Lawrence Ferlinghetti, la mia America sta diventando un Terzo mondo
Incontro con il poeta della Beat Generation mentre a San Francisco si celebrano i suoi 95 anni
I viaggi con Ginsberg, un ricordo di Castro, l’infelice Urss di Stalin
Mauro Aprile Zanetti
"La Stampa", 27 marzo 2014
«Ecco un Ferlinghetti molto più politico, una voce per i poeti del dissenso». Robert Weil, direttore della Liveright Publishing, ha presentato così il nuovo progetto editoriale, Writing Across the Landscape: Travel Journals (1950-2013) di Lawrence Ferlinghetti. L’edizione prevista per il 2015, a cura di Giada Diano in collaborazione con Matthew Gleeson, includerà un’estesa diaristica, appunti di viaggio. A parte uno dei suoi primi memoir che risale alla fine degli Anni 40 – dove racconta dello sbarco in Normandia andando su e giù per l’Atlantico su una carretta di mare, guidando un pugno di sbarbatelli verso la liberazione dell’Europa dal nazismo –, l’itinerario dell’avventuriero Ferlinghetti ci porta in Cile, a La Paz in Bolivia, «il più povero e miserabile paese in cui io sia mai stato; persino più povero di Haiti», in Messico e Nord Africa, a Cuba, nella Spagna di Franco, nell’Unione Sovietica e in Nicaragua sotto i sandinisti, senza dimenticare la Francia e la sua adorata Italia.
Sessant’anni di viaggi in giro per il mondo? «No, a dire il vero sono 95», corregge lui, ridendo. A dimostrazione che «San Francisco era ed è ancora l’ultima frontiera» di resistenza della Beat Generation, agli antipodi dell’attuale Bit Generation, questa settimana la leggendaria libreria City Lights dedica una serie di iniziative al suo fondatore che compie 95 anni. È un Ferlinghetti in ottima forma, illuminato da una luce serafica, agile e spietato d’intelletto, politico più che mai, lirico nei suoi montanti, stracolmo di umorismo con tinte di cupezza «sull’avvenire della terra e la razza umana». Gli fa perfettamente eco l’allarme sollevato in questi giorni da Paul Krugman sul «capitalismo patrimoniale» secondo l’accezione di Thomas Piketty. Alla domanda su cosa può dirci dopo un secolo di vita, risponde lapidario: «Questo sarà l’ultimo secolo degli umani sulla terra».
Il poeta di North Beach è molto preoccupato di quanto poco stia facendo la politica. Dopo tutto quello che ha visto (Nagasaki inclusa), tra comunismo e capitalismo, è la poesia che lo ha salvato? «A dire il vero è alquanto difficile scrivere poesie in questi giorni, dinanzi alla tragedia che viviamo come pianeta. E il capitalismo ora è veramente fottuto - il comunismo lo è già stato -, specialmente negli Stati Uniti, dove ogni cosa è veramente incasinata: i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri. Se i repubblicani vincono le prossime presidenziali sarà un disastro».
Che ne è della middle class e all’American dream? «Beh, il Paese sta piuttosto diventando un Terzo mondo. E abbiamo l’invasione dell’innovazione.com: il denaro della Silicon Valley che compra la città. Abbiamo anche un sindaco che è completamente a favore di questo business. Uno dei principali pericoli è che il capitalismo nel suo più completo sviluppo è un nemico della democrazia. I poveri perdono persino la loro rappresentanza secondo la linea repubblicana. Ogni trionfo per il capitalismo è una sconfitta per la democrazia».
La conversazione tocca anche l’ex premier italiano Berlusconi: Ferlinghetti non si capacita di come possa ancora essere in giro. Scherza sulla sua ossessione per l’altezza, e racconta degli stivali di Castro che per l’appunto lo rendevano anche più alto di lui quando furono faccia a faccia a Cuba agli albori della rivoluzione. Quando sente dei lavori socialmente utili che dovrà fare Berlusconi, ride di cuore tra l’ipotesi di badante per anziani o in convento con le suore. Di papa Francesco, di cui condivide «la rivoluzione con la tenerezza», dice: «È il primo con un cervello, speriamo non lo ammazzino».
«Il mio primo viaggio come poeta all’estero - continua - fu con Allen Ginsberg a Concepción in Cile. Poi andai a Machu Picchu, su cui scrissi la poesia Hidden Door, ispirato a Las alturas di Pablo Neruda. Lo stesso anno a Cuba, in un bar, io e mia moglie Kirby incontrammo due giovani che dissero di essere poeti e collaboratori di Lunes de Revolución. Avevano pubblicato Ginsberg, Kerouac, Corso, e anche alcune delle mie poesie. Quando realizzarono che ero io, dissero che avevano letto tutto di me, chiedendomi se volevo incontrare Fidel. Perché no, risposi». Ed ecco, verso la fine del pasto, l’epifania: «Questo uomo grande e alto venne fuori dalla cucina in divisa militare, fumando un sigaro. Chiesi ai giovani poeti se mi potevano presentare. E loro risposero che non lo conoscevano. L’unica cosa che potevo dire in spagnolo era: “Soy amigo de Allen Ginsberg”».
Ferlinghetti ride molto divertito e continua: «Allen l’aveva incontrato a New York al Lenox Hotel, quando cercava finanziamenti. I governi e le banche non gli volevano prestare denaro. Così andò a cercarlo in Unione Sovietica, perché noi gli avevamo girato le spalle. Fu stupido da parte degli americani. Quando incontrai Fidel mi sorprese vedere che quel “feroce dittatore” era zoppicante e tremolante. Era tutto solo, quando venne fuori guidò una jeep aperta senza guardie. Era l’inizio della rivoluzione cubana, il tempo dell’euforia, quando tutto era grandioso. Pablo Neruda era in città, allora questi giovani poeti mi dissero che avrebbe fatto un reading di fronte a tutti i castristi e mi chiesero se volevo andare a sentirlo. Quando entrai nel Senato vidi una ressa: tremava ogni cosa! Entrarono tutti con una divisa militare e il sigaro in bocca. C’era grande eccitazione. Quando salì sul palco ci fu un applauso di massa. Tempo dopo ebbe molte discussioni e un sacco di disaccordi con Cuba. Neruda era comunista. Fidel non era uno di quelli del gruppo originario. Era uno di quegli studenti universitari, intellettuali. Non erano gli operai del partito. Anni dopo, quando ero in Nicaragua, lessi che Fidel aveva dichiarato: “Non sono un seguace del comunismo, ne sono una vittima”. Beh, è ancora vivo!».
Ultimo flash di Ferlinghetti: un passaggio sul suo viaggio in Russia, prendendo la Transiberiana nel 1967, gli permette di descrivere la vita sotto Stalin. «C’era un enorme striscione che glorificava l’anniversario dei 50 anni della Rivoluzione, e un’orda umana lungo la strada, tutti vestiti di nero. Sembravano completamente infelici. Andai in un cinema: non mostravano che film di propaganda, con musica marziale, truppe che marciavano. Il pubblico sedeva in assoluto silenzio per tre ore, dopo di che si trascinava fuori muto. Era così patetico. Era la gloria del 50° anniversario del comunismo!».
Bob Donlin, Neal Cassady, Allen Ginsberg, Robert LaVinge, e Lawrence Ferlinghetti (da sinistra a destra) all'esterno della libreria "City Lights" di Ferlinghetti a San Francisco |
Il “ribelle” che all’alcol preferisce il cappuccino
Claudio Gorlier
Conosco Lawrence Ferlinghetti da cinquant’anni, quando cominciai a frequentare la sua leggendaria libreria, City Lights Books, sulla Columbus a San Francisco, un punto ribollente di incontri creativi. Nel 1955 fu lui a pubblicare Howl, Urlo, il poema di Allen Ginsberg a causa del quale subì un processo per oscenità, e che in qualche modo segna la nascita della Beat Generation, di cui Ferlinghetti rimane, a mio avviso, uno dei tre supremi protagonisti, con Ginsberg e Jack Kerouac, l’autore dell’altro testo canonico beat, il romanzo Sulla strada. Perché beat? Ironicamente, dicevano loro, come abbreviazione di beaten, sconfitto, ma anche di beatitude, beatitudine. Come ha osservato Thomas Parkinson, lo studioso più qualificato dei beat, il significato più autentico era, più ancora che «rivolta», «ribellione», una ribellione a 360 gradi, contro l’ipocrisia oppressiva delle istituzioni, del costume, della società letteraria, dell’America perbene.
La poesia e la prosa di Ferlinghetti, pur altrettanto sperimentali delle altre opere dei beatnik (termine insieme qualificante e derisorio), possiedono una misurata intensità, direi una spazialità verbale, culminando nel ritmo disteso ma penetrante di A Coney Island of the Mind (Coney Island della mente, 1958) e del programmatico Poetry as Insurgent Art (Poesia come arte che insorge, 2009). Persisto nel ritenere che Ferlinghetti sia, osservato in prospettiva, il direttore di orchestra della beat generation nella sua autenticità e genuinità californiana. Ma attenzione: Ferlinghetti non è stato mai, pur nella sua densa ironia, un ribelle integrale. Niente alcol, niente droga, mi è capitato di osservare, solo cappuccino, a differenza degli altri beat. A San Francisco gli hanno persino intitolato la piccola via accanto alla libreria. Tieni duro, Lawrence.