti? Tra le non poche finezze di Basilicati c’è infatti anche questa: secondo lui, chi ha firmato contro l’ecomostro (come Dario Fo, Stefano Rodotà, Carlo Ginzburg, Vittorio Gregotti) «usa il nome di Cardin per finire sui giornali». E lo zio Pietro, di rincalzo: «il mio palazzo sarà un faro che illuminerà la città, per giunta gratis». Questi segnali di degrado civile, particolarmente intensi a Venezia, si avvertono in tutta Italia sotto il giogo del “patto di stabilità”. Costringendo i Comuni agli stessi introiti che avevano prima dei drastici tagli dei contributi statali (nel caso di Venezia, anche della Legge Speciale), queste norme inique spingono dappertutto verso la svendita e la privatizzazione dei patrimoni pubblici. Anzi, secondo una fresca intesa tra Demanio e Confindustria, immobili pubblici «di particolare pregio» possono essere venduti «anche per utilizzi industriali» (Corriere della Sera, 20 dicembre). Abbiamo dunque dimenticato che i beni pubblici sono il portafoglio proprietario dello Stato-comunità, sono la garanzia della sovranità e dei diritti costituzionali dei cittadini, lo «strumento privilegiato delle grandi libertà pubbliche» (Gaudemet)? Il mostro della Laguna succhia a Roma i suoi veleni, e la sua vittima non è Orsoni, è Venezia. La vittima di una “stabilità” cieca che ignora i diritti è la nostra Costituzione. La vittima è l’Italia, che si pretende di salvare condannandola a mettersi in vendita, in balia di avventurieri e nepotismi. Le vittime siamo noi, i cittadini.

venerdì 28 dicembre 2012

Diritto e castigo


Quando il romanzo detta legge
Viaggio nella colpa da Kafka a Camus

Un saggio raccoglie diversi interventi sul rapporto tra gli scrittori e l’idea di giustizia vista attraverso la letteratura

Roberto Esposito

"La Repubblica",  27 dicembre 2012

Cosa può mai congiungere il diritto alla letteratura? Un solco profondo sembra separare la fluidità senza confini della scrittura letteraria e la rigidità di un ordine giuridico volto a discriminare la condotta lecita da quella illecita. Eppure proprio questo impossibile rapporto è oggetto di inesauribile interrogazione. Se fin dalla metà del Novecento è attivo in America un Law and Literature Movement, anche in Italia si vanno aprendo cantieri di ricerca sulla relazione tra la sfera del diritto e i territori della letteratura, del cinema, della comunicazione mediatica. Un’ampia, raccolta di studi in argomento è adesso contenuta nel volume, curato per Vita e Pensiero da Gabrio Forti, Claudia Mazzucato e Arianna Visconti con il titolo Giustizia e letteratura I.
Il libro – che nasce da una serie di seminari interdisciplinari tenuti da giuristi e critici letterari nella Cattolica di Milano – scorre lungo due assi tematici originati dalla stessa esigenza di fondo. Da un lato esso ripercorre con puntualità gli innumerevoli temi che il diritto ha offerto alla letteratura, come anche al teatro e al cinema. Dall’altro ricerca quella consapevolezza supplementare, quel sovrappiù di senso, che la pratica letteraria può fornire, dal proprio punto di vista, all’universo giuridico.
Se si rileggono con questo sguardo i grandi testi rivolti alla questione della legge, si ha l’impressione che essi siano in grado di rivelare qualcosa del diritto che questo, dall’interno del proprio linguaggio, non arriva ad afferrare – l’ombra che circonda la sua luce o il punto scuro in cui essa rischia di spegnersi. Non solo per difetto, ma talvolta anche per eccesso. Non solo, intendo, quando il diritto sbaglia, ma anche quando, dal proprio angolo di visuale, ha ragione. Se opere come Il Mercante di Venezia e Otello di Shakespeare rivelano il pregiudizio razziale, rispettivamente nei confronti di un ebreo e di un nero, che sottende il giudizio di condanna, i romanzi di Defoe, da Lady Roxana a Moll Flanders, mostrano, dietro il delitto, una condizione di estremo bisogno che in qualche modo ne eccede la rilevanza penale, aprendo uno squarcio nel formalismo della legge.
Delitto e castigo di Dostoevskij, poi, attraverso la vicenda tormentata di Raskol’nicov, spinge la domanda sulla colpa ai suoi estremi confini – in quella zona indistinta dove bene e male, orrore e compassione, s’intrecciano in una vertiginosa spirale.
Ciò che la letteratura insegna, rispetto all’assetto astrattamente codificato del diritto, è che nell’esperienza vissuta non esistono leggi generali, perché i casi della vita sono sempre singolari e irripetibili. Perciò le condanne, come le assoluzioni, risultano inevitabilmente imperfette, visto che in qualche modo siamo tutti colpevoli, ma anche, da un altro punto di vista, tutti innocenti. I decreti di colpevolezza assoluta appaiono inadeguati per una duplice ragione indagata dalle opere di Proust, Musil e Hofmannsthal. Intanto perché le situazioni individuali vanno sempre calate in quel caleidoscopio sociale che condiziona i nostri atti non meno della nostra volontà. E poi perché l’idea stessa di libero arbitrio, su cui poggia l’intero edificio del diritto penale, presuppone una compattezza dell’identità personale che di fatto non esiste. La coscienza individuale è in realtà sottoposta ad una metamorfosi che finisce per destituire di senso le categorie giuridiche di imputazione e di responsabilità. Come imputare una data azione ad un uomo che ormai è diverso da quello che l’ha commessa? Ma a questa prima decostruzione del diritto se ne aggiunge una seconda, ancora più radicale, che riguarda non più i suoi limiti, ma la sua essenza. Non solo il sistema normativo non riesce a incasellare nelle proprie griglie una realtà umana in linea di principio sfuggente ad un ordine prefissato, ma, tutt’altro che situarsi al polo opposto della violenza criminale confina ambiguamente con essa. I romanzi Il giudice e il suo boia, Il sospetto, Giustizia di Friedrich Dürrenmatt ne forniscono la rappresentazione più tesa. In essi coloro che vogliono affermare la giustizia lo fanno usando i medesimi metodi criminali che intendono punire. Ma se il desiderio di giustizia si trasforma in sete di vendetta, il giudice diventa giustiziere e questi cacciatore di prede.
Siamo al punto in cui la giustizia distributiva – che attribuisce a ciascuno la sua pena – diviene volontà di infliggere il male, rendendo intercambiabili colpevole e vittima.
L’autore – al quale forse il volume non dà sufficiente rilievo – in cui il contatto tra giustizia e violenza si fa compiuta sovrapposizione è Kafka. Non soltanto perché i suoi protagonisti – a partire da quello del Processo – sono catturati nelle procedure della legge come mosche in un bicchiere, ma perché la pena è presupposta alla colpa che dovrebbe punire. Nel suo mondo a rovescio non è più la colpa a determinare la pena, ma questa a produrre quella. Per penetrare a fondo nella sua metafisica della legge, bisogna integrare alla comparazione letteraria quella filosofica. A stringere in un nodo irresolubile diritto e violenza è stato soprattutto Benjamin. Non soltanto, per lui, il diritto è sempre istituito da una violenza originaria, ma la violenza è lo strumento attraverso il quale l’ordine giuridico si perpetua, condannando la vita ad una eterna colpevolezza. È questa la funzione che il nomos eredita dal mondo demonico che lo precede – schiacciare la vita sulla nuda parete del destino. Quando René Girard vede nel diritto una razionalizzazione della vendetta, porta alle sue conseguenze questa linea di discorso: come ci narra Lo straniero di Camus, la società, per proteggersi dal conflitto che l’attraversa, ha bisogno di concentrare la violenza su una vittima scelta a caso. Le immagini kafkiane della giustizia bendata – non perché imparziale, ma perché colpisce alla cieca le sue vittime – e della macchina che incide la norma trasgredita sulla carne del colpevole, nascono da questo orizzonte. Ancora oggi film come Pulp Fiction di Tarantino o Dogville di Lars von Trier riproducono in forme e con moduli narrativi diversi il medesimo motivo di una giustizia pienamente identificata con il crimine che combatte.
Ciò non vuol dire che la relazione tra diritto e scrittura s’incanali necessariamente in questa direzione mortifera. Anzi a prevalere, negli autori del libro, è un’ispirazione costruttiva, volta a sottolineare i valori affermativi di una norma giuridica capace di conformarsi alla grana molteplice della vita. Benedetta Tobagi, in un intervento di particolare intensità, invita a guardare il male impresso negli occhi della vittima, senza distogliere lo sguardo dalla sofferenza: diventare testimoni del dolore, narrandone i percorsi, può favorire un’umanizzazione del diritto. La testimonianza letteraria ci aiuta a capire che la verità giudiziaria non è l’unica possibile.
Che essa va collocata in un mondo di relazioni in cui le azioni degli uomini siano restituite alla loro complessità. Dal punto di vista della comunità siamo legati da una legge più profonda di quella giuridica – che la integra senza identificarsi con essa. Anche su questa consapevolezza poggia il ponte invisibile che congiunge le sponde opposte della letteratura e della legge.

Razzi e sogni, la rincorsa allo spazio dai fuochi cinesi ai satelliti San Marco


Sei secoli d'immaginazione e scoperte, tra scienza e arte militare

Sergio Romano

"Corriere della Sera",  27 dicembre 2012

Razzi e missili sono da più di settant'anni l'inevitabile ingrediente di tutte le maggiori crisi politiche e militari del pianeta. Le V2 di Wernher von Braun, lanciate su Londra da basi tedesche, dettero alla Germania, per alcune settimane del 1944, l'illusione della vittoria. La peggiore crisi della Guerra fredda scoppiò quando l'Unione sovietica installò basi missilistiche nell'isola di Cuba, a 90 miglia dalle coste della Florida. Il momento di maggiore tensione nei rapporti fra i due blocchi è quello del giorno in cui i satelliti spia degli Stati Uniti, alla fine degli anni Settanta, scoprirono che i sovietici stavano installando missili di media gittata con testate nucleari nei territori occidentali dell'Urss. Le più folte e turbolente manifestazioni pacifiste in Europa occidentale furono quelle provocate dall'installazione di missili Cruise e Pershing in alcuni Paesi della Nato durante gli anni 80. Il primo segnale di distensione fra l'Urss di Michail Gorbaciov e l'America di Ronald Reagan fu l'accordo che i due uomini di Stato raggiunsero nel 1987 per l'eliminazione dei missili intermedi dal teatro strategico europeo. I trattati più difficili, prima e dopo il crollo dell'Urss, furono quelli che dovevano regolare gli arsenali missilistici delle due potenze mondiali. Su scala più modesta non vi è stata crisi israelo-palestinese, negli ultimi anni, che non sia cominciata con il lancio di razzi Fajir fabbricati in Iran contro il territorio dello Stato ebraico. Più recentemente abbiamo assistito al primo impiego di missili in una guerra civile: gli Scud di fabbricazione sovietica con cui Bashar al Assad cerca di stroncare le forze dell'insurrezione siriana.
Eppure queste micidiali armi belliche hanno antenati «giocosi» (i fuochi d'artificio) e hanno aperto la strada ad applicazioni scientifiche che hanno considerevolmente allargato, soprattutto negli scorsi decenni, le frontiere del sapere. Gioco, guerra e scienza appartengono quindi a una stessa storia di feste, battaglie e audaci sperimentazioni. In questa lunga vicenda esiste un capitolo italiano raccontato da uno dei migliori giornalisti scientifici, Giovanni Caprara, in Storia italiana dello spazio (Bompiani).

           Cyrano face à la lune. . Illustration (1900) de Henriot 
pour une édition de l'Histoire comique des États et empires 
de la Lune de Cyrano de Bergerac. 
(Bibliothèque nationale de France, Paris.)
                         Ph. Jeanbor © Archives Larbor. DR
I razzi nascono in Cina, madre dei fuochi d'artificio, ma arrivano rapidamente in Italia dove vengono presto utilizzati per rallegrare il popolo nei giorni di festa e colpire il nemico nei giorni di guerra. Fra Settecento e Ottocento non vi è potenza militare, piccola o grande (anche il Regno di Sardegna e il Regno delle Due Sicilie), che non abbia un corpo di «razzieri» o non studi l'uso di piccoli missili sul campo di battaglia. Ma i progressi dell'astronomia, nel frattempo, accendono sogni e speranze. Molti poeti avevano indirizzato i loro versi alla luna e Cyrano de Bergerac aveva scritto un viaggio in prima persona dans la lune et dans le soleil, apparso postumo nel 1657. Ma non appena Giovanni Virginio Schiaparelli, astronomo dell'Osservatorio di Brera, scoprì i canali di Marte, la scena, come ricorda Caprara, si riempì rapidamente di scienziati dilettanti, visionari, studiosi incompresi e autori di teorie ardite sempre a caccia di fantasiosi brevetti. La letteratura, nel frattempo, da Verne a H.G. Wells, precedeva gli scienziati mentre il cinema, non appena inventato, permetteva a George Meliès di raccontare sullo schermo un «Voyage dans la lune» che fu proiettato per la prima volta a Parigi nel 1902. Agli inizi del Novecento il pianeta terra era molto più vicino alla luna, scientificamente e psicologicamente, di quanto fosse mai stato nel corso della storia umana.
La Grande guerra, lo sviluppo dell'industria e i progressi della chimica nel fondamentale settore dei carburanti ebbero l'effetto di aguzzare gli ingegni e stimolare le ricerche. Molti dei personaggi evocati da Caprara sono industriali geniali come Enrico Forlanini ed Ettore Ricci, o scienziati in uniforme come Giulio Costanzi, Giorgio Cicogna e soprattutto Gaetano Arturo Crocco, fondatore dell'Istituto centrale aeronautico e autore del piano per la costruzione di Guidonia, la «città del volo». Ma vi furono anche ingegneri come Luigi Gussalli, chimici come Francesco Giordani, astronomi, piloti. La sconfitta nella Seconda guerra mondiale non ha chiuso il capitolo spaziale della storia italiana. Anzi, per almeno una generazione, come appare dalle pagine di Caprara, sembrò che l'Italia e la classe dirigente avessero nel campo delle grandi ricerche scientifiche (l'atomo, lo spazio, la chimica, l'aeronautica) le ambizioni dei decenni precedenti. L'opera di Crocco, in particolare, fu continuata dal figlio Luigi e da uno dei suoi allievi più dotati, Antonio Ferri. Ma l'astronautica, nel frattempo, stava diventando, soprattutto dopo il lancio dello Sputnik sovietico, una costosa questione di potere, una partita che richiedeva colossali investimenti e in cui la posta in gioco era l'egemonia mondiale. Gli spazi, per le potenze minori, si sarebbero considerevolmente ristretti. L'Europa reagì creando istituzioni unitarie a cui l'Italia partecipò con quote inferiori a quelle degli altri maggiori Paesi europei, ma finanziariamente consistenti. Si formò così una galassia di sigle: l'Eldo (European Launcher Development Organisation), l'Esro (European Space Research Organisation), l'Estec (European Space Research and Technology Centre), l'Eslar (European Space Laboratory for Advanced Research Institute) e infine l'Esa (European Space Agency), inaugurata nel 1975.
Il lettore troverà nel libro di Caprara una cronaca molto documentata delle imprese scientifiche realizzate da queste istituzioni e in particolare dall'Italia. Ma la scienza e l'industria italiane, pur partecipando alle iniziative europee, non hanno mai smesso di coltivare nel frattempo i rapporti con gli Stati Uniti e la Nasa. Luigi Broglio, creatore del progetto San Marco per il lancio di satelliti da una piattaforma costruita nel Kenya, ha tratto grandi soddisfazioni, per sé e l'Italia, dalla collaborazione con l'America. Il primo astronauta italiano, Franco Malerba, è partito da Cape Canaveral il 13 luglio 1992 a bordo della navetta Atlantis. Il satellite a filo Tethered è stato realizzato con strumenti costruiti da Alena Spazio e dalle Officine Galileo. È accaduto per le ricerche spaziali ciò che accadeva contemporaneamente per l'aeronautica. Costretta a scegliere fra progetti europei e collaborazione americana, l'Italia, in parecchie circostanze, ha scelto l'America. La scelta rispondeva probabilmente agli interessi economici del Paese, ma non era necessariamente conforme all'europeismo professato dai suoi governi.
Il libro di Caprara si conclude con una promettente pagina europea e italiana. Mentre la presidenza Obama ha considerevolmente ridimensionato i suoi programmi, l'Agenzia spaziale europea ha lanciato dalla base di Kourou, nella Guiana francese, il 23 marzo 2012, un Automated Transfer Vehicle. Si chiama Edoardo Amaldi, dal nome del grande fisico che ha dato un contributo fondamentale alla formulazione di una politica spaziale europea.

Per approfondire:

La storia dello spazio in Italia,  a cura dell'Agenzia spaziale Italiana. CLICCA QUI. 

Agostino uomo e santo


Il teologo che ha tentato di spiegare i misteri dell’esistere individuale e universale

Luca Canali

"l’Unità",  27 dicembre 2012

È IN LIBRERIA, NELLA PRESTIGIOSA COLLANA «IL PENSIERO OCCIDENTALE», A CURA DEL PROFESSORE GIOVANNI REALE (PAGINE 1406, BOMPIANI) UN’OPERA FILOSOFICA, TEOLOGICA E INSIEME LETTERARIA DI INESTIMABILE VALORE. 

È un testo formidabile (cioè, in un certo senso, «temibile» per l’arduo contesto di tutte le problematiche in esso contenute), ma anche entusiasmante, cioè capace di offrire il piacere delle grandi opere d’arte che hanno formato la cultura del mondo: Le confessioni di Sant’Agostino, la cui vita complessa e persino travolgente è stata dapprima quella di un giovane uomo con le sue debolezze e i suoi peccati, ma anche di un santo che ha tentato di spiegare i grandi misteri dell’esistere individuale e universale, che dopo di lui e della sua straordinaria opera tuttavia sono riemersi e forse irrisolvibili, ma almeno lasciando qualche sbocco all’uomo per tentare di avvicinarsi alla loro soluzione, sia terrena che metafisica. Vita che è stata prima quella di tutti i viventi che nascono, crescono, fanno l’amore, anche rubacchiano qua e là (a lui piaceva rubare le pere cogliendole direttamente sugli alberi), poi, i migliori, si pentono e cercano il conforto religioso.
Agostino, durante una lunga ed appassionante vicenda intellettuale combatté per le sue idee religiose ed esistenziali, ora vincendo, ora cambiando idee, giungendo infine al neoplatonismo fondato sulla fede nel Dio buono e onnipotente con la mediazione di Cristo fra Lui e gli uomini. Durante il suo viaggio da Tagaste e Cartagine per giungere in Italia per recarsi prima a Roma, poi a Milano per incontrare il Vescovo Ambrogio, ad Ostia perdette la sua amatissima madre Monica, cristiana fervente che lo aveva indotto a ripudiare la sua concubina, che però gli aveva dato un figlio di nome Adeodato, affidandoglielo perché lei intendeva dedicarsi alla fede e alle buone opere con un grande equilibrio che portava dritto al rigorismo etico cristiano, e contro il tomismo che finirà poi per passare, secoli dopo, attraverso il razionalismo di Cartesio e la illuminata filosofia di Kant, contro l’idealismo di Hegel.
Sant’Agostino non fu soltanto un teologo; ma anche un cultore appassionato della letteratura classica (Cicerone, Virgilio, Apuleio), nonché pastore di anime una volta divenuto vescovo.
Giovanni Reale, grande studioso e docente di filosofia antica greco latina, da sessant’anni impegnato nell’approfondimento del pensiero agostiniano, offre ai lettori, in questa vigilia di Natale, questa grande opera, assistito dall’intero staff direttivo della Edizioni Bompiani, e dall’intera squadra di collaboratori della collana «Il Pensiero Occidentale», anteponendo alle Confessioni un breve discorso sui criteri che hanno guidato la propria nuova traduzione, interessante da leggere e da discutere; poi una monografia introduttiva estremamente pregnante e illuminante per la lettura diretta della prosa agostiniana, di cui è opportuno a questo punto, cioè come condivisione del testo, mettere in rilievo le frasi capitali dell’intera trattazione, che costituiscono poi la conclusione dell’opera: sono quelle riguardanti il problema essenziale della creazione.
a) Tutte le cose create sono buone, se viste da Dio;
b) Ringraziamo Dio per la bontà delle cose che ha creato;
c) Il modo e il mezzo con i quali Dio ha creato cioè della Sua Parola;
d) Questo processo creativo in apparenza così semplice è invece vertiginosamente complesso e persino misterioso, prestandosi quindi ad una sua lettura metafisica di cui v’è già la premessa nei primi versetti della Bibbia.
Qui si ripostula quindi l’esistenza del mistero e di tutti i misteri che la mente umana, malgrado il rigore anche didattico del pensiero agostiniano (di cui questo recente volume ci offre una sintesi e una puntuale e mirabile «spiegazione») non riesce a risolvere. Mistero, che lascia spazio soltanto alla fede nel Creatore, e intrinseco all’esistenza del tutto e alla sorte dell’uomo, il quale pur se si giovi dell’aiuto potente di Sant’Agostino, resiste ostinato, a meno che non ci si illuda di trovare la luce nel pensiero razionalista ed evoluzionista o, anche avventurosamente materialista.
Che guida senza infingimenti nel regno del Weltschmerz, dolore di cui è impastato il mondo umano, animale, vegetale e, si dice, anche minerale.
Sullo stesso argomento CLICCA QUI.

lunedì 24 dicembre 2012

Nel magico universo dei bestiari


Lina Bolzoni

"Il Sole 24 Ore", 23 dicembre 2012

Se avete bisogno di un ippogrifo, una specie di cavallo alato, sappiate che si possono trovare, ma che sono piuttosto rari. L'Ariosto ce ne informa con molta precisione: l'ippogrifo nasce in natura, specifica, e ce lo descrive accuratamente, dicendoci anche quale è la zona di origine:

«Non è finto il destrier, ma naturale,
ch'una giumenta generò d'un grifo:
simile al padre avea la piuma e l'ale,
li piedi anteriori, il capo e il grifo;
in tutte l'altre membra parea quale
era la madre, e chiamasi ippogrifo;
che nei monti Rifei vengon, ma rari,
molto al di là dagli agghiacciati mari». 
(Orlando Furioso, IV,18)

L'Ariosto qui pratica una delle forme di raffinato divertissement che fanno sì che il suo poema generi nel lettore, ogni volta, una forma speciale e sempre nuova di piacere. Le informazioni apparentemente accurate, "scientifiche" che egli ci dà sull'origine degli ippogrifi, vengono ironicamente proiettate in uno spazio fantastico da quel «ma rari» che chiude il penultimo verso dell'ottava, e che sembra schiacciare l'occhio al lettore complice.
L'Ariosto qui mette in scena il modo in cui usa (e prende le distanze da) una ricca tradizione precedente, ma anche in larga parte contemporanea, che ama discettare di animali mostruosi, quelli che popolano il mondo sconosciuto (che stanno «molto al di là»), una tradizione che guarda al mondo animale attraverso i libri, così da fare di ciascun animale il depositario di simboli, allegorie, insegnamenti morali e religiosi.
È esattamente questa tradizione, questo modo di guardare il mondo degli animali, veri e fantastici, che ispira il libro di Michel Pastoureau. Egli ripercorre la grande stagione dei bestiari medievali, fra l'XI e il XIV secolo, con uno sguardo ravvicinato e simpatetico, e insieme con la ricca conoscenza che gli viene da una lunga stagione di studi. A questo tema, come egli ricorda, aveva dedicato la sua tesi all'École des Chartes nel 1972, vincendo le resistenze dei suoi professori, che pensavano che gli animali non sono importanti per la Storia (con la s maiuscola, naturalmente) e che quindi non meritavano uno studio. Una vena polemica affiora ancor oggi, qua e là, in un libro che è scritto con l'eleganza, l'esprit de finesse, la felicità narrativa che forse si può permettere solo chi ha alle spalle ricerche approfondite, e la polemica si indirizza in molteplici direzioni: contro il disprezzo positivistico per ciò che non è "scientifico" e razionale nel senso moderno dei termini, ma anche contro lo specialismo di chi oggi studia i bestiari medievali in un'ottica troppo settoriale, e anche contro chi considera il mondo degli animali una presenza secondaria in un mondo che apparterrebbe all'umanità.
Questo libro ci invita a tuffarci in un mondo dove il cinghiale vive mille anni, la donnola concepisce i piccoli attraverso la bocca e li partorisce dall'orecchio, la lince è un gigantesco verme bianco il cui sguardo trapassa i muri, e la iena cambia sesso a suo piacimento. E il leone diventa re solo a un certo punto, dal XII secolo, in sostituzione dell'orso, l'animale villoso che sta ritto in piedi ed è troppo pericolosamente vicino all'uomo, all'uomo selvatico e peloso, ma anche al pio eremita.
È un mondo che si basa su parametri molto lontani dai nostri, dove ciò che è reale (ad esempio l'osservazione diretta degli animali) è diverso, e meno importante, di ciò che è vero, e metafisicamente importante: ad esempio i significati misteriosi che si possono scoprire se si guarda a un animale attraverso la Bibbia e i testi degli antichi, come Aristotele e Plinio, e se si scoprono i segreti che si nascondono nel suo nome, usando ad esempio le Etimologie di Isidoro di Siviglia. Il nome è infatti carico di senso e di potere: l'immagine di Adamo che dà il nome agli animali compare spesso all'inizio dei bestiari.
Gli animali, e i bestiari che ne rivelano la vera natura, hanno una presenza pervasiva, nota giustamente Pastoureau, nella cultura medievale: sono un sussidio importante per i predicatori (vorrei ricordare qui le splendide raffigurazioni dei maldicenti sotto forma dello scarafaggio che accumula pallottole di escrementi, nella predicazione di san Bernardino da Siena); popolano i racconti e le favole, ispirano i proverbi; compaiono nella scultura, nell'architettura romanica, nei sigilli e negli stemmi, e ancora a lungo, ben al di là del periodo che questo libro studia, ispireranno metafore poetiche, emblemi e imprese. Costituiscono insomma sistemi di memoria utilizzabili a fini diversi: ad esempio a creare una casistica amorosa, come fa Richart de Fournival, monaco e bibliofilo raffinato, che a metà '200, nel Bestiaire d'Amour, prende spunto dalla natura del lupo per consigliare a non rivelare per primi il proprio amore: chi lo fa perde tutto il suo potere, come accade a un lupo «quando un uomo lo vede prima che esso veda l'uomo».
Proprio perché questo libro vuole capire e narrare un mondo lontano, ne adotta le strategie di base, e cioè la classificazione e il rapporto stretto fra parole e immagini. I capitoli sono infatti scanditi secondo la classificazione medievale, che comprendeva quadrupedi, uccelli, pesci, serpenti, vermi. Non senza che contenuti per noi strani rientrassero in queste categorie apparentemente familiari, così che ci viene in mente il racconto di Borges citato da Foucault all'inizio di Les mots et les choses, dove si racconta di una enciclopedia cinese in cui gli animali si dividono in a) appartenenti all'imperatore, b) imbalsamati, c) addomesticati, d) maialini di latte, e) sirene, e via classificando.
L'altro elemento che il libro incorpora, per così dire, dal mondo studiato, è il rapporto fra testo e immagine, dato che i codici che conservano i bestiari sono costantemente illustrati. Il risultato è davvero strepitoso: grandi, splendide immagini a doppia pagina aprono i vari capitoli, mentre altre, accompagnate da didascalie narrative, costruiscono una specie di percorso doppio, una galleria che si può scorrere anche autonomamente, o ripercorrere a integrazione del testo. Un libro davvero di qualità, anche dal punto di vista visivo, da leggere e sfogliare magari durante le feste di Natale.


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L'anniversario degli emoticon: le faccette compiono 30 anni


Stefano Bartezzaghi


"La Repubblica", 23 dicembre 2012

ADESSO si chiamano emoticon, smiley o anche faccette e li si data a trent'anni fa, nel 1982. Il mito fondativo viene ambientato alla Carnegie Mellon University di Pittsburgh (Pennsylvania): il professor Scott Fahlman propose la sequenza :-) per marcare i messaggi scherzosi nelle bacheche elettroniche pre-Internet. La mancanza di segnali di ironia, infatti, aveva già creato diversi equivoci e risentimenti nell'informalità di quelle forme pionieristiche di scrittura. 
Con l'introduzione di :-) e del suo contrario :-( il più era fatto: si era stabilito che il segnale dovesse arrivare dopo il messaggio, come accade con gli interrogativi e gli esclamativi (con l'importante eccezione spagnola) e si era trovata la convenzione della rotazione di novanta gradi del testo, o della testa (del lettore). In realtà ora esistono anche emoticon che non richiedono rotazioni, di provenienza sembra giapponesi: per significare "allegro" si fa così: (^-^). 
Da lì le faccette si sono diffuse ovunque, la cosa è piaciuta molto: dal sorriso e dal broncio si è passati a rappresentare il pianto, la pernacchia, la vergogna, l'occhiolino, lo stupore, la perplessità, la noia, l'ira; quindi si è trovato l'equivalente di "cuore" (è questo: <3 e potrebbe valere anche per "cono gelato a due palle") e si è passati a oggetti e animali, su più righe e con uso di parecchio spazio. A quel livello di complessità l'emoticon è parte dell'"Arte ASCII" (dal nome dello standard di codifica dei caratteri). LEGGI TUTTO...

Ciack si copia: libri e film


Non una semplice ispirazione ma quasi una duplicazione narrativa.

Natalia Aspesi

"La Repubblica - CULT", 23 dicembre 2012

Una cinebiblioteca delle più eterogenee sta precipitando nelle sale cinematografiche, capolavori della letteratura ottocentesca, racconti fantasy di immensa popolarità del primo Novecento, insoliti romanzi contemporanei colti o popolari, anche biografie di personaggi storici (Lincoln) o inchieste giornalistiche (Argo): tutto diventa preda di un cinema che cerca affannosamente una sua sopravvivenza in un mondo che fluttua, cambia, corre, dimentica, cancella, vuole sempre di meno e sempre di più. La letteratura, la storia e la cronaca diventano una fonte inesauribile, una immensa risorsa, una strada per cancellare il presente o reinterpretarlo, una possibile promessa di nuove folgorazioni e nuove passioni universali. Così la semplicità e la meraviglia delle parole si spegne, ma nello stesso tempo rivive, nella sontuosità delle immagini, spesso dilatate in un gigantismo visivo che talvolta, usando per esempio la sempre più perfezionata tridimensionalità, alla fine appiattisce la percezione, sradica i ricordi, impone una quasi istantanea smemoratezza di ciò che ci ha appena stregato: come per lasciar posto ad altri incantamenti, ad altre provocazioni.
Dickens e Grandi speranze, tredicesima riedizione dal 1934, poi Tolstoj e Anna Karenina, settima riproposta dal 1927, Hugo e I miserabili adattato allo schermo 66 volte cominciando dai fratelli Lumière; questa volta però ispirato non a un capolavoro letterario che forse nessuno legge più, ma al musical di massimo successo che ne è stato tratto, visto da 60 milioni di spettatori in 43 paesi e tradotto in 21 lingue. Si ricorda con un certo disagio il quarto Grande Gatsby da Francis Scott Fitzgerald, girato nel 1974 e venuto male, con Mia Farrow e Robert Redford imbambolati, mentre si attende il quinto, quello girato dal visionario australiano Baz Luhrmann, con una coppia giudicata divina, Leonardo Di Caprio e Carey Mulligan, e che già dal trailer appare magnificamente ridondante ed estremo. Nel frattempo. Si sonnecchia, dieci anni dopo la trilogia del Signore degli anelli, con l’eccessivamente tecnologico Lo Hobbit: un viaggio inaspettato prima parte di una nuova trilogia ispirata alla prima opera letteraria del coltissimo filologo medioevalista professor Tolkien. Sono centinaia gli autori che oggi scrivono un romanzo sperando che venga adattato al cinema o alla televisione, cosa che capita soprattutto se al suo successo letterario si somma il concetto di infilmabile; così il taiwanese Ang Lee si è subito innamorato di Vita di Pi di Yann Martel, vincitore del Man Booker Prize, filmando in 3D la storia vera di un giovane naufrago che sopravvive su una scialuppa alla deriva per 227 giorni, con l’allarmante compagnia di una feroce tigre del Bengala. È diventato un film persino un romanzo assolutamente impossibile per lo schermo, il sensazionale e assicurano indimenticabile Cloud Atlas di David Mitchell, e infatti solo dei pazzi ardimentosi come i fratelli Wachowski (quelli di Matrix, che aveva lanciato ogni moda possibile), potevano osare una simile impresa.
In Italia, dove in generale il romanzo sfiora raramente il capolavoro e le stravendite anche all’estero, a parte la fortunata coppia Mazzantini-Castellitto che trasforma i romanzi molto amati di lei in film di altrettanta fortuna di lui, anche Bernardo Bertolucci è tornato con successo al cinema ispirandosi al racconto Io e te, di Ammaniti. Valeria Golino, per il suo primo film come regista, ha scelto di ispirarsi al disturbante Vi perdono, di Mauro Covacich. Persino la Bibbia si fa di nuovo cinema, con un gigantesco Noah, costato 130 milioni di dollari, protagonista un divo specialista di eroi mitici come Robin Hood o il gladiatore Maximus, Russell Crowe. La gentile signora EL. James, autrice della mondialmente amata trilogia sadomaso rosa, ha venduto per 5 milioni di dollari (il libro gliene ha fruttati 60) Cinquanta sfumature di grigio e ha ottenuto anche la supervisione di tutto, dalla regia alla scelta degli attori: sarà una grande sfida all’abbondanza di pornografia virtuale del romanzo, che solo un regista agguerrito potrà rendere meno banale sullo schermo. Il cinema da sempre si è ispirato alla letteratura alta o bassa, da Flaubert a Elmore Leonard, da Dostoevskij a Simenon, da Manzoni a Stephen King, da Poe alla fortunatissima Stephenie Meyer, da Elizabeth von Arnim a Candace Bushnell, da Henry James a Cormac Mc-Carthy, Dumas e le Carré.
Eppure oggi quell’avvinghiarsi a storie scritte per essere lette, in tempi in cui parrebbe che la gente legga sempre meno, segna una strada diversa per il cinema, che sempre più rinuncia alla sua originalità per cercare protezione e fortuna dentro le pagine di un libro di fama secolare o di sicuro successo o bizzarria. E scopre, o meglio ormai ha scoperto da decenni, quanto si adattino al cinema le comics, quei fumetti di massima diffusione e nessuna presunzione culturale che hanno ridato nuovamente immense audience e incassi miliardari. Superman, l’Uomo Ragno, Hulk, Batman, e tutti gli altri, diventati cineserie sempre più fantasmagoriche, lussuose, intelligenti, sotto la direzione di grandi registi, hanno trascinato i cinefili, soprattutto i più attenti e raffinati, a tener conto che la grande critica poteva benissimo conciliarsi con i gusti del grande pubblico. Come è capitato con la trilogia diretta dall’inglese Christopher Nolan, Batman begins, 2005, Il cavaliere oscuro, 2008, e all’inizio di quest’anno Il cavaliere oscuro – Il ritorno. Piera Detassis, direttore del cinemensile Ciak, anticipa i risultati del sondaggio 2012, che ha promosso come miglior film dell’anno e miglior regista proprio Il cavaliere oscuro – Il ritorno e Christopher Nolan, e ancora come miglior attore e miglior cattivo Tom Hardy, l’orrido e psicopatico Bane del film, e anche Christian Bale, cioè il malinconico, depresso, solitario Bruce Wayne, che gli basta una tutta di pelle nera con le orecchie a punta per diventare il supereroe Batman che salva Gotham City, cioè New York; tra le migliori attrici le due signore che circuiscono Wayne-Batman, la Catwoman di Anne Hathaway e l’ambigua Marion Cotillard. Se soprattutto il pubblico giovane si è lasciato trascinare dal film, il merito dipende più che dai sfruttatissimi comics a cui si è ispirato, dalla capacità del quarantenne regista, che rifiutando l’insulso 3D, è riuscito a creare immagini notturne di minaccioso incanto metropolitano, un mondo di crudeltà, sfida e rinuncia, in cui l’inquieto pubblico di oggi sembra perdersi nella malinconia di un comune destino batmaniano. La trilogia diretta da Nolan è uno dei casi sempre più rari in cui una grande produzione, un regista di talento, degli attori geniali, riescono a staccarsi dalla fonte letteraria, in questo caso dal fumetto, per creare un’opera originale, impregnata di cultura e disperazione contemporanee. Se no, tra tanti nuovi kolossal in cui il regista, pur bravo, si attiene fedel- mente al testo letterario, nessuno può essere definito d’autore. Secondo i cinefili più duri e puri, l’ultimo autore capace di creare immagini indimenticabili, di scardinare il modo di pensare, realizzare, vedere, amare un film contro ogni convenzione, elevando i sottogeneri ad arte, è stato Quentin Tarantino, che nel 1994, con l’Oscar Pulp Fiction ha influenzato il linguaggio e l’immaginario di un’intera generazione, e con il suo nuovo film Django Unchained pare abbia raggiunto inimmaginabili livelli di violenza che ancora una volta destabilizzeranno e incanteranno il pubblico. In passato erano tanti i film che segnavano il loro tempo, che incantavano, turbavano, si insinuavano per sempre nella memoria; come Apocalypse Now o Blade Runner, che se pure di ispirazione letteraria (Joseph Conrad, Philip K. Dick), erano stati ricreati completamente dai registi Francis Ford Coppola e Ridley Scott; film d’autore, quindi. Oggi il cinema si difende affidandosi a storie universali e sicure come i capolavori della letteratura o anche ai suoi sottoprodotti popolari, e soprattutto alla grandiosità spettacolare, a una supertecnologia dai risultati infantili, alla ricchezza delle scene e dei costumi, a divi belli e bravi, che come tali non durano ormai più di qualche film, affannosamente sostituiti da altri più belli, più bravi e soprattutto più nuovi. Hugo, Dickens, Fitzgerald, nella loro nuova versione superlusso e molto costosa, sono anche armi di una guerra dell’industria cinematografica per tornare a vivere soprattutto nell’ambiente che più lo esalta, la grande sala, e per difendersi dagli altri mezzi di diffusione, il computer, l’iPad, il cellulare, che lo nanizzano, lo umiliano, lo degradano.