domenica 25 maggio 2014

Federico II, l’incontro di civiltà


Esecrato dal Papa, additato come l’Anticristo, 
l’imperatore favorì i rapporti tra Cristianesimo e Islam

Alessandro Barbero

"La Stampa",  22 maggio 2014

«E vidi salir dal mare una bestia piena di nomi di bestemmia»: così, con una citazione dell’Apocalisse, papa Gregorio IX aprì la bolla in cui denunciava i delitti dell’imperatore Federico II, che i suoi ammiratori chiamavano stupor mundi. A dar retta al Papa, Federico considerava Cristo un impostore, metteva in dubbio la sua nascita da una vergine, e preferiva l’Islam al Cristianesimo. Non c’è da stupirsi se molti fedeli credettero di riconoscere in lui l’Anticristo, che doveva mettere il mondo a ferro e fuoco preannunziando la fine dei tempi. I più convinti erano i seguaci dell’abate Gioacchino da Fiore, il mistico calabrese che aveva profetizzato per il 1260 la rovina dell’Anticristo e l’avvento di un’età nuova. Quando, nel 1250, si sparse la notizia che Federico II era morto - senza aver conquistato il mondo, come avrebbe dovuto fare l’Anticristo - il francescano Salimbene da Parma non voleva crederci, e si disperò: la profezia era sbagliata, l’Anticristo non era lui e bisognava ricominciare ad aspettarlo.
Attraverso il clamore delle testimonianze contrastanti, delle maledizioni apocalittiche e degli elogi cortigiani, par d’intuire che nei suoi ultimi anni Federico II si trasformò davvero in un tiranno malefico, come accade ai despoti abituati male da troppi decenni di potere e inaspriti dai fallimenti. Fece ammazzare tanta gente, e spesso senza buoni motivi: così si offuscò la leggenda dell’imperatore dotto e splendido, che fondava università, promulgava codici di leggi, costruiva meraviglie come Castel del Monte, assisteva a esperimenti scientifici e nei ritagli di tempo scriveva di suo pugno quel De arte venandi cum avibus che non è solo un manuale di falconeria ma un vero trattato di zoologia.
Ma almeno una delle accuse che i Papi scagliavano contro lo stupor mundi suscita piuttosto la nostra ammirazione, e anziché contribuire alla leggenda nera alimenta semmai il mito d’un Federico lontano e superiore rispetto al suo tempo: e sono i rapporti che intrattenne col mondo musulmano. Certo, oggi siamo lontani dagli entusiasmi di Jacob Burckhardt che vedeva in lui il primo uomo moderno; ma certamente Federico fece tutto quello che poteva per contrastare il clima da scontro di civiltà in cui il mondo europeo e mediterraneo era precipitato all’epoca delle crociate.
I musulmani Federico li aveva in casa, giacché prima d’essere imperatore era re di Sicilia. Certo, non erano più i tempi in cui gli scrittori arabi esaltavano la Sicilia come la provincia più ricca del mondo islamico, e neppure quelli di suo nonno Ruggero II, nella cui cancelleria lavoravano fianco a fianco notai latini, greci, ebrei e arabi. All’inizio del suo regno Federico aveva ancora al suo servizio qualche funzionario arabo, però battezzato. Dotti musulmani a Palermo non ce n’erano più; ma c’erano alcuni dotti ebrei, cui l’imperatore commissionò traduzioni dall’arabo. Federico aveva una gran voglia di discutere con i sapienti islamici, e scrisse al sultano del Marocco ponendo una raffica di quesiti filosofici e scientifici, cui sperava che i dotti di laggiù potessero rispondere. Uno di loro, Ibn Sabin, in effetti gli rispose, anche se in tono piuttosto sostenuto, invitandolo a impadronirsi un po’ meglio della terminologia filosofica, e osservando che se aveva tanta sete di verità avrebbe fatto meglio a cominciare convertendosi all’Islam.
Ma se non c’erano più dotti, la Sicilia di Federico II era ancora piena di contadini musulmani, impoveriti e vessati dopo la riconquista cristiana. Molti di loro, riparati nelle zone montagnose e poco accessibili di Monreale e del Val di Noto, erano in stato di ribellione endemica. Federico cercò di reintrodurre le colture in cui erano più esperti, come l’indaco, lo zucchero, l’henné, ma soprattutto pubblicò leggi in loro favore, per impedire che fossero maltrattati dai suoi funzionari. Musulmani ed ebrei dovevano avere la possibilità di rivolgersi alla giustizia come tutti gli altri sudditi, e non bisognava che fossero trattati diversamente dai cristiani né sottoposti a vessazioni.
Ma quando i ribelli delle montagne catturarono il vescovo di Agrigento e lo tennero prigioniero per un anno, Federico perse la pazienza. È forte la tentazione di definire pulizia etnica le ripetute campagne che i soldati del re condussero in Sicilia, al termine delle quali non c’erano più musulmani nell’isola. Un grande storico del mondo mediterraneo come David Abulafia ha proposto, non credo con molta ragione, di vedere nella guerriglia dei saraceni le remote origini della mafia; semmai è più curioso scoprire che Federico, per ripopolare le campagne devastate, organizzò il trasferimento in Sicilia di grossi contingenti di emigranti reclutati in Piemonte, e che da loro discendono gli abitanti di Corleone. Ma il punto cruciale è che i saraceni catturati, se rifiutavano di convertirsi al Cristianesimo, non vennero messi a morte com’era abituale in clima di crociata, ma risistemati in Puglia, la provincia più amata da Federico, dove il re donò loro una città. A Lucera, dove la cattedrale era opportunamente crollata e il vescovo s’era dovuto trasferire altrove, vennero risistemati 15.000 musulmani, e fra di loro l’imperatore reclutò una guardia di fedelissimi. 
Per i polemisti di parte papale, quei saraceni che accompagnavano Federico sui campi di battaglia erano la prova che l’imperatore preferiva Maometto a Cristo. Del resto, quando dopo molte insistenze l’imperatore si era deciso a partire per la crociata, non aveva rovinato tutto mettendosi d’accordo col sultano e trasformando Gerusalemme in una città aperta, dove cristiani e musulmani avevano ciascuno i propri spazi? Da entrambe le parti gli integralisti, che non mancano mai, erano inorriditi. Per noi tutto questo è piuttosto la prova che lo stupor mundi, per quanti delitti abbia commesso, era un uomo che sulla convivenza tra fedi diverse aveva saputo andare avanti, e non solo rispetto al suo tempo.

Vi spiego perché Ovidio è un gioco da ragazzi


Il volume con la traduzione commentata delle “Metamorfosi”

Vittorio Sermonti

"La Repubblica", 19 maggio 2014


Guardiamoci negli occhi, amico mio: il problema non è perché mai io abbia tradotto le Metamorfosi di Ovidio, e le abbia tradotte proprio così. Ma il problema vero francamente mi sembra un altro: perché mai tu dovresti leggerle, queste Metamorfosi di Ovidio? Potrei dire: leggitele, e poi mi rispondi! Ma se tu mi chiedessi - richiesta più che ragionevole, data anche la stazza del volume - chi te lo fa fare, suggerirti una risposta su due piedi non sarebbe la cosa più semplice del mondo. [...]
Eallora? Allora mi prenderò il lusso di semplificare: le Metamorfosi sono un libro sull’adolescenza, un dizionario mitologico dell’adolescenza che canta il corpo dell’uomo in mutazione incarnandolo in figure letterarie. Vuoi che semplifichi ancora di più esemplificando? Prendi il famoso Narciso. Chi è, che cos’è “Narciso”? È, come saprai anche tu, il nome di un ragazzo bellissimo, figlio di un fiume e di una ninfa, che specchiandosi nell’acqua d’un laghetto si innamora della propria immagine; ma è anche quella categoria clinica, che consiste appunto in un esclusivo, maledetto amore di sé (mai sentito parlare di narcisismo? mai praticato?); ma è anche un fiore color zafferano con i petali bianchi. La metamorfosi si compie all’interno di un nome. Un ragazzo diventa una sindrome che diventa un fiore, restando disperatamente l’io che era. Innamorato, spaventato di sé.
Le Metamorfosi di Ovidio sono proprio il poema dell’adolescenza come esperienza della labilità e vulnerabilità dell’identità, mentre il tuo corpo non fa che cambiare, che cambiare te stesso sotto i tuoi stessi occhi. E tu non sai più chi sei. Vorresti amarti di più, ma non sai chi dovrebbe amare e chi vorrebbe essere amato. E senti il tremore della «inespugnabile solitudine» che punisce ogni bellezza, che ogni bellezza si merita. Ma l’illusione non demorde: il ragazzo Narciso sa bene di essere lui l’oggetto del proprio amore, e ne muore lo stesso; va nell’Ade e continua a specchiarsi nell’acqua del fiume Stige. L’illusione si illude.
Assumere però il bel Narciso a prototipo dell’eroe in mutazione è un arbitrio come un altro. Perché nel nostro libro le mutazioni ininterrottamente si accavallano ricorrendo il più delle volte a qualche inattendibile pretesto: una omonimia, un doppio innamoramento simultaneo, una coincidenza topografica... ed ecco sgranarsi un incredibile assortimento di storie, scandite da scarti di timbro, aritmie, modulazioni, tracciate talora da un’ironia micidiale, sull’orlo talora del gossip, dove dèi bugiardi ed erotomani ed eroi o eroine spesso assai discutibili ragionano le loro pulsioni cieche con cavillosità avvocatesca; dove però ad ogni passo può spalancarsi il crepaccio della tragedia o, comunque, una smorfia del racconto che assecondi il nostro bisogno segreto di mostri...
Ma ripensando l’impressione che mi fa la baraonda di queste favole a ripensarle tutte in una volta, vedo semmai il disordine che instaura un bambino quando, in una stanza dove ne ha fatte di tutti i colori, tenta di ripristinare l’ordine senza ricordarsi bene dove erano gli oggetti, né perché fossero lì: ordine mirato a realizzare puntigliosamente un “effetto ordine”, che rappresenta insieme la perfezione e la parodia di ogni perfezione. Come “effetto” passi, ma non scherziamo!
Alla resa dei conti, sia ben chiaro, tutta la strepitosa messinscena delle Metamorfosi di Ovidio non ha nulla di puerile, e tanto meno di adolescenziale. Anzi, è governata da un geniale uomo di mondo, che naturalmente non crede a quello che racconta (additandoli come responsabili di tutto quello che capita in cielo in terra e in mare, egli non manca di precisare che i suoi dèi è molto probabile non esistano affatto), ma gli piace far finta che tu ci creda (sapendo naturalmente che non ci credi neanche tu), e così con la leggerezza, con l’irresponsabilità di un canto spiegato, facendo onore al delicato nonsenso di essere sempre quelli stessi che siamo diventando continuamente altri, ci fornisce una scheggia di verità sottratta alla opacità del reale, alla pedanteria della verisimiglianza: cioè la famosa, inutile, insostituibile poesia. Finché, d’accordo, non arriva la Vecchia Falciatrice (che in un modo o nell’altro arriva comunque) a renderci definitivamente il ricordo animale, vegetale, minerale di noi stessi. E quella di diventare un ricordo concreto di sé, almeno fin tanto che goccioleremo resina o mirra nella memoria di qualchedun altro, non è detto sia la più lugubre delle metamorfosi.
Coraggio, amico mio, chiunque tu sia, qualunque età ti succeda di avere! Prova! e se cominci, c’è anche caso che il compito obsoleto della lettura si trasformi, annaspando in questo assurdo capolavoro, in un vizio ostinato e sottile per il te sconosciuto che sei. E se è troppo sperare che il poema dell’adolescenza interessi anche qualche adolescente, io spero lo stesso.

Dante. Altro che Commedia!


Esce il secondo tomo dei «Meridiani». 
Le opere politiche e filosofiche delineano un audace progetto culturale

Gianluca Briguglia

"Il Sole 24 ore",  18 maggio 2014

Dante filosofo e pensatore politico è il protagonista del secondo volume delle Opere di Dante, edizione diretta da Marco Santagata, appena uscito per i Meridiani Mondadori. Il corposo volumetto, quasi duemila pagine, propone infatti il Convivio, cioè il grandioso e non concluso esperimento filosofico dantesco in lingua volgare, la Monarchia, con cui Dante, in latino, dimostra la necessità di un governo universale, le Epistole, che testimoniano di un Dante che è anche parte attiva della politica del suo tempo e le Egloghe, unica testimonianza poetica dantesca in latino.
«Tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere»: è con la citazione di Aristotele che si apre il Convivio e si annuncia il progetto rivoluzionario di cui è portatore, cioè la possibilità di una vera filosofia in lingua volgare. Dante – che dei quindici trattati previsti per il Convivio ne porta a compimento quattro, con il commento a tre canzoni – vuole mostrare «la gran bontade del volgare del sì», che è capace di esprimere «altissimi e novissimi concetti convenevolmente, sufficientemente ed acconciamente». Gianfranco Fioravanti, raffinato studioso della filosofia medievale e curatore di questa edizione del Convivio, nel suo imponente commento mostra come la cultura filosofica di Dante si nutrisse della conoscenza diretta di un buon numero di opere aristoteliche, ma anche del complesso Liber de causis e di testi importanti di Alberto Magno fino alla Summa contra Gentiles di Tommaso d'Aquino. Il Convivio non è infatti una semplice opera di divulgazione di contenuti filosofici in volgare. Si tratta invece di un progetto di radicale rinnovamento della cultura e della società: gli intellettuali delle università, i chierici e il loro latino, hanno chiuso il sapere in un monopolio linguistico e di ceto che il volgare vuole rompere. Il sapere va trasmesso ai molti, perché solo così si moltiplica per tutti, proprio come il pane evangelico. I destinatari dell'opera sono allora «principi, baroni, cavalieri e molt'altra nobile gente, non solamente maschi ma femmine, che sono molti e molte in questa lingua, volgari, e non litterati». Il quarto trattato, aperto dalla canzone Le dolci rime d'amor ch'io solìa – che Claudio Giunta, curatore delle tre canzoni del Convivio, ci aiuta a comprendere anche nel quadro dell'evoluzione personale delle scelte linguistiche e tematiche di Dante – è allora un esempio di quaestio filosofica in volgare, ed è un'indagine razionale sulla vera nobiltà, tema essenziale per capire come la società vada intesa e rinnovata. Fioravanti mostra la complessità della risposta dantesca: la vera nobiltà è data da un intreccio di caratteristiche personali, legate alla nascita, alla complessione, alla natura, all'ambiente, alla capacità individuale di coltivare i propri talenti; il «divino seme» cade nei singoli, ma non si esclude la possibilità di una concentrazione di «bene nati» in uno specifico lignaggio. La filosofia, in volgare, è rivolta a tutti loro.
La Monarchia – con cui Dante s'interroga sulla necessità di un governo universale, sulla missione storica del popolo romano, sulla relazione tra impero e papato – ci riconduce al contesto del latino e dell'originalissimo pensiero politico dantesco. Diego Quaglioni, curatore dell'opera e profondo conoscitore del pensiero giuridico medievale e moderno, nel corposo lavoro di commento prende posizione su interpretazioni classiche come l'idea che la Monarchia sia il semplice esercizio di un'«utopia politica» e la inserisce nello sviluppo del diritto pubblico del tardo medioevo, rendendo più chiara anche la specifica posta in gioco giuridica del discorso dantesco.
Quaglioni presenta qui un testo latino basato sull'edizione critica di Prue Shaw, ma che propone in molti punti specifici alcune scelte differenti. Particolarmente interessante è la discussione di Quaglioni su uno specifico manoscritto (l'Additional 6891) conservato alla British Library e non utilizzato dalla Shaw. Si tratta di un manoscritto del XIV secolo, già segnalato, che presenta alcune particolarità. Per esempio il copista, nell'indicare il titolo e l'autore dell'opera, si sente autorizzato a segnalare l'avvenuta morte di Dante («...la cui anima riposi in pace»): c'è dunque memoria di Dante ancora vivo? Se così fosse il manoscritto potrebbe allora risalire ad anni forse molto vicini alla stesura dell'opera. E questo renderebbe importante un altro particolare, cioè il fatto che, in questo manoscritto, un famoso inciso che rimanda al Paradiso («...come ho già detto nel Paradiso della Commedia»), presente nelle altre copie, si legge diversamente e ha tutt'altro significato. Certo sembra un dettaglio – che qui riportiamo perché fornisce al lettore anche uno scorcio sul complesso lavoro filologico delle interpretazioni storiche –, ma un dettaglio che per Quaglioni elimina uno dei pochi appigli interni sulla misteriosa cronologia dell'opera (gli interpreti infatti non sono in grado di dare una datazione univoca della Monarchia) e mette in questione alcune antiche certezze sul testo e sulla sua ricostruzione.
Le Epistole sono in massima parte indirizzate a personaggi politici di primissimo piano e comprendono anche la famosa e controversa lettera a Cangrande della Scala, in cui Dante spiega i princìpi di lettura e interpretazione della Commedia. Il commento e la cura di Claudia Villa consentono non solo una puntualissima contestualizzazione di temi e vicende, ma hanno il merito di intrecciare la scrittura delle epistole nel tessuto ampio dell'evoluzione di Dante e del suo immaginario politico e letterario.
Sono invece le Egloghe, corrispondenza poetica in quattro carmi in latino tra Dante e Giovanni del Virgilio, a chiudere il volume. Si tratta dell'ultima opera di Dante e della sua unica prova poetica in latino, sollecitata proprio da Giovanni del Virgilio, che apparteneva a quel gruppo di avanguardia classicista umanista di area padana che nel latino vedeva la forma espressiva più alta e dal quale Dante era rimasto significativamente distante. La bella introduzione di Gabriella Albanese, che cura le Egloghe e ne fornisce un'edizione critica, ci parla di un Dante nel pieno delle sue forze e della sua creatività, che a Ravenna esercita l'arte diplomatica per Guido da Polenta ed è lontano dalla mischia politica: in un contesto tanto favorevole, godendo anche del compimento del suo straordinario lavoro intellettuale, senza presagire la morte improvvisa, Dante stava forse già pensando con questi componimenti a un'altra eccezionale sfida letteraria, quella della poesia in lingua latina.

Dante Alighieri, Opere, edizione diretta da Marco Santagata, Volume secondo, Convivio, Monarchia, Epistole, Egloghe, a cura di Gianfranco Fioravanti, Claudio Giunta, Diego Quaglioni, Claudia Villa, Gabriella Albanese, Mondadori, I Meridiani, pagg. 2.000

domenica 18 maggio 2014

Dalle analisi di Kraus alle crisi attuali: parla Jonathan Franzen


“America detesto la tua ipocrisia”

Antonio Monda

"La Repubblica", 14 maggio 2014

NEW YORK. Jonathan Franzen ha scoperto la «rabbia come stile di vita» a ventidue anni, grazie alla lettura delle opere di Karl Kraus. Oggi, a più di trent’anni di distanza, dedica allo scrittore austriaco Il progetto Kraus (Einaudi, con traduzioni di Claudio Groff e Silvia Pareschi), nel quale analizza le intuizioni folgoranti e la personalità tormentata di colui che fu soprannominato “il grande odiatore”. Commentandone alcuni saggi, Franzen riflette con toni apocalittici sul parallelismo tra l’impero austro-ungarico e l’America di oggi.
Ma sin dalle prime pagine il progetto assume una valenza personale: le proprie scelte, passioni ed idiosincrasie sono messe in parallelo con quelle dello scrittore che «passava molto tempo a leggere roba che odiava, in modo da poterla odiare con cognizione di causa». La «diffidenza di Kraus verso la melodia della vita» viene attualizzata da Franzen parlando di Amazon, della miopia di fronte a cambiamenti epocali e dell’impoverimento della cultura contemporanea. «Kraus ha rappresentato un punto di riferimento fondamentale nella mia formazione» mi spiega nel suo appartamento dell’Upper East Side, dove una chitarra e alcune sculture risaltano nell’arredamento scarno. «La sua influenza è evidente nel mio primo romanzo La ventisettesima città, ma per Kraus la letteratura era poesia ed epigramma. La rilettura mi ha consentito di ammirare alcuni elementi e distaccarmi da altri».
Kraus accusa la stampa di ipocrisia: «Il disonesto abbinamento degli ideali illuministi con l’incessante e ingegnosa ricerca di profitto e potere ».
«Kraus era un giornalista, e conosceva quel mondo alla perfezione. Negli Usa c’è stata per quasi cento anni un’idea responsabile di giornalismo, nella quale non erano esenti tuttavia interessi e pressioni di ogni tipo. È stato il New York Times a cercare di affermare questa idea rispetto alle testate di Hearst, simili a quelle che Kraus combatteva in Austria. Non possiamo dimenticare che c’è chi è andato in prigione per difendere la libertà di stampa, ma oggi prevale chi urla più forte. Si tende a pubblicare prima le notizie e poi a verificarle».
Lei in passato ha tradotto Wedekind: com’è nata questa passione per la cultura mitteleuropea?
«Da ragazzo ho studiato il tedesco e poi ho imparato ad amare quella cultura di quella regione europea. Ora ho in progetto di tradurre un classico di Kafka, sapendo che ogni traduzione è un’interpretazione».
Non le sembra una forzatura il parallelo tra impero asburgico e Stati Uniti?
«Il potere degli Stati Uniti è superiore a quanto sia mai stato quello dell’impero austro-ungarico. A me sembra che il momento glorioso dell’America sia alle nostre spalle e stiamo retrocedendo sia sul piano militare che economico. Kraus, che nasce in una cultura umanista, è allarmato dall’abbraccio della tecnologia, della quale vede gli elementi antiumanistici: un argomento estremamente attuale».
Era un benestante e pieno di privilegi: da dove nasceva la sua rabbia?
«Nella società in cui viveva c’erano molti motivi per cui essere infuriati, ma nel fondo della sua anima era arrabbiato proprio perché era privilegiato. È un sentimento che mi appartiene molto».
Lei si scaglia contro la “tirannia della gentilezza”.
«Detesto l’ipocrisia della bontà esibita, e l’invito alla semplificazione morale. L’America è piena di persone perbene che hanno contribuito a rendere il paese uno dei più odiati del mondo. Per rimanere in campo letterario, è assurdo che non si possa dire che un libro è brutto per rispettare il lavoro dell’autore. Quando rifiutai di essere scelto da Oprah Winfrey mi reso conto che molti la pensavano come me ma nessuno lo aveva detto esplicitamente, con l’aggravante che facevo uno sgarbo a una persona che è donna ed anche di colore. C’è una grande differenza tra la bontà e la correttezza politica».
Lei cita Nietzsche quando afferma che c’è una «mentalità da schiavo alla base del giudizio morale».
«In questo caso c’è la differenza tra morale e moralismo, tipico di chi criminalizza le persone che giudica.
Kraus scrisse a proposito di Hitler «non mi viene in mente nulla».
«Può apparire una battuta a effetto, ma è un giudizio tragico, avvalorato dalla chiarezza con cui predisse l’orrore del nazismo. Ebbe analoga lungimiranza con la prima guerra mondiale: fu l’unica voce autorevole ad opporsi, mentre tutti gli uomini di lettere si schieravano patriotticamente con l’impero».
Come mai detestava Freud?
«Nell’intimo c’era un dato personale: Freud era l’altra grande personalità viennese in grado di raccogliere accoliti che lo veneravano in modo quasi religioso. E diffidava sinceramente della psicoanalisi».
Ennio Flaiano la definiva «una pseudoscienza inventata da un ebreo per convincere i protestanti a comportarsi come cattolici».
«È una battuta divertente, che minimizza tuttavia il rapporto degli ebrei con il senso di colpa, aspetto che i cattolici vivono in maniera troppo intermittente. L’aspetto meno interessante di Freud è proprio il tentativo di essere scientifico, mentre quello più interessante è il modo in cui descrive cosa significa essere una persona divisa».
Lei si schiera con veemenza contro twitter.
«La gente tende a non leggere i testi, ma solo quello che è stato scritto sui testi, e questo è un grave impoverimento. Il link di 140 caratteri priva di responsabilità sia l’autore che il lettore. Mi spiace che alcuni scrittori che ammiro come Rushdie invece cedano a questa debolezza».
Non crede che twitter sia soltanto un mezzo e come tale un’opportunità?
«Negli anni Trenta sono state costruite centinaia di dighe che sembravano un mezzo sicuro per assicurare l’energia. Ora si è visto che non è così e abbattere quelle dighe costa decine di volte più della costruzione. Non voglio neanche fare l’esempio della corsa al nucleare: quanti Chernobyl e Fukushima dobbiamo aspettare? Non tutto quello che è possibile è anche giusto».
Non le sembra un atteggiamento conservatore?
«A me sembra di contrastare il trionfo del consumismo, in mano a chi ha interesse unicamente il profitto: rivendico il fatto di non essere affatto cool e di affermare che sono questi gli strumenti della vera conservazione ».

L’appello Il New York Times: salvate Venezia


Carlo Antonio Biscotto

"il Fatto", 13 maggio 2014

Che la salvezza di Venezia con il suo inestimabile patrimonio di storia, arte e cultura stesse a cuore della comunità internazionale era da tempo più che un sospetto. Ieri se ne è avuta l’ennesima conferma. L’edizione online del New York Times ha ospitato a centro pagina un pezzo a firma Jim Yardley che ricostruisce la storia del tentativo di distruggere uno degli angoli più preziosi e intatti della laguna veneziana: l’isoletta di Poveglia. 
Poveglia è da molti considerata l’altra faccia di Venezia. Quanto Venezia è affollata di turisti, chiassosa, piena di negozi di souvenir, altrettanto Poveglia è silenziosa, appartata, senza gondole né negozi. A pochi minuti da piazza San Marco, ha tutta l’aria di un luogo dimenticato: un campanile di mattoni che troneggia su alcuni edifici abbandonati. L’isoletta, di cui pochi fino a qualche tempo fa ricordavano il nome, è salita prepotentemente alla ribalta quando è stata inserita dal governo tra le proprietà demaniali da mettere in vendita per risanare i conti pubblici e ridurre l’enorme debito pubblico. Poveglia è così venuta a trovarsi al centro di un doppio problema: da un lato la necessità nazionale di fare cassa, dall’altro l’insofferenza dei veneziani nei confronti di un turismo asfissiante e inarrestabile che ha reso invivibile il centro storico della celebre città trasformando l’asta per l’isoletta in una questione di Stato. Nel timore che anche Poveglia finisca nelle mani dell’internazionale del “mattone 5 stelle lusso”, un gruppo di veneziani si sta battendo per una diversa destinazione dell’isoletta. I veneziani chiedono che Poveglia divenga il rifugio dal caos della città, il luogo in cui i veneziani potrebbero andare a cercare un po’ di pace passeggiando tra i giardini, imparando a veleggiare o facendo un pic-nic. 
IL MOTTO della neonata associazione è “Poveglia per tutti”. La dirige l’architetto Lorenzo Pesola che spiega quali sono gli obiettivi dei veneziani raccolti intorno a lui: “Che Venezia abbiamo in mente per il 21° secolo? Dobbiamo trovare un equilibrio tra coloro che vogliono vedere Venezia per la prima volta e quanti non vogliono vederla per l’ultima volta”. L’asta ha luogo sotto gli auspici del ministro per l’Economia, cerimoniere di una operazione di dismissione di beni pubblici che non ha precedenti nella storia del ”Bel Paese”. Nel caso di Po-veglia il governo sta vendendo l’usufrutto per 99 anni mantenendo la nuda proprietà dell’isola. Mercoledì scorso è stato comunicato il risultato della prima fase dell’asta. Le due maggiori offerte sono state quelle di una multinazionale rimasta anonima e quella dell’associazione “Amici di Poveglia” che ha raccolto donazioni private di cittadini veneziani. L’offerta della multinazionale è stata di 513.000 euro, quella dei veneziani di appena 160.000 euro. Una gara impari. 
Venezia è diventata una specie di museo a cielo aperto, una città fantasma con una popolazione residente scesa al di sotto delle 50.000 unità e orde di turisti (oltre 20 milioni l’anno) e navi da crociera che hanno sfregiato il volto della città lagunare. E la speculazione non si ferma. Uno dei progetti in cantiere prevede la costruzione di un parco divertimenti in stile Coney Island. Alberto Zamperla, promotore del progetto, afferma che la realizzazione creerà moti posti di lavoro. I critici la ritengono un’altra tappa verso la definitiva “Disneyficazione” di Venezia. Ma per qualche strana ragione Poveglia ha suscitato maggiore emozione, forse perché l’isoletta si trova ad appena tre chilometri da Piazza San Marco, è considerata l’ultima zona “vergine” della Laguna e per le numerose leggende che l’hanno sempre accompagnata nell’immaginario dei veneziani che da secoli la ritengono abitata dai fantasmi. “Ci venivo da giovane”, racconta Patrizia Veclani che partecipa alla campagna “Amici di Poveglia”. “Facevamo il bagno e organizzavamo grigliate all’aria aperta. Da ragazze ci venivamo con il ragazzo perché era un luogo appartato e romantico”. 
Quando il governo ha annunciato la vendita dell’isola, i veneziani hanno iniziato a raccogliere donazioni. Basta donare 99 euro per aspirare a diventare comproprietario di Poveglia. Antonio Cirillo, un maestro elementare, ha offerto 100 euro. ”L’ho fatto col cuore”, ha detto. Pier Paolo Baretta, sottosegretario all’Economia nato a Venezia, è rimasto colpito dall’impegno dei suoi concittadini e ha confessato che fa il tifo per loro.

venerdì 16 maggio 2014

Tutte le lingue degli italiani


Come si dice a Milano “sciapo”? Dite “sette e mezzo o mezza”? Usate “gli” o “le”?
Uno studio decennale, da nord a sud, migliaia di dati.
 Ecco come parliamo

Francesco Erbani

"La Repubblica", 12 maggio 2014

Qual è l’aggettivo usato per indicare che un cibo è senza sale? Stare in piedi o stare all’impiedi? Lei adopera il pronome gli indifferentemente per il maschile e il femminile? Senza nessuna intenzione normativa, quella che vuole stabilire se si dice così e non così, due storiche della lingua, Annalisa Nesi e Teresa Poggi Salani, hanno guidato per oltre un decennio un gruppo di colleghi, e anche di studenti, di giovani laureati e dottorandi, che in 31 città hanno cercato di documentare l’uso e la consapevolezza che si ha dell’italiano. È stato uno sforzo notevolissimo, sostenuto dall’Università di Siena e patrocinato dall’Accademia della Crusca. E non per compilare un dizionario, ma per sondare la diffusione della nostra lingua, la sua articolazione regionale e locale.
Dove, quanto e perché si predilige ora rispetto ad adesso e in quali contesti, invece, si va sul mo’. Emerge la sostanza reale dell’italiano, spiegano Nesi e Poggi Salani, «il suo sapore», il valore effettivo di certi fatti lessicali, sintattici e morfologici. Non l’italiano scritto, ma quello parlato, corrente, che si adopera quotidianamente a Torino e a Lecce, a Livorno e a Nuoro, a Verona e a Latina...
Nessuna fotografia potrebbe restituire una realtà tanto variabile, se non immergendosi e navigando in una banca dati che accumula 80 mila voci. E anche tentare una sintesi di un materiale così vasto è difficile. Convivono comunque due tendenze, segnalano le ricercatrici. Una all’uniformità, alla distribuzione ormai omogenea dell’italiano in tutto il territorio nazionale, senza significative differenze fra Nord e Sud, per esempio. L’altra tendenza consiste nel conservare, comunque, una certa quantità di varianti rispetto allo standard, varianti che a loro volta si standardizzano, prime fra tutte quelle dialettali, ma non solo, con buona pace di chi dei dialetti ha più volte annunciato la morte. L’italiano è insieme una lingua comune e differenziata, scrive nell’introduzione Francesco Bruni. E ne escono confermati gli accertamenti del linguista Tullio De Mauro sui dati Istat: solo nel 2006 coloro che parlano sempre in italiano diventano la maggioranza relativa (45,5 per cento), superando di pochissimo quelli che usano sia l’italiano che il dialetto (44,1) e distanziando nettamente quelli che si esprimono sempre in dialetto (5,4), i quali erano ancora la maggioranza non un secolo fa, nel 1982 (36,1).
Lo studio è fondato su un questionario di 230 domande. S’intitola La lingua delle città (la sua sigla è LinCi), è composto di due volumi, uno con tutti i dati raccolti in un cd, l’altro contenente saggi scientifici (edito da Franco Cesati). Il lavoro viene presentato domani all’Università di Siena dalle autrici, dalla presidente della Crusca, Nicoletta Maraschio e da De Mauro.
L’indagine si muove su terreni in gran parte inesplorati (un lavoro simile fu compiuto nel 1956 da uno studioso svizzero, Rüegg). I campi del sondaggio sono le forme di saluto, il corpo umano, i mestieri, gli oggetti domestici, i cibi… Non si registra solo il parlato: si chiede a un campione di 12 persone in ognuna delle 31 città esaminate («ma il lavoro procede, anche se su base quasi volontaria essendo esauriti i fondi», spie- ga Annalisa Nesi), un campione appartenente a fasce di età e formazioni culturali diverse, di riflettere sulla lingua che parlano. Di dare risposte secche, ma anche di ragionare, di sondare opzioni diverse. Di fare, come dicono gli studiosi, una riflessione metalinguistica.
Torniamo all’esempio del pronome gli. «L’uso polivalente, per maschile e femminile, è maggioritario», dice Nesi, «senza sensi di colpa, fino all’ammissione della sua correttezza ». Ma, sollecitati dai “raccoglitori”, da chi porge la domanda, le persone interrogate si spiegano meglio: «Correntemente molti usano gli per il maschile e il femminile; io ci sto attento », dice un intervistato a Milano. E c’è anche chi aggiunge che, scrivendo, non si riferirebbe mai a un’espressione femminile con gli. Sorprendente, sottolinea Nesi, che i meno criticamente riflessivi sull’esistenza di una regola che può essere violata siano i toscani, «per la loro pretesa di “saper di grammatica”».
L’uso polivalente, ma scorretto, di gli, mostra comunque che le variazioni dallo standard italiano non sono solo dialettali. Anche se queste sono le più consistenti. Un altro caso citato da Nesi: «se potevo venivo» usato invece del più proprio «se avessi potuto, sarei venuto». «Risponde all’obiettivo, tipico del parlato, di economizzare», insiste Nesi. «È un fenomeno non nuovo, già riscontrato nei testi dell’italiano antico, poi contrastato dalle istanze normative del Cinquecento».
La domanda 113 chiede di esprimersi su un cibo “scarso di sale”. Insipido, spiegano Nesi e Poggi Salani, è stabilmente accertato nelle regioni settentrionali, in Sardegna e a Lecce («84 informatori su un totale di 96 in queste aree»). A Milano sussistono varianti minoritarie: dissapito, poco salato, dolce. Un intervistato se la cava con manca il sale. Un altro ancora con «in milanese si diceva fat, fato». A Roma e in Toscana le resistenze sono più forti. Nella capitale domina sciapo, con una sola eccezione: poco saporito. La Toscana è compatta su sciocco, con la sola eccezione di Carrara, che ha influenze più settentrionali, dove torna a prevalere insipido.
«Sciocco è saldissimo e anche il parlante senese o livornese di buona cultura non sospetta neanche che questa minestra è sciocca si dice solo in Toscana».
Come per insipido si è poi fatto per fruttivendolo (che metà degli interpellati a Roma e tutti i reatini e i viterbesi chiamano fruttarolo), per livido e per l’alternativa bernoccolo, per sette e mezza opposto a sette e mezzo, per calorifero, radiatore o termosifone, per abbi pazienza o porta pazienza.
«Sempre meno il rapporto tra italiano e dialetti viene percepito come conflittuale», aggiunge De Mauro. «Causa ed effetto di ciò è stato il diffondersi di un atteggiamento mutato nei ceti colti o, comunque, più istruiti. Nella scuola è cessata la caccia alle streghe dialettali e le realtà dialettali hanno goduto di una più benevola attenzione a vari livelli della vita intellettuale». Nel Gradit, il Grande dizionario della lingua italiana dell’Utet, sono ottomila le parole diffuse sul territorio nazionale, ma di origine dialettale. Per contro l’italiano è diventata «la lingua del cuore “che da ciuchi l’impareno a l’ammente e la parleno poi per esse intesi”, come diceva il popolano di Giuseppe Gioachino Belli». Nonostante i limiti più volte segnalati sempre da De Mauro: quel trenta per cento scarso di italiani, tendente ancora a diminuire, che con sufficiente sicurezza si orientano fra libri, giornali, istruzioni di farmaci, informazioni bancarie, documenti legislativi.

L’ultimo inedito di Salinger si chiama "Il giovane Holden"


Matteo Colombo ha ritradotto il romanzo per Einaudi

Letizia Tortello

"La Stampa", 12 maggio 2014

Dimenticatevi l’Holden che avete conosciuto. La copertina è sempre quella. Tutta bianca, come voleva Salinger, perché è importante la storia, non l’immagine di facciata. Quanto al testo, invece, facciamocene una ragione (e teniamoci stretta la copia che abbiamo in libreria, diventerà introvabile): Il giovane Holden non è mai stato così giovane. Praticamente, un esordiente. Einaudi ha deciso di tradurlo una seconda volta. Aggiornarlo. Con il coraggioso lavoro durato due anni di Matteo Colombo, passato al vaglio di severe approvazioni da parte della famiglia dello scrittore, inizialmente contraria a qualunque intervento sul testo. 
Sono passati 63 anni dalla pubblicazione del longseller – era il 1951 – e 53 dalla traduzione che tutti abbiamo conosciuto di Adriana Motti. Per un classico che sembra scritto ieri, saper parlare alle nuove generazioni sul canale giusto è doveroso. Così, Einaudi si è fatta forza. Ha pesato sulla bilancia una perdita di copie importante, con il passare del tempo. E ha deciso di rischiare.
Ha affidato alle mani di Colombo, trentasettenne di Acqui Terme, ora residente a Berlino, faccia temeraria e rassicurante, l’impresa titanica. Niente più «infanzia schifa», o espressioni così. Un libro che è tutto il suo linguaggio, e che negli Anni 60 doveva fare i conti con la censura delle volgarità, oggi può dare spazio perfino alle parolacce. «Perché non ha più senso tradurre goddam con “dannazione” - spiega Colombo -. Holden ha un linguaggio povero, ristretto. Da quindicenne di forti opinioni condanna con disprezzo persone e situazioni che ritiene false. Usa la lingua in modo difensivo. È pieno di contraddizioni. Questo non risultava in tutta la sua pienezza». 
Rabbia, disagio di un giovane che si confronta con l’età adulta, eppure un animo sensibilissimo. Che il nuovo traduttore - all’attivo decine di titoli di narrativa americana contemporanea, da Don DeLillo a Palahniuk, dice di aver «tirato fuori meglio di chi mi ha preceduto. Anche se Adriana Motti ha avuto tanti meriti». La traduttrice di mezzo secolo fa non conobbe mai lo scrittore, gli fu vicino con un carteggio. L’Einaudi dovette fare i conti con le proteste accese dello scontroso Salinger. «Ho ritrovato - dice Colombo - due telegrammi, in cui si diceva disgustato e risentito per la sovracopertina del libro. La Motti parlò di questo, in lunghe lettere inviate all’Einaudi, con Calvino, Fruttero, Foa».
Ma quando si inizia la scalata, tornare indietro non si può. «Se sento il peso della responsabilità? Certo, di qui in poi Salinger passerà dalle mie parole. Ma è stato facile. Ho ascoltato il testo originale. Il mio Holden, oggi, è più fedele». Un salto notevole, tra la versione di ieri e quella lanciata da Einaudi al Salone del libro (con un reading a cui hanno partecipato Giuseppe Culicchia, Concita De Gregorio, Diego De Silva, Fabio Geda, Paolo Giordano, Maurizio de Giovanni, Joe Lansdale, Elena Loewenthal, Paola Mastrocola, Michela Murgia e Anna Nadotti), Colombo l’ha compiuto cambiando il tempo verbale con cui il protagonista racconta: «Dal passato remoto al passato prossimo». Osare per osare, perché non aggiornare anche il titolo? «Quello più autentico sarebbe “Il pescatore nella segale”, ma tutti continuerebbero a chiamarlo Il giovane Holden”. Ci sono anche questioni di marketing da considerare».
Ma c’è un trucco, che Colombo ha avuto a disposizione, e la Motti no: «Google. Nell’era di Internet, e della parola che può essere cercata per immagini», tradurre è quasi un altro mestiere che negli Anni 60. «Salinger oggi», modestia a parte, ma neanche troppo, «sarebbe più contento del risultato».

Paola Zanuttini

"Il Venerdì", 2 maggio 2014

Una nuova traduzione restituisce freschezza (e fedeltà all'originale) al romanzo cult di Salinger, e si scopre che la storica versione in italiano s'era presa un po' troppe libertà che, con il tempo, si vedono terribilmente.
Non ci si crede: Il giovane Holden è diventato vecchio. Non esattamente quello che parla inglese, ma il suo alter ego italiano. La gloriosa traduzione di Adriana Motti, con i suoi infanzia schifa, e compagnia bella, palloni gonfiati e bastardi che stanno sul gozzo al protagonista Holden Caulfield e col fischio che gli fanno un favore, risulta un po' datata. Un bel po' datata: 1961. E ai ragazzi non fa più l'effetto di una volta. 
Le vendite di questo long seller Einaudi (1,3 milioni in 53 anni) sono in calo; le 38-39 mila copie l'anno del recente passato sono diventate 30 mila. Bisognava fare qualcosa: ritradurre.
La notizia che Einaudi ha ritradotto Il giovane Holden è uno shock per generazioni di ex adolescenti ingrigiti nel ricordo inviolabile del loro romanzo di culto, ma basta riaprirlo, sebbene con tutta la deferenza e la tenerezza del caso, per constatare (amaramente, molto amaramente) che non regge più. Niente invecchia velocemente come lo slang giovanile e oggi il resoconto in italiano dei tre giorni di fuga, sbronze e straniamento del perturbato sedicenne newyorkese slitta nel lessico da centro anziani. D'alta parte Motti, defunta nel 2009, oggi avrebbe novant'anni.
Così al trentasettenne Matteo Colombo, già traduttore di De Lillo, Eggers, Wallace, Chabon, Palahniuk, Sedaris, Egan, Bukowski e compagnia bella, è stato affidato il delicatissimo compito di restituire al romanzo un tono e un linguaggio che non sia stantio, ma neanche impigliato in giovanilismi iperattuali e caduchi per definizione. Insomma: gli hanno chiesto una traduzione capace di durare vent'anni. Con due anni di lavoro, una buona dose di stress finale, ma anche di divertimento, Colombo ha eseguito brillantemente l'incarico più importante della sua carriera, restituendo a Holden la sua giovinezza e una voce pulita che parla a questo tempo. Ma non a questi minuti.
La prima cosa che Colombo ha scoperto leggendo il testo originale (elusivo fin dal titolo The Catcher in the Rye che, letteralmente, suona L'acchiappatore nella segale: da qui, la decisione di chiamarlo Il giovane Holden) è la modernità: «Sembra scritto l'altro ieri e ti fa riflettere su quanto fu dirompente quando uscì in America, nel 1951. Adriana Motti ha fatto un lavoro straordinario per restituire quello shock linguistico: non disponendo degli strumenti che hanno i traduttori di oggi per appurare quanto questo shock corrispondesse alla realtà linguistica quotidiana degli adolescenti, ha inventato una lingua. La differenza più rilevante fra le due traduzioni sta nel fatto che, oltre mezzo secolo dopo, io mi sono potuto permettere una maggiore fedeltà».
Tradurre, tradire: nell'antico dissidio, Colombo si schiera dalla parte della fedeltà e della sparizione totale del traduttore, che secondo lui, meno si vede meglio è. Ma, nella prima rapida stesura, stavolta si è preso più libertà del solito, salvo poi restiturle per ripensamenti suoi o in seguito alle numerose riunioni con lo staff di editor e traduttori Einaudi (coinvolti nell'operazione: Maria Teresa Polidoro, Anna Nadotti, Susanna Basso, Andrea Canobbio e Grazia Giua). «Ma, se non fossi andato così libero e veloce all'inizio, dopo avrei faticato molto di più, perché quella prima stesura ha costituito le basi del lavoro». In quella fase è stata presa una decisione drastica: il past simple inglese è stato tradotto col passato prossimo, via tutti gli andai, finii, dissi, della precedente traduzione, ed è già una boccata di aria fresca. 
Hanno resistito due e compagnia bella, marchio di fabbrica della versione Motti che traducevano gli ossessivi and all (ricorrono 222 volte), ma poi sono stati cassati e sostituiti con e via dicendo o e tutto quanto. Poi c'era il problema delle parolacce: Holden impreca parecchio: 156 goddam che non potevano diventare i dannazione o i dannato di un ammiraglio in ritiro. «Ho interpellato Mario Corona, il traduttore di Whitman, per avere il parere di una persona più anziana: mi ha confermato che all'epoca goddam era più forte di come lo percepiamo oggi, quindi abbiamo introdotto un bel po' di cazzo, che nel linguaggio contemporaneo ha lo stesso peso. Poi, nelle stesure successive, qualcuno lo abbiamo levato».
Un'altra parola su cui si è lavorato parecchio è phony (30 ricorrenze): «Motti la traduce in modi diversi: finto, pallone gonfiato, sbruffone, ma per un ragazzo che divide il modo fra bene e male - e tutto quel che è male è phony - serviva una parola unica, quasi ipnotica. Ho pensato a finto, ma non funzionava e ci ho rinunciato, a malincuore, perché è una traduzione precisa e fedele che va bene per le persone e le cose, ma poteva risultare troppo giovanilista. Allora ho scelto ipocrita che comporta una perdita di registro - perché ha un registro più alto - ma fino a un certo punto, dato che è un termine molto usato e non serve un vocabolario tanto vasto per conoscerlo».
Oltre alla gloriosa traduzione Motti per Einaudi, ce n'era stata una del 1952 uscita quasi clandestinamente a un anno dalla pubblicazione del romanzo in America: l'aveva fatta Jacopo Darca per l'editore Casini che scelse l'infelice titolo Vita da uomo: un flop dimenticato. Ma, alla Biblioteca Sormani di Milano, Colombo si è procurato una copia sbricolata di quella traduzione per fare i suoi confronti: forse era più fedele di quella Motti. Questo per dire che avvicinandosi a un cult da 65 milioni di copie conviene prendere ogni cautela. Anche perché Il giovane Holden è comunque un caso a parte: «Presenta una gamma di difficoltà abbastanza unica. Le lingue degli scrittori su cui ho lavorato negli ultimi quindici anni sono tutte uguali e con DeLillo o Egan i problemi sono riconducibili a una serie di macrogruppi, invece Holden è un ecosistema separato. Nell'approccio a un romanzo in cui non succede quasi niente, perché è fatto tutto di lingua, abbiamo tenuto presente il suo modo di usare il linguaggio come strumento di difesa. È tutto estremamente psicologico».
Ma perché le traduzioni invecchiano e i romanzi meno? «Non è sempre vero, anche i romanzi sentono gli anni. Ma le lingue sono organismi autonomi, la loro evoluzione è determinata da fattori così ampi e specifici dei Paese in cui sono parlate che i binari non viaggiano in parallelo ma in base a quel che succede nella cultura, nella politica e storia di ogni Paese, per ogni parola le divergenze sono incontrollabili. Holden è più soggetto all'invecchiamento perché è espressionista nella lingua, la lingua specifica di una precisa età anagrafica che si evolve molto più rapidamente».
If you really want to hear about it, the first thing you'll probably want to know is where I was born, and what my lousy childhood was like, and how my parents were occupied and all before they had me, and all that David Copperfield kind of crap, but I don't feel like going into it, if you want know the truth. In the first place, that stuff bores me, and in the second place, my parents would have about two hemorrhages apiece if I told anything pretty personal about them. They're quite touchy about anything like that, especially my father. They're nice and all - I'm not saying that - but they're also touchy as hell. Besides, I'm not going to tell you my whole goddam autobiography or anything.

Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com'è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di parlarne. Primo, quella roba mi secca, e secondo, ai miei genitori gli verrebbero un paio d'infarti per uno se dicessi qualcosa di troppo personale sul loro conto. Sono tremendamente suscettibili su queste cose, soprattutto mio padre. Carini e tutto quanto - chi lo nega - ma anche maledettamente suscettibili. D'altronde, non ho nessuna voglia di mettermi a raccontare tutta la mia dannata autobiografia e compagnia bella.
(Traduzione: Adriana Motti)
 Besides, I'm not going to tell you my whole goddamn autobiography or anything. I'll just tell you about this madman stuff that happened to me around last Christmas just before I got pretty run-down and had to come out here and take it easy. I mean that's all I told D.B. about, and he's my brother and all. He's in Hollywood. That isn't too far from this crumby place, and he comes over and visits me practically every week end. He's going to drive me home when I go home next month maybe. He just got a Jaguar. One of those little English jobs that can do around two hundred miles an hour. It cost him damn near four thousand bucks. He's got a lot of dough, now. He didn't use to. He used to be just a regular writer, when he was home. 
E poi non mi metto certo a farvi la mia stupida autobiografia o non so cosa. Vi racconterò giusto la roba da matti che mi è capitata sotto Natale, prima di ritrovarmi cosí a pezzi che poi sono dovuto venire qui a stare un po' tranquillo. Ovvero quel che ho raccontato a D. B., che però è mio fratello, non so se mi spiego. Lui sta a Hollywood, quindi non lontanissimo da questo schifo di posto, e infatti viene a trovarmi praticamente ogni weekend. Dice che mi riaccompagna in macchina quando il mese prossimo torno a casa, forse. Si è appena comprato una Jaguar. Uno di quei gioiellini inglesi che fanno anche i trecento all'ora. L'ha pagata una sberla tipo quattromila dollari. È sfondato di soldi, adesso. Prima no. Prima, quando stava a casa, era solo uno scrittore normale.
 (Traduzione: Matteo Colombo)

Intervista ad Alan Bennett


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domenica 4 maggio 2014

L’autunno di Baudelaire è la stagione dell’inferno


Walter Siti

"La Repubblica", 4 aprile 2014

Canto d’autunno, 1 da Les fleurs du mal (1861), LVI 

Presto ci immergeremo nelle fredde tenebre; 
addio, viva luce delle estati troppo brevi!
Sento già cadere, con funerei tonfi 
la legna che rimbomba sul lastrico dei cortili.
Tutto l’inverno mi tornerà dentro: insofferenza, 
odio, spasmi, orrore, impegno duro e forzato, 
e, come il sole nel suo inferno polare, 
il cuore non sarà che un masso rosso e gelato.
Ascolto con un brivido ogni ceppo che cade; 
la forca che innalzano non ha un’eco più sorda.
Il mio animo somiglia alla torre che cede 
sotto i colpi dell’ariete instancabile e greve.
Mi sembra, cullato dal picchiare monotono, 
che inchiodino in fretta una bara, qua o là.
Per chi? Ieri era estate, ecco l’autunno!
Quel tòc misterioso suona come una partenza.
1859 

Chant d’automne, 1
Bientôt nous plongerons dans les froides ténèbres; 
adieu, vive clarté de nos étés trop courts !
J’entends déjà tomber avec des chocs funèbres 
le bois retentissant sur le pavé des cours.
Tout l’hiver va rentrer dans mon être: colère, 
haine, frissons, horreur, labeur dur et forcé, 
et, comme le soleil dans son enfer polaire, 
mon coeur ne sera plus qu’un bloc rouge et glacé.
J’écoute en frémissant chaque bûche qui tombe; 
l’échafaud qu’on bâtit n’a pas d’écho plus sourd.
Mon esprit est pareil à la tour qui succombe 
sous les coups du bélier infatigable et lourd.
Il me semble, bercé par ce choc monotone, 
qu’on cloue en grande hâte un cercueil quelque part. 
Pour qui ? C’était hier l’été; voici l’automne!
Ce bruit mystérieux sonne comme un départ.

Mai come in questo caso c’è da lamentare l’intraducibilità della poesia: nessuna versione può rendere il rimescolio perturbante della musica baudelairiana. Gli alessandrini (doppi esasillabi) sono quelli romantici di Lamartine e di Hugo, e la malinconia dell’autunno è un tema assai frequentato dal romanticismo; ancora a metà Ottocento mettersi sulla strada dell’alessandrino rimato (qui, perfette rime alternate femminili e maschili, cioè piane e tronche) significava accettare l’istituzione e innovare nel suo solco. Credere che la bellezza è armonia regolata, e che un bel verso ripaga di tante storiche dissonanze.
In una prosa intitolata All’una di notte, Baudelaire scrive: «Voi, Signore mio Dio, concedetemi la grazia di creare qualche splendido verso; per provarmi che non sono l’ultimo tra gli uomini, che non sono inferiore a coloro che disprezzo!». Qui il romanticismo si crepa, frana nella nevrosi del cortocircuito logico: è come la battuta di Groucho Marx, «non mi iscriverei mai a un club che contasse me tra i suoi soci». La bellezza armoniosa dei versi comincia a sapere di beffa, stride nel contenere un intellettualismo infelice; le rotonde, istintive metafore di Hugo diventano una galleria isterica di immagini troppo tese, parzialmente incoerenti.
In questo canto dedicato all’autunno, dell’autunno quasi non si parla: se l’estate era troppo corta, anche l’autunno non è che una precipitosa discesa verso l’inverno. “Tomber”, cadere, è il verbo privilegiato; e nella seconda sezione (quella qui non riportata) del canto, “tombe” non sarà più un indicativo presente - sarà proprio “la tombe”, la tomba. Il tonfo cadenzato dei ciocchi (spaccati nel cortile in vista del futuro riscaldamento) si trasforma nelle martellate di chi erige un patibolo, poi nei colpi d’ariete che abbattono la torre della volontà personale, e poi nel sinistro concerto di chi inchioda una bara. L’autunno è l’annuncio dell’inverno- inferno, la fredda tenebra in cui anche il cuore sarà ridotto a un blocco di ghiaccio. Siamo ai limiti dell’allucinazione e dell’alterazione psicofisica, percepire nei propri organi l’ossimoro caldo-freddo dell’ardore polare. Negli scritti sull’hashish, Baudelaire sottolinea che il «beato veleno» enfatizza i pensieri rendendone il corso più accelerato e rapsodico.
Il tonfo cadenzato è il rumore del Tempo, e il Tempo è il grande nemico perché «mangia la vita». Se gli si cede il comando, anche il semplice bussare di un usciere (come accade nella prosa La camera doppia) può essere «un colpo di zappa nello stomaco» e porta con sé il suo corteggio di angosce, incubi, spasmi, collere - il Tempo che cancella la gioia e ci intima «suda, schiavo!». Le estati troppo brevi sono, per Baudelaire, quelle della prima infanzia; poi c’è stata un’incrinatura irrimediabile, quando il patrigno e il tutore hanno preteso di controllare il suo denaro. Da quel momento la sua vita si è divisa in due: da una parte il rifugio nel sogno di perfezione e voluttà, dall’altra la necessità di lavorare. Con l’io costretto a oscillare, perché dell’Assoluto comprende la fragilità e del lavoro non sopporta il filisteismo borghese. Come ha visto Sartre, la soluzione esistenziale escogitata da Baudelaire si fonda sull’irresolutezza e sull’impotenza, sull’ambiguità della malafede. Una parte di lui desidera «la fatica dura e forzata», come desidera stare chiuso in casa al buio e in fondo desidera che il cuore venga sterilizzato dalle emozioni (il cuore del vero dandy dev’essere gelido). L’inverno-inferno gli piace: centinaia di volte ha invocato Satana, il vero modello per lui della bellezza virile. Nella seconda sezione del canto si aprirà un poco alla consolante durata dell’autunno, pregando un’amante matura di essere per lui «la dolcezza effimera/ d’un glorioso autunno o di un sole al tramonto». Più del Baudelaire che bestemmia apertamente, o che vanta le proprie notti di orgia, mi commuove il Baudelaire costretto a torcere un’innata tenerezza per piegarla ai tormenti della nevrosi. La “partenza” annunciata nell’ultimo verso è quella verso la morte, ma è anche il viaggio che ha sempre sognato: verso l’isola di Citera sacra a Venere (dove però, fatale, vedrà ergersi una “forca simbolica” con lui appeso), o «anywhere, out of the world». L’altra parola-chiave è “choc”, ripetuta ai vv. 3 e 13; qui è solo un rumore secco e monotono ma Benjamin ha mostrato come lo choc sia il marchio della nuova metropoli ottocentesca - come la legna (“bois” è anche il bosco) è spaesata sui selciati, così l’individuo metropolitano è sottoposto a continui urti della percezione e della memoria. Non riesce a tenere unita la propria esperienza, non ne padroneggia la continuità; la città cresce estranea e punitiva (gli “échafaudages”, le impalcature, hanno la stessa radice dell’”échafaud”, il palco della forca o della ghigliottina). L’esibizionismo disperato di Baudelaire interiorizza il fallimento rivoluzionario del 1848, l’inverno in cui si sente precipitato è anche politico. La sua poesia inaugura un io lirico alienato, perforabile dall’esterno - anzi, dipendente dall’esterno (dalle occasioni, dalle epifanie, dai crolli) per autorizzare la propria ispirazione.

giovedì 1 maggio 2014

I Greci e noi, in viaggio per scoprire


Omero ed Erodoto: due modi contemporanei di guardare l’altro
Utet pubblica Ippopotami e sirene della giurista e antichista Eva Cantarella

Nuccio Ordine

"Corriere della Sera", 29 aprile 2014

«Pensa a Itaca, sempre,/ il tuo destino ti ci porterà./ […]Non sperare ti giungano ricchezze:/ il regalo di Itaca è il bel viaggio,/ senza di lei non lo avresti intrapreso./ Di più non ha da darti./ E se ti appare povera all’arrivo,/ non t’ha ingannato./ Carico di saggezza e di esperienza/ avrai capito un’Itaca cos’è»: questi bellissimi versi di Constantinos Kavafis mostrano, a distanza di secoli, come il mito di Itaca e di Ulisse continui ancora a far vibrare le corde del cuore di poeti e di lettori. 
Certo, le peregrinazioni dell’eroe omerico narrate nell’Odissea hanno rappresentato uno dei modelli costitutivi della letteratura occidentale: metafora della conoscenza, dell’esplorazione dell’ignoto, dell’incontro con l’«altro», dell’autonomia della coscienza, dell’autodeterminazione, della sfida del limite, della punizione divina, il viaggio — attraverso il movimento continuo delle strutture linguistiche e narrative — ha finito anche per diventare esso stesso immagine della scrittura letteraria. 
Alle avventure cantate da Omero e alle esplorazioni «antropologiche» di Erodoto, ha dedicato recentemente un bel libro Eva Cantarella (Ippopotami e sirene. I viaggi di Omero e di Erodoto, Utet). Studiosa di fama internazionale, i suoi saggi sul mondo antico sono stati tradotti in varie lingue, ci offre ora, con la sua consueta chiarezza, un affascinante itinerario in sette capitoli, dove l’Odissea e le Storie vengono analizzate alla luce dei numerosi racconti elaborati dai due grandi autori, l’uno padre dell’epica e l’altro della storiografia. 
Alla lettura comparata dei due testi, balzano subito agli occhi le differenze. Omero fa del viaggio uno strumento per marcare il divario tra la civiltà greca e la barbarie degli altri popoli: Polifemo rappresenta una socialità pre-politica, priva di valori religiosi, dove mancano leggi e assemblee e dove è assente l’agricoltura; Circe e Calipso (entrambe dedite al canto e alla tessitura) incarnano modelli femminili negativi fondati sull’inganno, che nulla hanno a che vedere con le virtù greche della moglie, della madre e della sorella; i Lotofagi esemplificano il rischio di perdere nei paesi stranieri la memoria della propria patria (mangiare il loto significava, infatti, «scordare il ritorno»). 
Per Erodoto — nato in Asia Minore, probabilmente da padre persiano e madre greca — il viaggio diventa, invece, occasione di confronto con l’«altro» (con coloro che Greci non sono), senza aver paura di riconoscere i «debiti» contratti con le culture vicine: le descrizioni di Babilonia, per esempio, o le riflessioni sulla regina Nitocri o su Artemisia mostrano una sincera simpatia per alcuni aspetti della vita politica di questi popoli stranieri; le pagine dedicate agli animali conosciuti (i gatti) o a quelli sconosciuti (coccodrilli e ippopotami) rivelano un’attenzione per le tradizioni locali e per gli stretti legami intessuti con i riti religiosi; e, perfino, nella vendita all’asta delle mogli, l’autore riesce a cogliere gli aspetti positivi di una legislazione che pensava anche alla sopravvivenza delle donne brutte e storpie (i soldi ricavati, infatti, dalla vendita delle future consorti più belle andavano in dote a coloro che sposavano quelle destinate a restare senza marito). 
Dal raffronto tra i testi omerici e le Storie, insomma, appaiono due cartografie diverse dei viaggi: Omero, lasciando da parte le tanto discusse questioni sui possibili riferimenti a luoghi del Nord Europa, naviga in Occidente, tra la Sicilia e le coste tirreniche dell’Italia, e in Oriente, lungo le coste dell’Anatolia; mentre Erodoto esplora i territori dell’Iran orientale, del nord del Mar Nero, il basso Nilo e l’Africa. Ma appaiono, soprattutto, due concezioni pedagogiche opposte dell’ignoto: se per l’epos l’avventura tra popoli sconosciuti è destinata a compiersi nel «ritorno» (nostos), per il racconto dello storico si concretizza, al contrario, in acute riflessioni sulla grandezza del mondo e sulle diverse culture delle genti che lo abitano. 
Le pagine di Eva Cantarella invitano, a loro volta, a far viaggiare il curioso lettore tra luoghi reali e immaginari. E solo alla fine del libro si capirà che altri viaggi ci aspettano perché, come ricordava T. S. Eliot, ogni «finire è cominciare».