ERRI DE LUCA
"La Repubblica", 11 agosto 2013
Spuntano giorni che non me la sento, eppure mi sveglio lo stesso al buio, mi scaldo il caffellatte, inghiotto la fetta spalmata, faccio volare lo zaino sulla spalla e mi avvio. Penso che è comunque un giorno di libertà all'aria aperta e che da qualche parte esiste un contatore di queste giornate. Se rinuncio me ne tolgono due da quelle destinate.
Porto oggi in parete mio cugino. È già venuto un paio di volte, ha iniziato a scalare con me a cinquant'anni. Si affida alla mia scelta delle linee da percorrere. Si lega all'altro capo della corda per raggiungere una cima e ritornare più leggeri e illesi. È d'accordo con me che il punto più alto di una scalata è solo la metà del viaggio, che si completa in fondo alla discesa.
L'alpinismo vede nelle montagne sagome di torri, bastionate, muraglie: opere difensive da assediare. L'alpinista chiama attacco l'esatto punto d'inizio della scalata. La mia immaginazione invece scorge nelle montagne le parti di un corpo che si solleva: gobbe, gomiti, ginocchia, pugni chiusi, sessi femminili e maschili. Vedo l'anatomia di una folla di giganti emersi dal fondo del mare, incrostati di fossili e conchiglie. Le Dolomiti furono coralli.
Oggi punto a una parete simile a una schiena che termina con un collo, senza testa. Per estetica immagino che sia di donna. Andiamo in silenzio su per la salita di avvicinamento. Anche se luglio, stanotte ha nevicato. Mi spiace lasciare tracce del mio passaggio in montagna. Bastano e avanzano quelle su carta. Mi consola il pensiero che con l'arrivo del mattino le impronte sulla neve si dilegueranno. Il sole è uno spazzino bravo quanto il vento. I nostri passi scricchiolano pestando la cristalleria dei fiocchi irrigiditi. È il rumore del freddo e dell'azzardo festivo e volontario, opposto a quello del turno di lavoro. Spuntano giorni operai più duri, perché il corpo è svuotato e deve fare lo stesso l'opera di facchino fino a sera. Così pure in montagna vengono giorni che il corpo non vuole. Lo forzo per diversa ragione e salgo sentendo il suo peso contrario.
Mio cugino vorrebbe dire qualcosa per sciogliere la tensione di andare a giocare col vuoto. Non lo assecondo. Mi chiede: «Non è che troviamo la neve in parete? ». Rispondo: «Asciuga». Insiste: «Hai visto le previsioni del tempo per oggi?». Rispondo: «Non promette». Intanto sbiadiscono le stelle e si accende la cima di un monte con il primo sole. Coincide con il nostro primo sudore anche se la temperatura è ancora a zero. Il fiato ha perso l'affanno e ha preso il suo sbuffo regolare. La cassa di cuore e polmoni ha raggiunto il ritmo musicale che fa buona la marcia.
Più ci avviciniamo alla parete, più vasto è il suo fronte che esclude tutto il resto. Già da un'ora la cima è scomparsa oltre i salti di roccia. Raggiunta la base, cavo dallo zaino le due imbracature, la corda, i moschettoni e le scarpette di arrampicata. Mio cugino è scontento, oggi non mi esce una parola, peggio del solito. Finisco i preparativi, gli ricordo le manovre di corda che spettano a lui, infine gli volto le spalle e tocco la parete con le mani. Tolgo il primo piede da terra e così parto. Il primo metro di scalata è umile: bussa piano alle porta. È arrogante: vuole strisciare fino all'ultimo piano. La roccia è fredda, le dita perderanno sensibilità in pochi metri e dovrò scaldarle. Non soffiandoci sopra: il fiato umido le raffredda peggio. Vanno infilate nel collo. Il corpo è lento, rigido, fa attrito, solo la testa vuole scalare stamattina. Lo trascino come un cane al guinzaglio che s'impunta.
Da una parete vicina l'acqua si butta a precipizio, il suo tuffo copre ogni altra voce. Sì, l'acqua ha una voce, parla di neve sciolta a gocce che si accorpano in discesa e diventano folla di un corteo che grida in coro. Esistono in montagna ore di puro ascolto. L'acqua nei salti si pulisce da quello che trasporta, poi nel torrente brilla. Le ultime falangi delle dita sono le mie staffette per aprire il passaggio verso l'alto e sono intorpidite. L'alpinista su una parete a strapiombo va a tentoni, perciò sulla punta delle dita si concentrano i sensi. Con le falangi tocco ma anche vedo, e ascolto battendo l'appiglio per sentirne il suono prima di caricarci il peso. Con le falangi delle dita assaggio. In pochi metri sono fuori di vista di mio cugino che mi dà corda alla base della parete. Non voglio fargli vedere che stento a scalare, non per un orgoglio, ma perché se mi vede in difficoltà si scoraggia e dubita di riuscire. Intorno la fascia di sole si sta abbassando dalla sommità prendendo posto nel mondo di sotto. L'incontrerò a metà scalata. Mi fermo per infilare a turno le dita nel collo. Riparto per volontà di testa che si ostina. Salgo e non mi accorgo di sbagliare linea verticale. Seguo una serie di appigli che si riducono fino a quasi niente. Ho messo una protezione molti metri sotto e mi trovo in un punto nettamente al di sopra della scala di difficoltà prevista per la nostra scalata. Ho un minuscolo appoggio di piede che alterno tra destro e sinistro, in alto le dita toccano piccoli appigli svasati. Guardo di sotto e penso a come rifare all'indietro il muro che ho arrampicato. La testa non ce la fa a proseguire e preferisce l'azzardo di scalare in discesa.
Mentre mi sto decidendo, sento il corpo svegliarsi. Ha fiutato il pericolo, reagisce. Fa come il mare dell'alba quando piglia la prima brezza e investe a chiazze la sua superficie. Si contraggono i muscoli del bacino, dalla spina dorsale lungo la schiena arriva un calore alle scapole, alle spalle. La ghiandola ha spremuto la sua goccia di adrenalina che è nitroglicerina ed esplode nei tessuti. Il corpo è uscito allo scoperto, fuori dal guscio. La sua superficie non assomiglia più al mare sotto brezza, ma alla corrente ascensionale di una parete al sole. Ultimo segnale di prontezza è un desiderio di svuotare urina.
Il corpo ora costringe la testa a guardare in su e a tastare di nuovo le piccole prese svasate. Al tocco sento la spinta del corpo che vuole forzare il passaggio verso l'alto. «Aharai», dietro di me, è il comando del capo di un gruppo di soldati della scrittura sacra, quando si mette davanti ai suoi e avanza allo scoperto. «Dietro di me», questo fa il corpo e ordina alla testa di seguirlo. Il respiro soffia colpi di fiato secchi e si trascina dietro tutto il me stesso al seguito. Mi sposto verso l'alto, uso prese incerte, i piedi caricano il peso su aderenze invece che su appoggi. Ci sono punti di una scalata in cui conta il verbo tenere. Tengo quelle prese e mi tengo, questo è tutto.
Arrivo a una specie di ballatoio, faccio un ancoraggio per la sosta. Da lì mantengo tesa la corda con la quale aiuto mio cugino a scalare in sicurezza per raggiungermi. Mentre lui sale, penso al centimetro di appiglio che ho usato accanto al raponzolo di roccia, che col suo fiorellino viola se ne sta impettito in mezzo all'immensità minerale della parete a picco. Penso al vento di un branco di camosce che mi ha sfiorato in corsa su un ghiaione in discesa. Penso al vecchio maschio solitario accovacciato in pace sotto una cima, che non si è fatto disturbare dalla mia poca presenza e così mi ha fatto onore più di un invito a corte. Conosco un cirmolo che si sporge su un precipizio e che ha saputo ributtare dopo essere stato incendiato dalla folgore. Devo alle montagne i più insperati incontri con le sole creature degne del titolo di Vostra Altezza. Accanto a una croce di cima, a segnavia tra termine di suolo e inizio di universo, ho amato nostra madre terra come un figlio.
Intanto mio cugino annaspando e litigando con le prese mi raggiunge sul ballatoio. Posso ripartire verso l'alto, mi allontano di nuovo da lui che ripiglia fiato. Scalando faccio questo: mi allontano dal suolo, senza per questo avvicinarmi al cielo. Da qualunque cima raggiunta quello è rimasto remoto e vuoto. I costruttori della torre chiamata poi Babele, conobbero per primi lo sgomento di avere raggiunto nient'altro che il punto e a capo di un'altura. Il cielo che volevano abitare non poteva essere attinto dalle loro scale.
Il resto dell'arrampicata è un'aggiunta di metri all'abisso. Il corpo va con le falangi e i polsi sulla pista della salita a quattro zampe. La testa segue docile come una coda. Scalare le toglie la supremazia, non è più la sommità dello scheletro, ma una scatola ossea che accompagna e registra. In cima alla parete a forma di schiena, oltre l'ultima vertebra, c'è il risalto a forma di collo. È il percorso più facile e lo scaliamo insieme a corda corta. Dove finisce l'ultimo passo verso l'alto, la testa riprende il suo posto e il suo turno di sentinella sugli spalti. Guardo l'orizzonte dove altri corpi di montagne sono una folla di giganti imprigionati al suolo. Da un punto del perfetto angolo giro scatarrano tuoni e sputano fiammelle di saette. È invito a sgomberare in fretta. La montagna si spulcia della presenza di noialtri intrusi, ospiti di passaggio della sua bellezza.