martedì 28 aprile 2015

Così l’umano può difendersi dal postumano


Molti studiosi chiedono di valutare criticamente tecnoscienza e robotica

Stefano Rodotà

"La Repubblica",  28 aprile 2015

Pubblichiamo una sintesi della lezione tenuta il 23 aprile da Stefano Rodotà all’università di Perugia in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico

NEL 1950 Norbert Wiener pubblica le sue riflessioni su cibernetica, scienza e società, e sceglie come titolo L’uso umano degli esseri umani. Parole in cui si coglie l’eco di un tempo cambiato dalla bomba atomica, che indurrà nel 1956 Guenther Ander a dire che L’uomo è antiquato, e a scrivere: «Come un pioniere, l’uomo sposta i propri confini sempre più in là, si allontana sempre più da se stesso; si “trascende” sempre di più — e anche se non s’invola in una regione sovrannaturale, tuttavia, poiché varca i limiti congeniti della sua natura, passa in una sfera che non è più naturale, nel regno dell’ibrido e dell’artificiale». Questo congedo dall’umano era cominciato almeno un quarto di secolo prima.
Quando Julien Huxley aveva inventato il termine “transumanismo”, riferito poi alla «tecnologia che permette di superare i limiti della forma umana». Molte trasformazioni sono già visibili, si parla del corpo come un nuovo “oggetto connesso”, una “nanobio- info-neuro machine”, che annuncia la fine dell’età umana. Quale spazio rimarrebbe per quell’attività umana che consiste nell’agire libero e nel dare regole all’agire? Scomparirebbero i diritti “umani”, e con essi i principi di dignità e eguaglianza? L’orizzonte si è dilatato, la definizione del postumano non è riferita solo alle innovazioni legate a biologia e genetica, ma è il risultato della convergenza di elettronica, intelligenza artificiale, robotica, nanotecnologie, neuroscienze. Alla realtà “aumentata” dall’elettronica si accompagna la prospettiva dell’uomo “aumentato”.
O piuttosto spossessato di tratti dai quali riteniamo che l’umanità non possa essere separata? Verrà un giorno, dicono i più radicali tra i transumanisti, in cui l’uomo non sarà più un mammifero, si libererà del corpo, sarà tutt’uno con il computer, dal suo cervello potranno essere estratte informazioni poi replicate appunto in un computer, e potrà accedere all’immortalità. E l’intelligenza artificiale viene presentata come quella che ci libererà da malattie e povertà. Perché, allora, quattrocento scienziati chiedono di valutarla con attenzione critica?
In quel documento si parla di sistemi autonomi, veicoli autonomi, forme autonome di produzione, armi letali autonome. Ma autonomia rispetto a che cosa? La comparazione è con situazioni in cui le decisioni sono affidate alla consapevolezza delle persone. Ora, invece, l’autonomia sembra abbandonare l’umano e divenire carattere delle cose, capovolgendo la prospettiva di un postumano come “meglio dell’umano”, finendo con il presentarsi piuttosto come ideologia della tecnoscienza.
Ma già viviamo l’eclisse dell’autonomia della persona nel tempo del capitalismo “automatico”, dove una ininterrotta raccolta di informazioni sulle persone affida ad algoritmi la costruzione dell’identità. «Tu sei quel che Google dice che tu sei»: su questa base la persona viene classificata e rischia d’essere valutata per le sue propensioni e non per le sue azioni.
Sono continui gli scambi tra l’umano, il postumano e un mondo delle cose sempre più autonomo. Passiamo dall’Internet 2.0, quello delle reti sociali, all’Internet 3.0, quello delle cose. E il mondo delle cose è trasformato dalla presenza dei robots. Anche robot virtuali, appunto gli algoritmi che consentono il funzionamento dei computers che governano determinate attività, e sociali, ai quali dovrebbe essere riconosciuta “una piccola umanità”. Piccola come unica possibilità o primo passo verso una integrale “umanità” della macchina?
Si annuncia una sfida definitiva. Non solo l’assunzione di sembianze di macchina da parte dell’umano. Ma la creazione di sistemi artificiali in grado di imparare, dotati di una forma di intelligenza propria che li metterebbe in grado di sopraffare l’intelligenza umana, di creare una simbiosi macchina/uomo influente appunto sull’evoluzione della specie. In questo intreccio tra dati del presente e proiezioni nel futuro si colloca la faticosa costruzione di un contesto di regole e principi, di una RoboLaw in grado di massimizzare i benefici della seconda rivoluzione delle macchine.
Una nuova forma sociale si manifesta. Una società liberata dal lavoro o insidiata da più profonde servitù? Trasformazioni guidate dal profitto o dall’interesse per le persone? Interrogativi che mostrano come le risposte non possano essere affidate all’intelligenza artificiale, ma a quella collettiva. Il vero rischio, infatti, non è quello di una politica espropriata dalla tecnoscienza. È il suo abbandonarsi a una deriva che la deresponsabilizza, e induce a concludere che davvero malattia e povertà siano affari ormai delegabili alla tecnica e non problemi da governare con la consapevolezza civile e politica.
Tornano i principi di riferimento. Lo human enhancement, il potenziamento dell’umano non evoca soltanto rischi, ma descrive recuperi di funzioni perdute, accesso ad opportunità nuove, arricchimento di legami sociali. Si incontra il tema della libertà e dell’autonomia, poiché il potenziamento non può risolversi nella disponibilità del corpo altrui. Né può essere violato il principio d’eguaglianza. Quale criterio governerà l’accesso alle opportunità offerte dalla tecnoscienza? Il potenziamento dell’intelligenza sarà riservato a chi dispone delle risorse necessarie per comprarlo sul mercato? E la dignità scompare quando gli interventi sul corpo determinano dipendenza dall’esterno.
Queste vicende dell’umano rinviano a due processi: l’ominizzazione, dunque l’evoluzione biologica, con l’emersione di una sola specie umana, con un processo di unificazione tendente all’universalismo; e l’umanizzazione, dunque l’evoluzione che si è articolata attraverso le culture, con un processo di diversificazione tendente al relativismo. Oggi l’accento dovrebbe cadere piuttosto sull’ominizzazione, poiché la profondità del mutamento dei processi biologici e il loro intersecarsi con la tecnoscienza sembrano portare ad una diversificazione della specie umana, fino alla creazione di nuove specie. Nei processi di umanizzazione, al contrario, si colgono significativi segni di un movimento verso l’unificazione, di cui è testimonianza il diffondersi di norme giuridiche comuni nei settori in cui l’umano è messo più visibilmente alla prova dalla tecnoscienza.
Possiamo fermarci alla contemplazione di questo orizzonte, che può apparirci smisurato? O dobbiamo guardare oltre, tornando a quell’uso umano degli esseri umani citato all’inizio? Chi ne porta la responsabilità? La diffusione della robotica, come già per l’elettronica, concentra potere nelle mani di chi controlla la dimensione tecnica. Con l’esasperata enfasi sul potere individuale il progetto transumanista finisce con l’incarnare la logica di una competitività senza confini. Se qualcuno soccombe, è solo perché non è stato capace di cogliere le opportunità offerte dalla tecnoscienza.
L’umano, e la sua custodia, si rivelano allora non come una resistenza al nuovo, al timore del cambiamento o come una sottovalutazione dei suoi benefici. Si presentano come consapevolezza critica di una transizione che non può essere separata da principi nei quali l’umano continua a riconoscersi. Non è impresa da poco, né di pochi. Esige un mutamento culturale, un’attenzione civile diffusa, una coerente azione pubblica. Parlare di una politica dell’umano, allora, è esattamente l’opposto di pratiche che vogliono appropriarsi d’ogni aspetto del vivente.

domenica 26 aprile 2015

È la buona alleanza che fa buona la scuola


Mariapia Veladiano

"La Repubblica", 26 aprile 2015

QUALSIASI massimalismo è grezzo, sempre. Ma applicato alla scuola è anche irresponsabile. Un ragazzo nato nel 1996 e che quest’anno sostiene l’esame di Stato ha incocciato in almeno tre cosiddette riforme.
MORATTI 2003 alle elementari, Gelmini 2008 alle medie, e ancora Gelmini alle superiori perché per le superiori la riforma è partita nel 2010. Contando la Berlinguer del 2000, la scuola italiana è stata “riformata” tre volte dentro l’arco temporale di un unico ciclo scolastico. “La buona scuola” è la quarta.
Nel frattempo gli insegnanti sono stati reclutati con concorso ordinario (pochi), con le Ssis, Scuole di specializzazione all’insegnamento secondario, con il Tfa, Tirocinio formativo attivo, con i Pas, Percorsi abilitanti speciali, e sono confluiti in graduatorie permanenti, ad esaurimento, di merito, di istituto di prima, seconda e terza fascia. Gli uni di volta in volta sicuri, in ragione di promesse dette o anche scritte, di poter restare, magari più degli altri o alla faccia degli altri, nel mondo della scuola. Il che sarebbe velleitario se nella scuola non ci fossero posti di lavoro, ma ci sono, e sono proprio quelli che gli insegnanti occupano, da precari stampati e dipinti. Licenziati a giugno e poi ripresi, chissadove, chissaquando. E protestano, naturalmente. E infatti l’Europa ha detto che non si può, un precariato prolungato è un sotterfugio per non assumere. E il governo ha detto va vene, li assumo tutti a settembre (poi ha detto la metà, adesso non si sa) ma il Miur deve risparmiare.
Ed ecco quel che capita. In questi giorni gli Uffici scolastici regionali stanno attribuendo agli istituti scolastici l’organico di diritto, ovvero il numero di insegnanti necessari, per legge, a far funzionare la scuola. Stanno arrivando quelli della scuola primaria. Bene, nel tempo normale non sono previste ore di compresenza, il che significa che non si può mai dividere la classe per accompagnare bambini con difficoltà, anche blande e recuperabili, mentre nel tempo pieno sono previste 4 ore in più da utilizzare per progetti di istituto (recupero, alfabetizzazione dei bambini stranieri, potenziamento). Gli organici che arrivano in questi giorni non prevedono nemmeno queste 4 ore. Gli uffici scolastici regionali obbediscono a parametri di rientro. Tagli insomma, che auspicabilmente saranno riportati a norma grazie all’organico dell’autonomia di cui parla “La buona scuola”. Anche se qualche agenzia a settembre batterà la notizia di un investimento straordinario sugli organici, e il pubblico distratto ci potrà credere, gli insegnanti sanno che sarà forse restituito quello che è stato tolto e non possono essere contenti. E protestano.
E intanto alle superiori, ad esempio negli istituti d’arte trasformati in licei dalla furia di licealizzare la scuola italiana tutta, gli organici sono attesi per poter far partire sciami rituali di ricorsi, perché in cinque anni di chiamiamola riforma non si è trovato il tempo di sistemare le nuove classi di concorso e la normativa sulle classi di concorso atipiche è formulata in modo tale da scientificamente fornire motivi di contenzioso.
Anche il divide et impera è insania pura applicato alla scuola. La buona scuola nasce sempre da una buona alleanza. Soprattutto fra i diversi ruoli e le diverse responsabilità. Il Rapporto Talis 2013, ospitato dal sito del Miur, chissà se se ne sono accorti, promosso dall’Ocse, che indaga l’attività professionale degli insegnanti, mostra che in tutti i Paesi gli insegnanti sono tanto più efficaci, cioè bravi, quanto più sono partecipi dei processi decisionali. Enfatizzare occhiuti presidi-padroni che valutano solitari i loro docenti vuol dire non sapere che la valutazione richiede una terzietà per ora impensabile in Italia perché manca una sufficiente rete ispettiva, presente in Francia ad esempio. E comunque valutare le professionalità della scuola è necessario ma non è facile. Il Trentino valuta i presidi da tempo ma ha cambiato modalità per due volte in tre anni. Si potrebbe imparare una buona prudenza da questa esperienza.
Poi, e dovrebbero venire prima naturalmente, ci sono i ragazzi, che gli insegnanti li prendono oggi e li perdono l’anno dopo, magari presenti nella stessa scuola, perché bisogna “saturare le cattedre”, e la continuità didattica viene ultima. E intanto che tutto questo accade, si deve studiare ed essere preparati, per un esame di Stato nuovo, il primo della chiamiamola riforma Gelmini, esame del quale, tranne che per la prima prova, in molti casi non si sa ancora che forma abbia la seconda prova.
Migliorare la scuola vuol dire oggi disinnescare la conflittualità, risolvere minuti problemi ereditati, ma è questo che la politica è chiamata a fare, riparare per quanto possibile la realtà. In politica non si dovrebbe essere un dio solitario al comando e andare avanti comunque sia. Basta essere adeguati, cioè conoscere la realtà che si è accettato di servire. Servire.

sabato 25 aprile 2015

Ecco perché siamo tutti Don Chisciotte


La finanza, l’ingiustizia, “il soccorso dei miseri”

 Il discorso di Goytisolo per il Premio Cervantes

In questi tempi di disuguaglianza siamo cavalieri erranti che raddrizzano i torti

Juan Goytisolo

"La Repubblica", 24 aprile 2015

IN TERMINI generali, gli scrittori si dividono in due gruppi: quelli che concepiscono il loro compito come una carriera e quelli che lo vivono come una dipendenza. Chi rientra nella prima categoria cura la propria promozione e visibilità mediatica, aspira al successo. Chi rientra nella seconda, no. Fare il proprio dovere rispetto a se stesso gli basta e se, come capita a volte, la dipendenza gli procura dei benefici materiali, passa dalla condizione di dipendente a quella di spacciatore o di rivenditore.
Chiamerò quelli della prima classe letterati e quelli della seconda semplicemente scrittori o più modestamente incurabili apprendisti scribacchini. Agli inizi del mio lungo percorso, prima di letterato, poi di apprendista scribacchino, incorsi nella vanagloria della ricerca del successo – attirare la luce dei riflettori, “essere notizia”, come dicono oscenamente i parassiti della letteratura – senza riflettere sul fatto che una cosa è l’attualità effimera e un’altra molto diversa la modernità senza tempo delle opere destinate a durare nonostante l’ostracismo che spesso dovettero patire quando furono scritte. La vecchiezza del nuovo si ripete nel corso del tempo con la sua illusione di freschezza avvizzita. La dolce lusinga della fama sarebbe patetica se non fosse semplicemente assurda. Estranea a qualsiasi manipolazione o teatro di marionette, la vera opera d’arte non ha fretta: può dormire per decenni o per secoli. Coloro che fecero calare il silenzio intorno al nostro primo scrittore e lo condannarono all’anonimato in cui viveva fino alla pubblicazione del Don Chisciotte non potevano nemmeno immaginare che la forza del suo romanzo sarebbe loro sopravvissuta e avrebbe raggiunto una dimensione senza frontiere né epoche.
«Porto in me la coscienza della sconfitta come un vessillo di vittoria», scrive Fernando Pessoa, e sono pienamente d’accordo con lui. Essere oggetto di lodi da parte dell’istituzione letteraria mi porta a dubitare di me stesso, essere persona non grata ai suoi occhi mi riconforta nella mia condotta e nel mio lavoro. Dall’alto degli anni, sento l’accettazione del riconoscimento come un colpo di spada nell’acqua, come un’inutile celebrazione. La mia condizione di uomo libero conquistata a fatica invita alla modestia. Lo sguardo dalla periferia al centro è più lucido di quello contrario e nell’evocare la lista dei miei maestri condannati all’esilio e al silenzio dalle sentinelle del canone nazionalcattolico devo almeno ricordare con malinconia la verità delle loro critiche e la loro esemplare rettitudine. La luce scaturisce dal sottosuolo quando meno la si aspetta.
La mia istintiva riserva rispetto ai nazionalismi di ogni genere mi ha portato ad abbracciare come un salvagente la nazionalità “cervantina” rivendicata da Carlos Fuentes. Mi ci riconosco pienamente. “Cervanteggiare” è avventurarsi nel territorio incerto dell’ignoto con la testa coperta da un fragile elmo bacile. Dubitare dei dogmi e delle presunte verità come pugni ci aiuta a eludere il dilemma in agguato tra l’uniformità imposta dal fondamentalismo della tecnoscienza nel mondo globalizzato di oggi e la prevedibile reazione violenta delle identità religiose o ideologiche che sentono minacciati il loro credo e la propria essenza. Invece di ostinarsi a disseppellire le povere ossa di Cervantes e di commercializzarle forse di fronte al turismo come sante reliquie fabbricate probabilmente in Cina, non sarebbe meglio riportare alla luce gli episodi oscuri della sua vita dopo il suo laborioso riscatto da Algeri? Quanti lettori del Don Chisciotte conoscono le ristrettezze e la miseria che patì, la sua richiesta respinta di emigrare in America, i suoi affari falliti, la permanenza nella prigione di Siviglia per debiti, la difficile sistemazione nel malfamato quartiere del Rastro di Valladolid con moglie, figlia, sorella e nipote nel 1605, anno della Prima Parte del suo romanzo, ai margini più promiscui e bassi della società?
Raggiungere la vecchiaia è avere la conferma di quanto le nostre vite siano vacue ed illusorie, quella “squisita merda della gloria” di cui parla Gabriel García Márquez riferendosi alle inutili imprese del colonnello Aureliano Buendía e dei rassegnati lottatori di Macondo. Il lieto giardino in cui si svolge l’esistenza di una minoranza non deve distrarci dal destino della maggioranza in un mondo in cui il portentoso progresso delle nuove tecnologie corre accanto alla proliferazione delle guerre e delle lotte mortifere, nel raggio infinito dell’ingiustizia, della povertà e della fame.
È impresa dei cavalieri erranti, diceva Don Chisciotte, «raddrizzare i torti e andare in soccorso dei miseri» e immagino l’ hidalgo della Mancia in sella a Ronzinante che si getta lancia in resta contro gli sbirri della Santa Confraternita che procedono allo sgombero degli sfrattati, contro i corrotti dell’ingegneria finanziaria o, traversando lo Stretto, ai piedi delle sbarre di Ceuta e Melilla da lui visti come castelli incantati con ponti levatoi e torri merlate che soccorre degli immigranti il cui unico delitto è il proprio istinto di vivere e l’ansia di libertà.
Sì, per l’eroe di Cervantes e per noi lettori toccati dalla grazia del suo romanzo è difficile rassegnarsi all’esistenza di un mondo afflitto da disoccupazione, corruzione, precarietà, crescenti disuguaglianze sociali ed esilio professionale dei giovani come quello in cui attualmente viviamo. Se questa è pazzia, accettiamola.
Il panorama intorno a noi è oscuro: crisi economica, politica, sociale. Le ragioni per indignarsi sono molteplici e lo scrittore non può ignorarle senza tradire se stesso. Non si tratta di mettere la penna al servizio di una causa, per giusta che sia, ma di introdurre il fermento contestatore nell’ambito della scrittura. Inserire la trama romanzesca nello stampo di forme ripetute fino alla sazietà condanna l’opera all’irrilevanza e ancora una volta, al crocevia, Cervantes ci mostra la strada. La sua coscienza del tempo “divoratore e consumatore delle cose”, di cui parla nel magistrale capitolo IX della Prima Parte del libro lo indusse ad anticiparlo e a servirsi dei generi letterari in voga come materiale di demolizione per costruire un portentoso racconto di racconti che si spiega all’infinito. Come dissi ormai parecchi anni fa, la pazzia di Alonso Quijano sconvolto dalle sue letture contagia il suo creatore impazzito per i poteri della letteratura. Tornare a Cervantes e assumere la pazzia del suo personaggio come una forma superiore di lucidità, questa è la lezione del Don Chisciotte.
Nel farlo non evadiamo dalla realtà iniqua che ci circonda. Al contrario, vi mettiamo saldamente i piedi. Diciamo ad alta voce che possiamo. Noi, contaminati dal nostro primo scrittore, non ci rassegniamo all’ingiustizia. Traduzione di Luis E. Moriones

La guerra dei santi: quando la politica si fa con le reliquie



Ecco perché dall’antichità a oggi 
la tradizione dei resti di martiri e profeti e la corsa ai “feticci divini” 
legittima imperi e governi

Silvia Ronchey

"La Repubblica", 25 aprile 2015

NELLA notte tra il 21 e il 22 febbraio scorso un blitz segreto dell’esercito turco in territorio siriano, a trenta chilometri dalla frontiera, nell’exclave di poche centinaia di metri quadrati presidiata in pieno deserto dalla bandiera rossa col crescente e da un pugno di berretti purpurei dei corpi d’élite, ha prelevato da una moderna turbe ottomana le presunte spoglie di un venerabile quanto leggendario personaggio vissuto otto secoli fa: Suleyman Shah, progenitore del mitico Osman Gazi, il fondatore dell’impero ottomano. L’operazione, denunciata come atto di aggressione da Damasco, ha lasciato un morto sul campo e per il resto terra bruciata ed è stata letta con attenzione dagli osservatori, che ne hanno rilevato e dettagliato le implicazioni politiche, psicologiche, strategiche sullo scacchiere attuale, dominato dall’avanzata del califfato in Siria.
In realtà, per leggere la meticolosa sortita dell’esercito turco sull’Eufrate, a sudovest dell’antica Edessa, occorreva guardare all’ancestrale tradizione della politica delle reliquie. Della particolare forma di legittimazione della memoria ancorata a una sacralità della materia, cui sempre le reliquie alludono, che siano di santi o di eroi, parlano ora due libri molto diversi per metodo, uno di antropologia, l’altro di storia del cristianesimo: Materia sacra di Ugo Fabietti (Cortina, pagg. 306) e Il prepuzio di Cristo di Tonino Ceravolo (Rubbettino, pagg. 177).
In greco le reliquie si dicono leipsana, “resti”: spoglie, quindi, ma anche, alla lettera, «avanzi di un pasto o di un banchetto», o anche ruderi, rovine, vestigia marmoree come di antiche città. Materia inorganica, minerale, calcificata, all’inizio le reliquie più universalmente venerate nelle religioni sono pietre, in cui il sacro ha lasciato un’impronta, come il calco di un fossile su una roccia. Così il Maqam Ibrahim, la pietra con la miracolosa orma di Abramo racchiusa in un tabernacolo alla Mecca accanto alla Ka’ba, o quella prodotta dal viaggio celeste di Maometto nella Cupola della Roccia a Gerusalemme, il Qubbat al-Sakhra, protetta da un reliquiario, o le altre pietre simili conservate nel mondo ottomano e indiano, da Istanbul a Delhi all’Uttar Pradesh. Nel culto cristiano sono le reliquie dette ex rupe presepii, dalla grotta della Natività, o le pietre del sepolcro, o per esempio la lastra “grande come un lavatoio” dove Abramo servì il pasto ai tre angeli che andavano a distruggere Sodoma e Gomorra, o il marmo del pozzo di Samaria dove Cristo disse alla samaritana alcune delle più belle parole del Vangelo di Giovanni, o il granito della colonna della Flagellazione, oggi a Roma, osservata da Bertrandon de la Broquière e dagli altri pellegrini nei loro tour delle città-reliquiario del mondo cristiano, Gerusalemme e Costantinopoli.
Come le reliquie eroiche custodite nei templi e nei santuari dell’antichità pagana, che già conosceva i primi fenomeni di inventiones e traslazioni di reliquie per motivi politici, anche i “ruderi” di una materia investita in un abissale momento dal carisma, segnata dall’impronta del sacro, sono più spesso, nel cristianesimo, intere anatomie, mummie o scheletri di corpi santi; oppure loro parti, organi, visceri: residuo delle pratiche rituali di smembramento della religione egizia, che in età tolemaica inaugurò l’uso del pellegrinaggio nelle città che conservavano interrate le diverse membra di Osiride. O anche residui minimi, stille di umori corporei, lembi di pelle, schegge di ossa, grumi di sangue, denti, unghie, peli, ciocche di capelli: dal dente di latte, reliquia la cui venerazione accomuna Cristo in Francia e Buddha in Sri Lanka, alla più celebre, discussa e significativa delle reliquie falliche, di cui tratta specificamente il libro di Ceravolo: il prepuzio di Cristo. Irriso, dissacrato, fustigato dall’ira di Calvino e dall’ironia degli illuministi, venerato come “vera carne” della circoncisione di Gesù, suo residuo corporeo non assunto, prova “materiale” della sua incarnazione, “frammento rosseggiante” della sua umanità, ma anche campione genetico della divinità, la sua venerazione accorciava le distanze tra cristianesimo e paganesimo ancestrale. Prima di approdare a Calcata nel Cinquecento, trafugato nel sacco di Roma, e sparire di nuovo, veniva custodito nel Sancta Sanctorum del Laterano insieme ad altre “ineffabili reliquie” e una volta l’anno unto e portato in processione dal pontefice e dall’intero collegio cardinalizio: una cerimonia che richiamava le fallofòrie greche e romane, descritte da Plutarco. Ma nel culto della reliquia dell’organo riproduttivo di Cristo l’antico simbolo di fertilità cambiava segno, puntava dritto all’escatologia cristiana, alludeva alla grande e inaudita promessa di questa religione: la resurrezione finale dei corpi. Materia sacra, appunto, come spiega Fabietti, che classifica le valenze e le modalità dell’infusione di potere sacrale alla materia in una rapsodica storia comparata delle religioni che investe con serafica “erranza etnografica” i feticci africani e le culle-cattedrali dei béguinages fiamminghi, i misteri grecoromani e i culti precoloniali andini, la taumaturgia cristiana e il vodu, il calvinismo e l’islam.
A decretare la santità della reliquia può bastare la contiguità col testimone umano, e allora sono brandelli di vesti, lenzuoli, bende. Le fasce di Cristo, la sua «tunica inconsutile, che in antico probabilmente era stata violetta, ma che col tempo si era ingrigita». Il mandylion, con impresso il volto di Cristo, la sindone, con il suo corpo. La pletora degli strumenti della Passione: la lancia che trapassò il costato, la spugna, il legno della Croce, moltiplicato nella geostoria occidentale in un’esplosione di schegge, tanto che Erasmo ironizzò che con tutto quel legno si sarebbe potuta costruire una nave; la corona di spine, a sua volta soggetta a una vertiginosa diaspora che immetterà una pioggia di Sante Spine nell’orbita del potere del re di Francia, dopo che la reliquia, con la conquista crociata di Costantinopoli nel 1204, passò dalla Theotokos del Faro alla Sainte Chapelle; i sacri chiodi portati da Elena a Costantino, leggenda di fondazione dell’impero cristiano, di cui uno contemplabile a Roma nella Wunderkammer di Santa Croce in Gerusalemme. Nell’islam sufico e nelle sue dottrine più esoteriche, che parlano di “luce muhammadica”, la natura interiore di Maometto è identica alla luce divina e il suo corpo ha quindi uno statuto speciale. Nelle reliquie corporee del Profeta i sufi esaltano insieme l’umanità e il luogo della teofania divina. Di qui la venerazione dei capelli e dei peli della barba di Maometto, meta di pellegrinaggio a Shrinagar nel Kashmir. E poi del suo sangue, della sua saliva, degli oggetti che entravano in contatto col suo corpo durante le abluzioni, capi di vestiario, sandali. Sono reliquie da contatto, feticci, dove la nozione di “sostituto” intuita da Freud sottolinea l’aspetto libidico di questi oggetti di venerazione non solo nelle religioni primitive ma anche in quelle storiche, fino alla reliquie laiche prodotte dalle moderne ideologie politiche, dai residui corporei di Garibaldi alla salma imbalsamata di Lenin.
In oriente come in occidente, la storia stratificata delle reliquie, scrive Ceravolo, traccia l’atteggiamento dell’uomo verso il corpo, il sacro, il potere e la morte. Si potrebbe scrivere: verso il corpo e cioè verso la morte; verso il sacro e cioè verso il potere. Le reliquie, i “formicai di ossa” irrisi da Calvino, erano capitale simbolico, marchio di identità non solo confessionale, ammesso che la religione sia mai oggetto e non pretesto di identità. Venivano scambiate fra gli stati per sancire patti strategici o economici. In caso di guerra erano il trofeo più ambito. La difesa di una reliquia poteva conferire legittimità a un impero. Attorno a una reliquia si poteva fondare l’egemonia di una città, come nel caso delle ossa dei Magi conservate al centro della cattedrale di Colonia. Per qualunque soggetto, singolo o comunità, una reliquia era affermazione di esistenza e garanzia di sopravvivenza alla morte, individuale o collettiva. Anche nell’islam, come nel paganesimo o nel buddhismo, le reliquie si usavano nella fondazione di edifici sacri e pubblici, si trasmettevano nelle generazioni, si diffondevano con l’avanzata storica e geografica di quella civiltà, si moltiplicavano, rivestivano una funzione civilizzatrice di legittimazione del potere temporale.
I resti del leggendario antenato di Osman traslati dall’esercito turco nel febbraio scorso simboleggiavano contemporaneamente l’identità etnica ottomana; la tradizione imperiale dei sultani, detentori del titolo califfale fino al 1924; la passata giurisdizione turca sulla Siria; il nazionalismo kemalista, che indusse Ataturk a rivendicarla e ottenerla dalla Francia nel trattato di Ankara del 1921, per mantenerla anche dopo l’indipendenza della Siria nel ‘46. Se quella fatta oggi coi tank blindati e le unità speciali come nel medioevo a fil di spada è la tipica traslazione di una reliquia, il suo significato ci fa leggere, sotto l’attualità, il reticolo sotterraneo di simboli e cicatrici che segnano la storia delle convivenze o collisioni o progressive ibridazioni tra popoli: in una parola, il passato.

mercoledì 22 aprile 2015

Noi esseri umani tutti figli delle stelle


Ora c’è la conferma scientifica: siamo fatti della stessa materia

Ray Jayawardhana

"La Repubblica", 21 aprile 2015

Spesso dimentichiamo che a separarci dal resto dell’universo c’è solo un sottile strato d’atmosfera
Il ferro nel nostro sangue, il calcio nelle nostre ossa sono i resti di quegli oggetti luminosi

NELLA sua canzone Woodstock del 1970 Joni Mitchell cantò «Siamo polvere di stelle, [molecole] di carbonio di un miliardo di anni » e bruciò Carl Sagan sul fil di lana: accadde tre anni prima che quest’ultimo nel suo libro Contatto cosmico scrivesse che l’uomo è fatto di starstuff, materia stellare, concetto che in seguito avrebbe trasmesso a un pubblico molto più vasto nel suo documentario televisivo a puntate del 1980 intitolato Cosmos.


Oggi “polvere di stelle” e “materia stellare” sono diventati quasi cliché, ma non per questo la realtà dietro tali espressioni è meno profonda o meno magica.
Il ferro nel nostro sangue, il calcio nelle nostre ossa e l’ossigeno che respiriamo sono i resti materiali di stelle vissute e morte moltissimo tempo fa. Si tratta di una scoperta relativamente recente: quattro astrofisici hanno elaborato questo concetto in un documento pubblicato nel 1957, diventato poi una pietra miliare. I quattro sostenevano che quasi tutti gli elementi della tavola periodica si erano formati nel tempo per mezzo di reazioni nucleari che avvenivano all’interno di stelle — e non nei primi istanti del Big Bang come si supponeva in precedenza. La materia della vita, in altri termini, si manifestò in luoghi ed epoche per certi aspetti più accessibili alle nostre esplorazioni con il telescopio.
Tenuto conto che in stragrande maggioranza trascorriamo la nostra vita confinati in una stretta fascia in prossimità della superficie della Terra, siamo portati a pensare al cosmo come a un regno celeste sconfinato, molto al di là della nostra portata. Dimentichiamo che a separarci dal resto dell’universo c’è soltanto un sottile strato di atmosfera. Ancora oggi la scienza ci dimostra quanto la vita sulla Terra sia interconnessa ai processi extraterrestri. In particolare, alcune recenti scoperte hanno fatto luce sulle origini cosmiche degli ingredienti fondamentali della vita.
Prendiamo il fosforo. Si tratta di un componente essenziale del Dna, come pure delle nostre cellule, dei denti e delle ossa. Gli astronomi hanno faticato per ricostruirne la formazione in tutta la storia del cosmo, perché la traccia indelebile del fosforo è difficile da individuare nelle vecchie stelle fredde alla periferia della nostra galassia. (Alcune di queste “capsule temporali” stellari contengono le ceneri delle loro progenitrici, la prima generazione di stelle che si formò intorno all’alba dei tempi).
Ma in un documento pubblicato su The Astrophysical Journal Letters, un’équipe di ricercatori ha riferito di aver misurato la quantità di fosforo presente in tredici di queste stelle, utilizzando informazioni ottenute dal telescopio spaziale Hubble. Le loro scoperte mettono in luce il ruolo prioritario nella formazione degli elementi essenziali per la vita delle cosiddette ipernovae, esplosioni che rilasciano ancora più energia delle supernovae e che comportano la scomparsa di stelle enormi.
Nel regno celeste si produce qualcosa di più di semplici atomi. Numerose sono le prove dalle quali si evince che lo spazio interstellare fu anche il luogo nel quale gli atomi si unirono per formare alcune molecole collegate alla vita. Uno studio pubblicato su Science con alcune simulazioni informatiche è riuscito a ricostruire da dove proviene l’acqua della Terra. Il responso al quale si è arrivati è sorprendente: la metà dell’acqua presente sul nostro pianeta è più antica del sistema solare stesso. Ai gelidi confini di una gigantesca nube di gas si assemblarono primitive molecole di acqua. In quella nube si svilupparono il nostro Sole e i pianeti che vi orbitano attorno, e in qualche modo quelle molecole d’acqua sopravvissero ai rischi legati al processo di nascita dei pianeti per finire nei nostri oceani e, a quanto si crede, anche nei nostri corpi. Nubi interstellari di tal fatta si sarebbero potute benissimo prestare a dar vita a una molteplicità di molecole. In un altro studio dello scorso autunno pubblicato sempre su Science, un gruppo di ricercatori ha riferito la prima scoperta in una incubatrice stellare di una molecola contenente carbonio e avente una struttura “ramificata”. L’individuazione di tale molecola, hanno scritto gli scienziati, è di buon auspicio per preconizzare la presenza nello spazio interstellare di aminoacidi, dato che la struttura ramificata è una loro caratteristica fondamentale. (I ricercatori si sono avvalsi di un enorme network, operativo soltanto in parte, di antenne radio erette su un altopiano ad alta quota nel nord del Cile, posizione che rende più facile per le onde radio raggiungerci dai confini glaciali della nostra galassia, dove si presume che abbia avuto inizio l’alchimia della vita).
Gli astrochimici sono entusiasti per questa scoperta, perché gli aminoacidi — che sono già stati individuati in alcune meteoriti — costituiscono il presupposto delle proteine. Nel frattempo, il mese scorso alcuni scienziati della Nasa hanno reso noto di aver creato alcune componenti di base del Dna in un esperimento di laboratorio che simulava l’ambiente spaziale. Sommando tra loro gli esiti di queste ricerche, aumentano considerevolmente le probabilità che i cosiddetti “mattoni della vita” si siano formati nello spazio e si siano amalgamati alla materia che ha formato la Terra e gli altri pianeti.
Può anche darsi che l’universo ci appaia remoto, irreale e irrilevante, immersi come siamo negli agi materiali, affascinati dalle continue distrazioni della vita moderna, e che ciò accada soprattutto a chi vive in città. Ma la prossima volta che da un luogo buio di periferia darete un’occhiata alla Via Lattea in tutto il suo splendore, provate a pensare a tutte quelle innumerevoli stelle come a impianti nucleari e alle aree nebulose prive di stelle come a calderoni molecolari. A quel punto non ci vorrà molto prima che riusciate anche a immaginare i primordiali semi della vita che compaiono in lontananza.
© 2015 The New York Times. Traduzione di Anna Bissanti

Ray Jayawardhana è nato nello Sri Lanka. Si è formato ad Harvard e ora insegna astrofisica alla New York University

domenica 19 aprile 2015

Indagini da psicoanalisti del passato

Dino Messina

"Corriere della Sera - La Lettura", 19 aprile 2015

Il rapporto tra Freud e la storia, così il titolo del profondo saggio di Aurelio Musi, pubblicato da Rubbettino (pagine 112), può essere declinato in vari modi. Proviamo a indicarne tre. C’è innanzitutto la similitudine tra il procedimento dell’analista e quello dello storico. Tutti e due muovono da un determinato punto di osservazione nel presente alla ricerca di materiali (ricordi, documenti) del passato attraverso i quali ricostruire un percorso, raccontare una storia. Ci sono poi da considerare i tanti studiosi, che nel Novecento, a partire dai pionieri delle «Annales», hanno utilizzato gli strumenti della psicologia per una storia delle mentalità o comunque dei tanti aspetti sociali che non rientravano nella «storia evenemenziale», legata cioè soltanto alla cronaca dei grandi eventi. Ma a monte c’è soprattutto lo studio della formazione di Sigmund Freud, la sua passione per l’archeologia, la curiosità per le grandi personalità, come Mosè, Alessandro Magno, Leonardo da Vinci, la consapevolezza con cui costruiva la sua nuova scienza, gettando un ponte tra il sapere positivo e quello umanistico.
Anche la storia, osserva a un certo punto l’autore, è sì una disciplina umanistica, ma più di altre capace di dialogare con la scienza, a partire dalla biologia che regola i segreti della memoria. Non è un libro facile quello di Aurelio Musi, che tuttavia sa rendere avvincente una materia molto complessa, anche per la capacità di intrecciare discipline distanti in una prospettiva teorica che può dare ancora frutti. Alcuni capitoli richiamano i temi già trattati da Musi in un suo saggio fortunato che ha avuto tredici edizioni, Le vie della modernità (Sansoni), e nelle ultime pagine, dedicate alla figura di Tommaso Aniello d’Amalfi, detto Masaniello (1620-1647), lo storico mostra «sul campo» quanto utili possano tornare gli strumenti della psicoanalisi nell’interpretazione di una figura borderline come il controverso capopopolo. E quanto il disagio mentale assuma le forme della propria epoca.

lunedì 13 aprile 2015

Il mito della Gioconda (nato da un furto)


Il dipinto era famoso già nell’Ottocento,
 ma diventò un tormentone quando venne trafugato, nel 1911 
Da Duchamp alla «versione Simpson»: 
ecco perché Monna Lisa ha stregato l’immaginario moderno


Francesca Bonazzoli

"Corriere della Sera", 12 aprile 2015

Leonardo ha creato due icone pop: L’ultima cena e La Gioconda, immagini in assoluto fra le più popolari dell’arte. Il Cenacolo è stato il primo dipinto della storia diffuso attraverso il primo mezzo di riproduzione di massa: l’incisione, tecnica che non era ancora stata impiegata per trarre copie di opere già esistenti, ma solo per stampare immagini create ex novo. Il clamore suscitato dal Cenacolo fu infatti così vasto che subito si aprì un mercato per la vendita delle riproduzioni rivolto sia agli artisti che ai viaggiatori.
Tutt’altra storia ebbe invece La Gioconda, poco riprodotta per due ragioni: la difficoltà di rendere lo sfumato leonardesco e la sua ubicazione. Il ritratto, infatti, a differenza del Cenacolo dipinto sul muro di un convento da sempre aperto al pubblico, restò chiuso nelle collezioni reali di Francia fino al 1804.
Ma non perché, come credono molti italiani, fu rubato dai francesi, bensì perché fu comprato dal re Francesco I, al cui servizio Leonardo morì. Passato di re in re, nel 1797, dopo la Rivoluzione Francese, il quadro entrò nell’elenco dei dipinti che avrebbero composto il nuovo Musée du Louvre. Ma nel 1800 Napoleone ordinò che la Joconde fosse trasferita nella sua camera da letto alle Tuileries dove rimase fino al 1804.
La «giocondomania» quindi esplose solo nella seconda metà dell’Ottocento e fu il suo furto, il 21 agosto 1911 ad opera di un imbianchino italiano che lavorava nel museo, Vincenzo Perugia, a spingere la sua fama ormai consolidata. I quotidiani annunciarono in prima pagina il furto pubblicando grandi foto della Gioconda. L’evento si trasformò in una straordinaria occasione per la divulgazione popolare del quadro e quando il Louvre riaprì i battenti dopo una settimana di chiusura, i parigini si recarono in massa a contemplare la parete vuota.
L’effetto mediatico compì il suo giro quando Vincenzo Perugia cercò di vendere il dipinto all’antiquario fiorentino Alfredo Geri, il quale avvisò subito la Soprintendenza. La Gioconda fu restituita alla Francia dopo un tour di esposizione agli Uffizi, alla galleria Borghese e alla Pinacoteca di Brera dove la folla si accalcava fin nelle vie circostanti. La stampa di tutta Europa tornò a fare da cassa di risonanza pubblicando foto e articoli. Giornalisti, scrittori, chansonnier, attori e umoristi si scatenarono. Anche la propaganda politica fece la sua parte: nel 1918 fu pubblicata una cartolina con la Gioconda-Kaiser, cui seguì la Gioconda-Stalin. E se prima del furto la pubblicità aveva usato la Gioconda solo raramente, dopo la impiegò per i prodotti più disparati.
Ma secondo un meccanismo che colpisce tutte le icone, con l’aumentare della fama crebbe anche la «giocondoclastia». La demolizione più conosciuta del suo mito si deve a Duchamp che nel 1919 disegnò baffi e barba sopra una riproduzione e completò l’atto sacrilego con la scritta: L.H.O.O.Q. la cui pronuncia suona «Elle a chaud au cul», «Ella ha caldo al culo».
Alla profanazione di quel simbolo della bellezza si dedicarono anche Dalí, Gruel, Suydeux con un cortometraggio, Harold, Souzouki e anche la body artista francese Orlan che, nel 1990, si sottopose a un intervento di chirurgia plastica per modificare la propria fronte come quella della Gioconda.
Anche le canzoni hanno contribuito ad amplificare la fama del quadro: da You are the Top del 1943 di Cole Porter a Mona Lisa di Jay Livingston e Ray Evans portata al successo da Nat King Cole, fino a Bob Dylan e Elton John.
E da parte loro, il Louvre e Ministero della Cultura francese sono stati ben contenti di sfruttare a fini commerciali l’enigmatico volto nelle copertine delle guide del museo; sul sito web e nel merchandising, dalle tazzine da caffè ai fermacapelli.

Aristotele è emigrato in Australia


La rivincita della metafisica nel mondo anglosassone
Cresce la critica alla visione quantitativa dell’essere

Giovanni Ventimiglia

"Corriere della Sera - La Lettura", 12 aprile 2015

Le idee non conoscono il default. E proprio mentre l’economia greca, nonostante gli sforzi di Tsipras, rischia la bancarotta e l’uscita dall’Unione Europea, la filosofia greca, trainata da un inarrestabile Aristotele, conquista l’America e l’Oceania. «Grecia capta ferum victorem cepit et artes intulit agresti Latio», ci ripeteva a scuola la professoressa di latino e greco: la Grecia, conquistata (dai Romani), conquistò — con la sua cultura, sottintendeva Orazio — il rozzo vincitore e le arti portò nel Lazio agreste. Non so chi siano oggi i Romani — forse semplicemente l’impero dell’economia occidentale, che ha spostato i suoi interessi dai Paesi dell’Atlantico a quelli bagnati dal Pacifico —, ma certo è che la metafisica di Aristotele, data per morta nel vecchio continente europeo, sta conquistando molte università anglosassoni, dagli Stati Uniti all’Australia fino alla Nuova Zelanda.
Prendiamo per esempio l’ultimo volume della collana di studi di metafisica della Routledge, notoriamente una delle più importanti case editrici accademiche del mondo. Il titolo non lascia spazio a dubbi: Neo-Aristotelian Perspectives in Metaphysics («Prospettive neo-aristoteliche in metafisica»). La provenienza universitaria degli autori parla da sola: Inghilterra (Durham e Reading), Stati Uniti (New York, Washington, Texas, Ohio, Indiana, Arizona e soprattutto California), Australia (New South Wales). Come si vede, anche le università inglesi sono ben rappresentate, ma questo non fa notizia, se solo si pensa alla quasi ininterrotta tradizione di filosofi di orientamento aristotelico di Oxford: da Austin a Ryle, da Strawson a Wiggins, da Anscombe a Geach, fino al vivente Sir Anthony Kenny, autore della recente e nota Nuova storia della filosofia occidentale (Einaudi), tradotta in varie lingue. Fa più notizia, invece, la presenza della metafisica di Aristotele al di fuori dell’Inghilterra.
Nel citato volume della Routledge si segnala, a questo proposito, il contributo del filosofo analitico (ma aristotelico) William Vallicella, che critica e, anzi, demolisce i «dogmi della filosofia analitica» non aristotelica, ossia quelli del filosofo americano Willard Van Orman Quine, dominatore incontrastato della scena della metafisica anglosassone fino a qualche anno fa. I dogmi sarebbero riassumibili, scrive Vallicella, nella tesi secondo cui non vi sarebbero molteplici modi, o sensi, dell’essere ma soltanto uno, quello espresso dal cosiddetto quantificatore esistenziale. Per Quine, infatti, che si rifà a Russell e a Frege, tutte le proposizioni esistenziali non sarebbero altro che una questione di «quantità». Ad esempio, la proposizione «gli elefanti esistono mentre le sirene non esistono» non intenderebbe dire altro se non che la proprietà «essere elefante» può contare su un numero di «esemplari» maggiore di zero, mentre la proprietà «essere sirena» non può vantare nemmeno un esemplare. Insomma «l’esistenza — come scrisse Frege — non è altro che la negazione del numero zero».
Ora, questa teoria di Quine aveva tutte le caratteristiche per diventare un dogma filosofico: permetteva di dare una spiegazione unica e univoca di tutte le proposizioni esistenziali e, inoltre, andava contro il senso comune — e si sa come molti filosofi vadano pazzi per le teorie che contraddicono il modo di pensare dei comuni mortali.
«Molti filosofi», tranne Aristotele e i suoi seguaci. «Quando Amleto andava chiedendosi “to be or not to be?”, che cosa lo affliggeva?», ironizzano gli aristotelici. Il fatto di non riuscire a risolvere un grattacapo numerico? Si domandava forse: «Ma la proprietà “essere Amleto” avrà ancora, perbacco, un numero di esemplari maggiore di zero o ne avrà, perdindirindina, un numero uguale a zero?». Oppure, al contrario, egli, come suggerisce il senso comune, era interiormente tormentato dal dubbio, davvero esistenziale, se continuare a vivere o farla finita per sempre e darsi la morte?
Gli aristotelici contemporanei, come Vallicella, non hanno dubbi in proposito, perché sanno, come sta scritto nella Metafisica del greco Aristotele da quasi 2.400 anni, che «l’essere si dice in molti modi» e ci sono modi, o sensi, che non sono riducibili a questioni di numero.
È precisamente quanto si sostiene nell’ultimo numero di «The Monist», una rivista di filosofia stabilmente in vetta a tutti i ranking internazionali più accreditati. Il volume, egregiamente curato da due italiani (Alberto Voltolini e Francesco Berto, ma il secondo è «emigrato» ad Amsterdam) insieme a Frederick Kroon, professore dell’Università di Auckland (Nuova Zelanda), si apre con una introduzione che rende conto del variegato panorama della metafisica contemporanea. Vi si citano, tra gli altri, i cosiddetti teorici del grounding , cioè Kit Fine, uno dei maggiori metafisici viventi, che insegna alla New York University (dopo aver insegnato in California), Jonathan Schaffer, professore all’Università di Rutgers nel New Jersey (dopo aver insegnato all’Australian National University a Canberra), e, infine, Fabrice Correia, dell’Università di Neuchâtel, in Svizzera. Si tratta di filosofi che, richiamandosi espressamente ad Aristotele, sostengono la tesi secondo cui fra i tanti modi, o sensi, dell’essere alcuni sono più importanti e più fondamentali rispetto ad altri: per esempio, l’esistenza di sostanze come le donne e i pesci è più fondamentale dell’esistenza di entità immaginarie come le sirene, dal momento che queste non potrebbero esistere nemmeno nell’immaginazione se non esistessero, appunto, le donne e i pesci, di cui sono una favolosa sintesi.
Molto interessante è, poi, il primo articolo del numero di «The Monist», firmato da Graham Priest, un filosofo inglese che si divide fra la City University di New York e l’Università di Melbourne. Che cosa vi si sostiene? Lo si trova scritto, in estrema sintesi e in polemica con la concezione univocista dell’essere di Quine, proprio nell’epigrafe dell’articolo, che recita: «Being is said in many ways», traduzione inglese di un passaggio del IV libro della Metafisica di Aristotele: «L’essere si dice in molti modi». Incredibili i percorsi delle idee: il pensiero greco si salva nell’inglese di un professore che insegna a Melbourne! Così, mentre la Grecia, forse, affonda, e l’Europa agonizza, decrepita, sotto il peso del passato, i suoi figli migliori, come i nostri costretti a espatriare, trovano fortuna altrove, e conquistano, idealmente, altre terre: Grecia capta ferum victorem cepit. La Grecia, conquistata, conquistò il rozzo vincitore. E portò la metafisica anche nella terra dei canguri.

Antropofobia



Ossessionati da identità e radici, temiamo (e ignoriamo) 
la varietà di società e culture del pianeta
Per questo Finkielkraut sbaglia

Adriano Favole

"Corriere della Sera - La Lettura", 12 aprile 2015


Nel suo libro L’identità infelice (Guanda), Alain Finkielkraut la chiama «oicofobia», ovvero «l’odio per la casa natale». Riferendosi alla sua Francia, il filosofo sostiene che vi è una diffusa tendenza a valorizzare le differenze culturali degli stranieri, mentre il patrimonio autoctono sarebbe oggetto di disinteresse e spesso di una radicale critica. È una Francia «in cui l’origine non ha diritto di cittadinanza se non a condizione di essere esotica e in cui una sola identità è tacciata d’irrealtà: l’identità nazionale». L’identità è infelice perché i francesi, e più in generale gli europei, rifiutano di celebrare e difendere i simboli della loro cultura, quella stessa cultura occidentale contro cui i terroristi che si richiamano all’islam scagliano l’odio omicida. «Perché la Francia è a immagine dell’Europa e l’Europa ha smesso di credere nella sua vocazione (passata, presente o futura) di guida dell’umanità nella realizzazione della sua essenza», dice Finkielkraut.
La critica all’«oicofobia» è molto diffusa di questi tempi, anche in Italia. Si rivolge in genere contro chi, come Francesco Remotti e Maurizio Bettini, ha reso sospetti termini come «identità» e «radici». L’uso di «oicofobia» è originale e arguto, ma in fondo non è altro che la riproposizione della vecchia querelle contro i «relativisti».
Una fenomenologia dell’oicofobico italiano rimanda, per limitarci ad alcuni esempi, a chi mette in discussione la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche; a chi, nonostante i terroristi e la jihad globale (o forse proprio per questo), ritiene comunque importante non dimenticare le pagine buie del colonialismo occidentale. Temo di essere classificato tra questi se, quando i media diffondono orrende immagini di distruzione del patrimonio artistico da parte dell’Isis, non posso fare a meno di pensare a quando, un paio di secoli prima, i missionari cristiani bruciavano gli idola pagani delle società polinesiane in cui mi è capitato di fare ricerca (statue lignee e reliquie degli antenati), trasformando i marae (i «templi» sacri) in recinti per i maiali e per i polli. L’oicofobico italiano è accusato di difendere l’operazione Mare nostrum per salvare le vite di chi tenta di attraversare il Mediterraneo, superando il filo spinato dell’indifferenza verso la fame, la guerra e la morte, anche se si tratta di uomini e donne in prevalenza islamici, e di non scandalizzarsi abbastanza davanti ai massacri dei cristiani in Kenya.
Davvero è un «pericolo» l’oicofobia? Ma soprattutto: è così diffusa come si vuol far credere? A me pare che il saggio di Finkielkraut colga un diffuso «bersaglio» più che un pericolo.
Molto più diffuso e pericoloso, a mio modo di vedere, è un atteggiamento che si potrebbe definire «antropofobia». L’antropofobia è la paura, lo sgomento e la difficoltà di riconoscere e valorizzare la diversità culturale prodotta dall’umanità, distinguendo la sua importanza dagli usi strumentali di tipo politico, militare e persino terroristico che spesso se ne fanno. È la paura di riconoscere l’umanità nella variabilità delle sue forme (interne ed esterne a una società) e nel suo divenire creativo, attraverso l’inevitabile fusione di orizzonti. È, ancora, l’idea che la condivisione di valori e obiettivi debba comportare il cristallizzarsi di un’identità monolitica. L’antropofobia si manifesta oggi in una risoluta e testarda negazione dei risultati delle ricerche scientifiche compiute da discipline come l’antropologia culturale e l’antropologia fisica (e più in generale nelle humanities ), ridotte dagli antropofobici ad arene ideologiche della post-sinistra intellettuale.
Lasciando da parte il crescente neo-razzismo quale forma paradigmatica di antropofobia, vorrei porre l’attenzione su un’istituzione come la scuola, che il filosofo francese accusa di «oicofobia» in quanto trascurerebbe lo studio degli autori classici della tradizione occidentale. Quanto insegniamo nella scuola (e nell’università) ai ragazzi e ai giovani della variabilità culturale dell’essere umano? Uno studente all’ultimo anno di liceo non conosce neppure i nomi delle più diffuse etnie africane: non sa chi sono hutu e tutsi e tanto meno nuer e dinka. Della Cina conosce probabilmente l’inquinamento e lo straordinario progresso economico degli ultimi decenni, ma ne ignora del tutto la storia, così come i nomi delle lingue minoritarie. Forse i cherokee ricordano al nostro studente un’automobile e i wampum un paio di jeans, ma difficilmente ha potuto acquisire qualche elemento di conoscenza delle società native americane. D’altra parte non conosce neppure le principali tipologie di famiglia, discendenza e alleanza matrimoniale presenti nelle società umane.
Per non parlare delle religioni, che pure sono indiziate di essere un «problema» molto rilevante del nostro tempo. L’insegnamento relativo a riti, credenze e precetti dell’islam e dell’ebraismo, dell’induismo e del buddhismo, tralasciando le «primitive» religioni native dell’Amazzonia o dell’Oceania, sono lasciati al buon cuore di qualche insegnante di religione cattolica o a qualche contestato laboratorio didattico pomeridiano. Non c’è traccia di tematiche antropologiche (salvo un cenno all’insegnamento della lingua italiana per gli stranieri) nel recente disegno di legge sulla «buona scuola» presentato dal governo, eppure ogni giorno la «questione interculturale» ci viene presentata come uno dei problemi maggiori del nostro tempo.
L’antropofobia delle istituzioni formative porta con sé la mancanza di un lessico minimo della comunicazione interculturale e diffusi equivoci. Termini come «etnia» e «cultura» sono costantemente utilizzati nel linguaggio mediatico come se si riferissero a realtà ontologiche primordiali e persistenti, mentre gli scienziati sociali non cessano di documentare il loro carattere storicamente costruito. Insigni editorialisti utilizzano i termini «antropologia» e «antropologico» come se si riferissero ad aspetti profondi e immutabili dell’essere umano, mentre l’antropologia (sia sul versante biologico sia su quello culturale) mette costantemente in luce la variabilità e la trasformazione delle forme.
Gli antropofobici detestano in genere la complessità dell’essere umano e cercano comode scorciatoie. L’ homo oeconomicus, l’individuo che ovunque cerca di massimizzare i profitti, è una di queste, così come il diffuso ricorso a determinismi neurologici e biologici — proprio in questi giorni è uscito in Italia Una scomoda eredità di Nicholas Wade (Codice Edizioni), un libro che ripropone un paradigma razziologico, mentre le comunità degli antropologi fisici e culturali hanno da poco ribadito con forza l’inconsistenza scientifica del concetto di razza. In realtà, essere «antropofili», apprezzare cioè l’umanità nella sua varietà e fare di essa il punto di partenza per la costruzione di percorsi condivisi, non vuol dire essere oicofobici. L’incapacità di accogliere l’humanitas nella sua interna complessità impedisce infatti di guardare con affetto e pietas alle peculiarità della cultura da cui si proviene. Anche perché, quando si studiano le radici, si finisce per vedere che spesso esse sono ben radicate altrove, anche se nutrono la nostra pianta. I tronchi degli alberi con cui si fabbricano le case, afferma un detto polinesiano, sono gli stessi con cui si producono le piroghe per navigare in alto mare.

Hitler e i fisici della zona grigia


Werner Heisenberg, 1925

Nell’analisi di Philip Ball accanto ai Nobel antisemiti Lenard e Stark 
le posizioni ambigue di Planck, Debye e Heisenberg

Vincenzo Barone

"Il Sole 24 ore - Domenica", 12 aprile 2015

Il 7 aprile 1933, il governo nazista, insediatosi da poche settimane (Hitler era diventato Cancelliere del Reich alla fine di gennaio), emanò una legge sui funzionari pubblici, che rimuoveva dall’amministrazione dello Stato – e quindi anche dalle università – le persone di «discendenza non ariana». Fu una data cruciale e drammatica per la scienza tedesca, fino a quel momento la più avanzata al mondo. «Gli ebrei tedeschi – disse Goebbels – possono ringraziare i fuoriusciti come Einstein per il fatto che essi stessi oggi, in modo del tutto legittimo e legale, sono chiamati a renderne conto». Einstein si era allontanato dalla Germania alla fine del 1932, all’indomani della vittoria elettorale nazista, ma dal 1933 in poi fu la puntuale applicazione della nuova legge a svuotare gli istituti e i laboratori universitari dei migliori cervelli della nazione.
Nel volgere di un paio di anni, uno scienziato su cinque fu rimosso dall’incarico o costretto alle dimissioni (nella fisica la frazione fu di uno su quattro): molti premi Nobel persero il posto e lasciarono il paese. Ma che cosa successe a tutti gli altri – agli scienziati che non furono toccati dai provvedimenti antiebraici e rimasero a lavorare in Germania sotto il regime nazista? Con pochissime eccezioni, si verificò quello che Hitler aveva sprezzantemente previsto in un’intervista del 1931: «Credete forse che nel caso di una nostra vittoria la classe media tedesca rifiuterebbe di servirci e di mettere i suoi cervelli a nostra disposizione?».
Tra i fisici «al servizio del Reich» – cui è dedicato un interessante saggio di Philip Ball, appena tradotto da Einaudi - ve ne furono alcuni violentemente antisemiti e attivi sostenitori del nazismo, come Philipp Lenard e Johannes Stark, entrambi premi Nobel, che si distinsero per le loro campagne contro la «fisica giudaica» (rappresentata ai loro occhi soprattutto dalla teoria della relatività). Ma la compagine più folta fu quella di coloro che, senza partecipare direttamente alla vita politica, trovarono forme di accomodamento con il regime, per un mal riposto senso di patriottismo e di fedeltà allo Stato. È su questa «zona grigia tra complicità e resistenza», in cui si mossero personaggi di prima grandezza, che Ball ha scelto di indagare. La sua attenzione si concentra su tre nomi: Max Planck, padre della teoria dei quanti, Werner Heisenberg, uno dei fondatori della meccanica quantistica, Peter Debye, pioniere della fisica molecolare.
Planck e Heisenberg sono figure ben note e ampiamente esplorate. Planck, che all’avvento di Hitler aveva già settantacinque anni, incarnava alla perfezione lo spirito prussiano: rigidamente fedele alle istituzioni, optò per il compromesso e l’inazione, convinto che gli aspetti più odiosi del nazismo si sarebbero attenuati col tempo. Heisenberg, proveniente da una famiglia di tendenze nazionaliste, era l’astro nascente della fisica tedesca, premiato con il Nobel a soli trentuno anni nel 1932. Nonostante non fosse ebreo, fu oggetto nel 1936 di una campagna denigratoria da parte di Lenard, Stark e dei loro accoliti, che lo accusarono sui giornali del partito e delle SS di essere il «fantoccio dello spirito einsteiniano» e un «ebreo bianco». Per risolvere la situazione, Heisenberg mise in campo le proprie influenti relazioni. Sua madre conosceva bene la madre di Himmler, e si recò da lei pregandola di intervenire presso il figlio affinché mettesse a tacere le calunnie. La mossa funzionò: dopo aver chiesto a Heisenberg una risposta scritta alle accuse rivoltegli, Himmler proibì ogni ulteriore attacco nei suoi confronti. Incassata la riabilitazione ufficiale dal capo delle SS, Heisenberg diventò negli anni successivi il più influente scienziato del Reich. Fu sua la responsabilità del progetto dell’uranio, che avrebbe dovuto portare alla realizzazione di un reattore e di un’arma nucleare. L’obiettivo non fu raggiunto, e quando, alla fine della guerra, i fisici tedeschi, rinchiusi nella residenza di Farm Hall in Inghilterra, seppero di essere stati superati dagli americani, che avevano costruito e fatto esplodere la bomba, rimasero increduli, incapaci di riconoscere la propria inferiorità. Nacque allora il mito dell’auto-sabotaggio: gli scienziati avrebbero volontariamente rallentato il proprio lavoro per non mettere nelle mani di Hitler il terribile ordigno. In realtà, come si evince dalle conversazioni a Farm Hall, Heisenberg e colleghi non erano neanche riusciti a calcolare correttamente la massa critica necessaria per fare avvenire la reazione a catena.
Meno conosciuta, e più enigmatica, è la storia di Peter Debye, la cui accurata ricostruzione rappresenta la parte più originale del lavoro di Ball. Olandese di nascita, Debye fu per alcuni anni direttore del prestigioso Istituto Kaiser Wilhelm di Fisica di Berlino (finanziato anche dalla Fondazione Rockefeller), ma nel 1939 abbandonò la Germania e si trasferì negli Stati Uniti, fornendo alle autorità americane informazioni sulle ricerche nucleari tedesche. Questa parabola ha fatto credere a lungo che egli fosse una vittima del regime nazista. Qualche anno fa, tuttavia, sono emersi documenti che attesterebbero la collusione di Debye col nazismo (in particolare, una lettera del 1938 con cui Debye invitava gli ebrei rimasti nella Società tedesca di Fisica a rassegnare le dimissioni). Ne è scoppiato un caso internazionale, e molte istituzioni intitolate a Debye hanno rimosso il suo nome. Ball in realtà ridimensiona la vicenda, mostrando come Debye non fosse un fiancheggiatore del regime, ma un uomo di scienza potente e spregiudicato, “apolitico” nel bene e nel male, interessato solo al successo dei propri progetti scientifici.
Il comportamento della maggior parte degli scienziati che lavorarono nella Germania hitleriana non è interpretabile, a giudizio di Ball, in termini della dicotomia “eroi-malfattori”. Uomini come Planck, Heisenberg e Debye non furono né pro né contro il nazismo: credettero colpevolmente di poter servire la Germania senza al tempo stesso servire Hitler, e di poter separare, in un regime totalitario e criminale, la scienza dalla politica, dimenticando che fare politica – come scrisse una volta Einstein a Max von Laue, l’unico vero antinazista tra i fisici tedeschi rimasti in patria – significa occuparsi delle «faccende umane nel senso più ampio». La loro colpa principale fu l’indifferenza etica: l’incapacità o addirittura il rifiuto – che continuò anche negli anni del dopoguerra – di affrontare la dimensione morale delle proprie azioni. La lezione generale che se ne può trarre – è la conclusione di Ball - è che la “neutralità” della scienza non deve diventare un alibi per il disimpegno: la comunità scientifica «può e deve organizzarsi per massimizzare la sua capacità di agire collettivamente, eticamente e – quando è necessario – politicamente».

Archivi che fanno il futuro


Il volume di Campbell e Pryce (architetto e fotografo)
 spiega funzioni e possibili trasformazioni delle più belle biblioteche

Matteo Motolese

"Il Sole 24 ore - Domenica", 12 aprile 2015

Per scrivere questo articolo sono andato, come molte mattine della mia vita, alla Biblioteca Nazionale di Roma. La prima cosa che vedo, appena arrivo per lasciare la borsa, è un avvertimento stampato su un foglio di carta incollato con lo scotch sul bancone del guardaroba. Lo conosco già senza leggerlo, perché è affisso lì da mesi e viene ripetuto ossessivamente in ogni posto visibile della biblioteca. Avverte che, secondo quanto stabilito dalla legge, la biblioteca non si configura come biblioteca di pubblica lettura e dunque è vietato portare libri propri e fotocopie all'interno. Non è questo però il vero motivo dell'avviso. La novità è che «fino a nuova disposizione, la norma contemplata nel regolamento verrà rigorosamente applicata». Ci si chiede se un avviso del genere, per come è formulato, sarebbe pensabile nella biblioteca nazionale di un altro paese. Ma soprattutto ci si chiede il motivo di tanta ostruzione al lettore, il motivo per il quale non lo si vuole dentro. Perché viene qui a leggere anche libri propri? E allora? È così grave?
Non si tratta di una scelta individuale, ovviamente, ma di un modello. Se si vuole ragionare sul futuro delle biblioteche fisiche nel mondo delle biblioteche digitali è da qui che bisogna partire. Dai modelli. Dalle idee di biblioteca che, nel nostro paese, si sono avute negli ultimi decenni. Luoghi di conservazione prima di tutto, di mantenimento della memoria. Che è una cosa sacrosanta, intendiamoci, ma che mi pare abbia progressivamente fatto marginalizzare un'idea forse altrettanto importante, soprattutto nel cambiamento che stiamo vivendo: l’idea di condivisione, di promozione, di rilancio, di potenziamento. Che è stata delegata principalmente alle biblioteche minori mentre dovrebbe essere affidata alle massime istituzioni del paese preposte alla gestione della cultura scritta. Anche per questo ogni restrizione dei fondi, ogni accorpamento e chiusura – nonostante le continue lamentele degli addetti ai lavori – cade sostanzialmente nel vuoto. Non c’è, nella pubblica opinione, l’idea che la biblioteca sia un moltiplicatore di cultura. E invece un paese che investe su sé stesso, che punta ad aumentare la condivisione di cultura scritta, dovrebbe usare le biblioteche come dei simboli: riconoscibili, visibili, pronti ad accogliere.
Sono queste le riflessioni che suscita la lettura del libro, bellissimo, La Biblioteca. Una storia mondiale di James V. P. Campbell e Will Pryce (Einaudi). Il primo è uno storico dell’architettura; il secondo uno dei più apprezzati fotografi internazionali. Insieme hanno viaggiato nel mondo per descrivere ottantadue biblioteche in ventuno paesi.
Solo dieci anni fa l’idea di un libro del genere sarebbe stata puramente accademica; oggi assume il fascino di un reportage su una pratica a rischio estinzione, che occupa gli umani da millenni: conservare, tramandare e condividere la loro produzione scritta. Potrei dedicare il resto dell’articolo a riassumere il contenuto del libro. Dare conto dei modi nei quali – nel corso dei secoli – si sono trovate soluzioni per combattere nemici dei libri come muffe, animali, ladri: creando correnti d’aria, allevando piccoli predatori d’insetti, incatenando i volumi. Oppure come la trasformazione di banchi e scaffali racconti l’evoluzione delle modalità di lettura. O ancora come – ma sarebbe masochismo – le ultime biblioteche italiane degne di essere fotografate nel pantheon tracciato dal libro siano sei-settecentesche (due gemme romane: Casanatense e Angelica). Mi pare più interessante però spostare l’attenzione sulle biblioteche costruite quando era già chiara la mutazione in atto. Perché infatti uno stato dovrebbe investire enormi somme per costruire edifici che, tra un paio di generazioni, potrebbero perdere di senso?
Sono descritte nell’ultimo capitolo e sono state costruite dal 2001 a oggi in Europa (Paesi Bassi, Germania, Regno Unito), Asia (Giappone, Cina), America del Sud (Messico). Per quanto diverse, sono accomunate dall'idea di un'osmosi profonda tra l’atto singolo della lettura e il ruolo sociale della condivisione. Luoghi ben riconoscibili in cui i linguaggi si mischiano, come la nuova biblioteca multimediale a Cottbus, ex Germania dell’Est, che di notte si illumina come una lanterna. Con spazi pensati non solo per la lettura ma anche per lo scambio di idee. Edifici in cui la conservazione – sempre più complessa: oggi si pubblica più carta di ieri – è unita alla facilità di accesso e alla bellezza degli ambienti. È chiaro infatti che la biblioteca, in futuro, non potrà più essere solo il luogo in cui andare a leggere qualcosa che non si potrebbe trovare altrove. Anche oggetti unici, come i manoscritti, sono spesso ormai consultabili in digitale da casa (in Italia ci sono ottimi esempi in tal senso). Ma dovranno essere sempre di più luoghi di scambio, di lavoro, di accesso ai molti canali attraverso i quali viene veicolata la cultura di gruppi più o meno ampi di persone. Sarebbe bello che questo passasse attraverso forti interventi nel sistema delle nostre biblioteche, a partire da quelle nazionali, per trasformarle sempre più in piazze che attraggano chi è fuori: luoghi in cui valorizzare in modo visibile quell’atto comune e fondamentale in ogni società che non è solo il leggere ma il pensare.

giovedì 2 aprile 2015

La gaia scienza



A dispetto dei luoghi comuni gli italiani, e soprattutto i giovani,
 si interessano ai contenuti scientifici e tecnologici
Una tendenza confermata dall’aumento degli ascolti dei programmi dedicati in prima serata, dal successo dei libri di divulgazione e di film e serie televisive.
 E dai dati di un ultimo studio

Massimiano Bucchi

"La Repubblica", 23 marzo 2015

UN DIFFUSO stereotipo descrive gli italiani come disinformati, scarsamente interessati e perfino pregiudizialmente ostili alla scienza. È davvero così?
A giudicare dai dati più recenti dell’Osservatorio Scienza Tecnologia e Società (da oltre dieci anni il più ampio e continuativo studio in questo ambito), si direbbe proprio di no. E se forse è eccessivo vedere nel 2014 un anno di svolta nell’interesse degli italiani per la scienza, non c’è dubbio che molti luoghi comuni debbano essere rivisti, soprattutto per quanto riguarda il pubblico giovanile.
Innanzitutto l’idea che gli italiani siano “analfabeti” sul piano scientifico e scarsamente interessati ai contenuti scientifici. Ciò che i dati rilevano è un livello di competenze in linea con le tendenze europee e in lieve crescita negli ultimi anni; una propensione rilevante e crescente ad informarsi di scienza e tecnologia. Negli ultimi cinque anni gli spettatori assidui di programmi televisivi dedicati a scienza e tecnologia sono aumentati di 20 punti; è cresciuta notevolmente anche la fruizione di contenuti scientifico- tecnologici su internet, soprattutto tra i più giovani (arrivando a coinvolgere, almeno occasionalmente, addirittura il 93% tra i 15-29enni). Tendenze confermate in questi anni dagli ascolti dei programmi dedicati alla scienza in prima serata, dalla notevole affluenza ai festival della scienza, dal grande successo di libri di divulgazione e di film e serie televisive che sempre più spesso hanno come protagonisti figure del mondo scientifico. Fiction che tra l’altro i ragazzi spesso citano anche come elemento di stimolo o motivazione per le proprie scelte formative.
Permangono, indubbiamente, alcune lacune e significative differenze tra le diverse fasce di popolazione, soprattutto in termini di età e livelli di istruzione. Solo il 5% dei giovani tra i 15 e 29 anni e il 2% dei laureati si colloca al livello più basso di alfabetismo scientifico. Tra gli studenti quindicenni quasi sei su dieci ritengono che le ore dedicate alle materie scientifiche abbiano accresciuto la propria curiosità e interesse e considerano queste materie di grande utilità anche per la propria vita quotidiana. La possibilità di “toccare con mano” la scienza attraverso esperimenti di laboratorio a scuola fa addirittura quadruplicare la propensione di ragazze e ragazzi verso studi scientifici universitari (tra chi non ha avuto questo tipo di opportunità, la propensione agli studi scientifici scende sotto il 7%).
I dati dell’Osservatorio registrano anche rilevante fiducia e significative aspettative da parte degli italiani nei confronti degli scienziati (sempre più spesso indicati come l’interlocutore più credibile quando emergono questioni legate a scienza e tecnologia, come nel caso del clima o di emergenze sanitarie, con un aumento di 11 punti percentuali negli ultimi anni) e dei risultati della ricerca. Aspettative, che come tra le nuove generazioni, anche tra gli adulti si concentrano però soprattutto sugli aspetti più pratici e concreti: dalla scienza ci si attendono in particolare nuove applicazioni tecnologiche ed opportunità terapeutiche o possibilità di migliorare il proprio “benessere” in senso lato.
È in questa chiave che possono essere lette anche le tendenze rilevate sulle questioni biomediche più attuali. Le trasformazioni degli orientamenti degli italiani su temi quali la fecondazione assistita o la ricerca su cellule staminali non sembrano il risultato di un’effettiva interiorizzazione culturale di contenuti e metodi scientifici. Tali orientamenti appaiono piuttosto definibili come aperture in senso sostanzialmente pragmatico — o, per certi versi, perfino opportunistico — verso quelle che sono percepite come opportunità offerte da scienza e tecnologia in ambito biomedico. Drammatiche vicende recenti ci hanno fatto toccare con mano, tra l’altro, quali pressioni e urgenza di soluzioni nel breve periodo possano associarsi a simili aspettative. Questi atteggiamenti vanno inoltre inquadrati — come confermano anche gli orientamenti su questioni come il “fine vita” o il testamento biologico — nell’ambito di una più profonda trasformazione delle concezioni di salute e di cura, in cui il controllo e la plasmazione del proprio corpo e del proprio benessere sono ricondotti in misura crescente entro il raggio delle scelte individuali.
Nel complesso, i dati ci dicono che il vero problema non è l’assenza di una cultura scientifica.
Il nodo critico resta la fragilità di una cultura della scienza e della tecnologia nella società : di una cultura che sappia discutere e valutare i diversi sviluppi e le diverse implicazioni, potenzialità e limiti della scienza e della tecnologia evitando le opposte scorciatoie della chiusura pregiudiziale e dell’aspettativa miracolistica. È in questa direzione che forse varrebbe la pena indirizzare discussioni e iniziative, anziché fermarsi alla consueta litania (mai “scientificamente” documentata) degli “italiani antiscientifici”.

Dalle staminali alle scoperte, la ricerca conquista i ragazzi

Elena Cattaneo

«COME si diventa scienziato?» La risposta potrebbe sembrare disarmante: non si smette mai di diventarlo. Continue, le domande su come scegliere per il futuro, tanti i cuori colmi di speranza: «Io vorrei studiare per capire l’Alzheimer, mia mamma ce l’ha da tempo ma mi interessa ancora di più aiutare gli altri». Tanta la fantasia: «Magari posso con un microrobot entrare nelle cellule e aggiustare quel gene impazzito».
Queste sono solo alcune delle voci dei ragazzi dell’Unistem Day 2015 del 13 marzo scorso, 20.000 studenti delle scuole superiori che sono stati accolti dai 46 atenei italiani e stranieri partecipanti, per parlare e ascoltare di scienza e rendersi conto che non è vero che farlo è difficile o noioso. Questi giovani hanno discusso di staminali insieme agli scienziati e del perché sembrano, a chi le studia, ogni giorno così affascinanti, e di come può funzionare la medicina rigenerativa, di quello che è stato fatto davvero e di cosa si sta facendo oggi. Ma le staminali sono solo un pretesto (non di minore conto) per raccontare il mestiere dello scienziato, la passione per l’esplorazione e la scoperta. Quando si parla di scienza si parla di un metodo, di un approccio analitico ai problemi, che dovrebbe costituire il naturale fondamento di ogni successivo apprendimento, una preliminare formazione all’uso della ragione. La risposta che arriva dai volti dei ragazzi, dal loro coinvolgimento, da quel silenzio attento e educato, è ogni volta un grande incoraggiamento. All’inizio, durante il collegamento tra più sedi, i colleghi svedesi dell’Università di Lund hanno salutato gli studenti raccolti all’Università di Cagliari con alcune frasi in dialetto sardo. Come dire: nessun mare o montagna ci divide. Solo idee, metodi, risultati e la fitta rete di meccanismi per ancorare i propri argomenti ai fatti.
Il tema di quest’anno era “Scienza e diritto”: in tutta Italia si è discusso delle ragioni per cui giudici e scienziati possono arrivare a conclusioni diverse, come nel caso delle prescrizioni degli pseudo-trattamenti Stamina. Ovunque, in Italia, il monito della giornata era lo stesso: l’inconciliabilità tra scienza e pseudoscienza, l’esortazione a stare sempre dalla parte delle prove e dei fatti, non delle convenienze. Sempre, e soprattutto in materia di salute.
Il fatto che la giornata non tratti solo di staminali è molto apprezzato dagli studenti. Gioele, che ha partecipato alle conferenze organizzate alla Sapienza di Roma, era felice che l’argomento principale fossero la scienza e il progresso umano, cioè «come le cose sono migliorate, per esempio nel modo in cui si pratica la medicina». Gli fa eco un altro diciassettenne presente all’evento dell’Università di Firenze: «Abbiamo capito che ci vuole tanta fantasia e creatività per fare ricerca, ma anche la capacità di produrre ipotesi verificabili». E, sempre a Firenze, i diplomandi si dicevano «colpiti dalla chiarezza e onestà con cui i ricercatori hanno presentato fatti e dati difficili». Gli alunni del Liceo Scientifico Lavinia Mondin di Verona hanno riempito i loro insegnanti (e noi) di commenti. Alcuni riflettevano sul fatto che «la ricerca è frutto di dedizione, passione, curiosità, e che per conoscere si deve avere il coraggio di osare». Valeria si è sentita «immersa nel mondo vero della ricerca». Molto più capaci degli adulti di smascherare il fal- si stupiscono, come nel caso di Lorenzo, di «quante persone nell’era dell’informazione, scelgono l’ignoranza».
L’edizione di quest’anno si è rivelata anche un’occasione per supplire a una delle mancanze della riforma della scuola in discussione, tutta concentrata sull’assunzione dei precari e i poteri dei presidi, mentre nessuno si è preoccupato di spiegare in che modo il piano del governo fornirà agli studenti gli strumenti conoscitivi necessari per essere competitivi e innovare in una società ed economia fondata sulla conoscenza. In più sedi d’Italia, gli insegnanti che hanno accompagnato gli studenti agli incontri hanno evidenziato la «disattenzione della politica per quanto riguarda la formazione dei giovani sul fronte delle conoscenze scientifiche». Hanno mille ragioni.
L’evento in Statale a Milano si è chiuso con l’intervento di un medico, Salvo di Grazia, il primo ad avere fatto della sfida ai «narratori di bufale» un motivo d’impegno costante. Racconta ai giovani le “bufale” che abbindolano gli adulti. Anche di come a quel «congresso scientifico in Cina», tutt’altro che serio, che qualche mese fa avrebbe rilanciato il cosiddetto «metodo di Bella» (notizia ripresa da alcuni media), egli sia riuscito a piazzare come comunicazione scientifica una ricetta americana per la pasta alla carbonara con tanto di titolo (in inglese), “Il metodo sbudella a base di carbonara cura il buco allo stomaco” e autori, dott. Massimo della Serietà ecc., guadagnandosi persino l’invito a fare da moderatore per la sua “scoperta”.
Il messaggio più forte veniva dalle risate dei ragazzi, increduli davanti a bufale così incredibili, a come si possano montare (false) correlazioni tra autismo e vaccini, con tanto di studi legali o tribunali impegnati per provare ciò che la sperimentazione medica non ha mai trovato, o a come, applicando lo stesso (non) metodo, sia possibile mettere in grafico e stabilire una correlazione tra i nati in un certo paese e la migrazione delle cicogne per affermare che — nuova scoperta! — “i bambini li portano le cicogne”.
Quei giovani ridevano, ma hanno mostrato un’attenzione più che rincuorante, soprattutto promettente. Ora quei ragazzi sono sparsi per l’Italia. Il nostro auspicio è che la giornata UniStem sia servita a vaccinarli ancora di più. Contro ciò che non è vero e dimostrato e che, ogni giorno, minaccia la loro vita e il loro Paese.
( Elena Cattaneo, senatrice a vita, insegna all’Università degli Studi di Milano. La giornata con gli studenti è coordinata da Uni-Stem, Centro di ricerca sulle cellule staminali)

QUANTO E DOVE CI SI INFORMA SU SCIENZA E TECNOLOGIA