1915, punto di non ritorno
Gennaro Sangiuliano
"Il Sole 24 ore - Domenica", 24 maggio 2015
«L’Italia si è portata magnificamente, ha superato tutte le aspettative», scrive da Roma Giuseppe Prezzolini in una lettera alla moglie Dolores. Il 16 maggio del 1915, Vittorio Emanuele riconferma in carica il Gabinetto Salandra, l'Italia, dopo un anno di neutralità, procede a tappe forzate verso l'ingresso nella Grande guerra. Sono quelle che verranno definite, non senza una punta di retorica, le “radiose giornate di maggio”. Sono le settimane che segnano la vittoria di quella che appena un anno prima, al deflagrare del conflitto europeo, appariva solo una minoranza estetizzante, quella interventista, che invece in meno di un anno trascina l’establishment del Paese sulle sue posizioni. «Stamani siamo entrati in Montecitorio, abbiamo rotto tutti i vetri e soltanto una gran bontà e un resto di debolezza ci ha impedito di bruciare l'aula… Si passa di dimostrazione in dimostrazione, di riunione in riunione. Ieri c’era tutta l’atmosfera della rivoluzione… Ho sentito parlare da vicino Albertini del Corriere e d’Annunzio… È piccolo, grazioso, un po’ buffo in fondo», scrive sempre Prezzolini.
Gli eventi si susseguono a ritmo serrato. Non manca la violenza. Per strada vengono aggrediti Facta e Bertolini, due politici di provata fede giolittiana. Gli interventisti gridano: «Fate la pelle a Giolitti».
Lo statista di Dronero diventa il bersaglio preferito del partito interventista, uno schieramento composito, originariamente fatto soprattutto di giornalisti e intellettuali a cui si sono unite le più disparate forze. Giovanni Giolitti è il monolite che divide, lo spartiacque, il muro che separa due Italie. Ecco perché appare appropriata la scelta di Luigi Compagna di affrontare l’analisi storica delle vicende di quell’anno con riferimento al politico piemontese; Italia 1915, in guerra contro Giolitti, il titolo del suo saggio, che non lascia dubbi su quella che valuta come questione centrale. «Nel 1915 l’Italia entrò in guerra per ragioni soprattutto, se non esclusivamente di politica interna», scrive Luigi Compagna, «contro Giolitti, ma col consenso del sovrano, si scelse di zittire il Parlamento». In altre parole, la guerra fu il pretesto per fare i conti con quella che era stata, nel bene e nel male, l’Italia giolittiana, per cui non appare esagerata l’intuizione di Benedetto Croce che definisce quel 1915 come un «punto di non ritorno» del sistema politico postunitario. Un anno che possiamo indicare come «un termine ad quem dei più significativi», l’antigiolittismo diventa comune denominatore di «improvvise e improvvisate legioni “democratiche” di destra e di sinistra». Non a caso, Prezzolini pubblica un numero speciale de “La Voce” con un grande titolo «Abbasso Giolitti!» e un editoriale intitolato “La rivoluzione antigiolittiana”. Anche il moderato «Corriere della Sera» è in campo a favore della guerra e contro l’uomo di Dronero, indicato addirittura come capo di un complotto.
La decisione di aderire alla guerra non matura in Parlamento, dove sarebbe stato costituzionalmente corretto, ma nelle piazze agitate dagli interventisti. Luigi Compagna cita Giovanni Spadolini che chiarisce come «le decisioni sul se, il quando e a fianco di chi entrare in guerra sfuggirono in buona parte ai consolidati e tradizionali canali politici e diplomatici» e conclude che la guerra fu «strumentalmente usata per attuare un’alternativa concreta al sistema impersonato da Giovanni Giolitti».
Tuttavia, se queste furono le premesse e se è vero che l’avversione a Giolitti giocò un ruolo simboleggiando lo scontro tra nuove pulsioni e l’ançien regime, sarebbe un errore non cogliere quello che si rivelerà essere il valore della partecipazione italiana al Primo conflitto mondiale. L’esame di massa di una nazione, la «prima esperienza collettiva degli italiani», secondo la chiara affermazione di Piero Melograni. Imposta da una minoranza culturale la guerra inciderà profondamente nella carne dell’Italia, «sul terreno dei comportamenti collettivi», scrive Francesco Perfetti, «gettò le premesse per un sempre più massiccio e coinvolgente ingresso delle masse nella vita politica del Paese».
Dunque, per l’Italia, pagando il prezzo di immani sacrifici, la Grande guerra è l’inizio della modernità che muta, rafforza, cementa l’italianità. E questo è un fatto su cui la storiografia tenta di riflettere. La Grande guerra e l’identità nazionale è il volume, a cura di Francesco Perfetti, che tenta di mettere a fuoco le enormi conseguenze psicologiche, culturali, economiche e sociali che il conflitto produsse. Fu così in tutta Europa perché questo conflitto ebbe una natura inedita, rispetto ai conflitti conosciuti nei secoli precedenti, fu la guerra totale, una fornace di vite umane e risorse, ma anche di sviluppo dell’industria e della tecnologia. Accanto alla conclusione del processo risorgimentale ci sarà «qualcosa di più profondo e duraturo», perché nello sforzo bellico «si rafforzò l’identità nazionale» e soprattutto sviluppò quel senso comune di appartenenza alla nazione che in Italia stentava ad assumere tratti comuni a quelli delle altre grandi entità europee.
L’Italia era ancora fondata su una società agraria, dove la partecipazione pubblica, nonostante Giolitti avesse aperto al suffragio universale nel 1912, restava nelle mani di un ristretto notabilariato trasversale a tutti i partiti. Il conflitto avrebbe liberato nuove forze.
Il 20 maggio si tiene alla Camera dei Deputati una seduta storica nel corso della quale Salandra chiede e ottiene i pieni poteri dal Parlamento. Il 24 maggio l’Italia entra in guerra accanto alle potenze dell’Intesa contro gli Imperi centrali. Sta per iniziare un fatto di cruciale importanza storica che porterà con sé conseguenze nell’animo del Paese che nessuno in quei giorni era in grado di soppesare. Giolitti che aveva tentato un’ultima sortita, convocando i deputati a lui fedeli, era stato sconfitto ma non del tutto perché tornerà in campo nel 1919. Il suo mondo, invece, è irrevocabilmente finito. Molti anni dopo, superando le intemperanze giovanili, Prezzolini rivedrà radicalmente la sua posizione sullo statista piemontese definendolo la «prosa della politica», Compagna ricorda che nel secondo dopoguerra toccherà a Valiani e addirittura a Togliatti rendere omaggio a questo «conservatore illuminato».
Si è molto discusso sulla circostanza che, restando neutrale, l’Italia poteva ottenere lo stesso le province irredente ma la storia non ammette queste divagazioni. Però, alla fine del conflitto, Antonio Salandra, presidente del Consiglio dal 1914 al 1916, scriverà: «Senza i giornali l’intervento dell’Italia forse non sarebbe stato possibile».
Luigi Compagna, Italia 1915 in guerra contro Giolitti, Rubbettino, Soveria Mannelli, pagg. 194
La Grande guerra e l’identità nazionale, a cura di Francesco Perfetti, Le Lettere, Firenze, pagg. 252
Grande guerra & industria
Non fu solo Caporetto
Nella memoria resta quella sconfitta,
ma gli armamenti dispiegati dal nostro esercito consentirono di ribaltare le sorti
Valerio Castronovo
Nella memoria comune sulla condotta dell’Italia nella Grande Guerra ha finito col restare impresso soprattutto il marchio avvilente della disastrosa disfatta di Caporetto. Al punto da relegare in secondo piano l’impresa che, nel giro di pochi mesi da quel drammatico autunno del 1917, portò il nostro esercito a ribaltare le sorti di un conflitto che sembrava irrimediabilmente perso e a concluderlo con una brillante vittoria.
Vale perciò la pena di mettere in debita luce quale decisiva importanza ebbe a tal fine il fatto che il sistema industrial-militare prese, proprio allora, a marciare a pieno regime. Tanto da produrre una mole di armamenti nettamente superiore ai mezzi in dotazione alle truppe austriache rafforzate da vari contingenti tedeschi.
Venne così a compimento una lunga e complessa opera di potenziamento della macchina bellica che s’era dovuta allestire nel maggio 1915, dopo nove mesi di neutralità, in tutta fretta e senza sufficienti scorte di materie prime e combustibili. Perciò si era fatto affidamento inizialmente più sul numero di uomini mandati al fronte che sulle bocche da fuoco.
Soltanto a metà del 1916, alla vigilia della dichiarazione di guerra anche alla Germania, si erano registrati i primi risultati dell’opera intrapresa dal Comitato per la mobilitazione industriale, istituito nell’agosto dell’anno prima. Questo organismo, a cui facevano capo undici Comitati regionali, costituì l’architrave della nostra economia di guerra, sotto la regia del generale Alfredo Dallolio, titolare del sottosegretariato per le Armi e munizioni (trasformato nel 1917 in un ministero). Dalle sue direttive vennero infatti a dipendere oltre cinquemila funzionari e quasi duemila stabilimenti dichiarati “ausiliari”, concentrati per il 60 per cento nel “triangolo industriale” fra Milano, Torino e Genova.
La presenza sempre più estesa dello Stato nelle diverse cerniere dell’apparato produttivo e dei servizi era un fenomeno comune a tutti i paesi belligeranti. E analoghi erano i procedimenti varati per finanziare le spese di guerra col ricorso sia all’espansione della base monetaria che all’indebitamento. Ma ciò avvenne, da noi, in misura assai più pronunciata: tant’è che solo un quinto o poco più delle spese connesse direttamente o indirettamente alla guerra venne coperto da entrate di bilancio, nonostante vari prestiti nazionali e ripetute emissioni di titoli del debito pubblico.
È vero che non mancarono sprechi, speculazioni o malversazioni nelle relazioni fra autorità pubbliche e alcune grosse imprese. Ma col tempo migliorarono i controlli in materia di ordinazioni di collaudi. Così che Dallolio riuscì nel compito di esaudire le pressanti richieste degli Alti Comandi.
Vennero infatti messi in cantiere nuovi grossi calibri di artiglieria e intensificata la fabbricazione di mitragliatrici e altre armi, grazie al perfezionamento degli impianti e alla standardizzazione dei prodotti e dei materiali. Inoltre, col concorso di un Comitato scientifico-tecnico (istituito nel 1916 fra docenti universitari ed esperti in ingegneria), si progettarono un numero sempre più consistente di motori aerei e di velivoli da combattimento e da ricognizione. Nel contempo venne migliorando la logistica nella rete ferroviaria e in quella stradale, essenziali per il trasporto di rinforzi al fronte. Perciò, durante l’inverno del 1917 fu possibile far affluire più facilmente, con l’impiego soprattutto di un vasto parco di autocarri pesanti, i rifornimenti necessari per arginare, dopo la rotta di Caporetto, l’avanzata dei nemici.
Peraltro, in quei mesi la nostra industria si trovò alle prese con una crisi idroelettrica che impose un rallentamento dell’attività produttiva, ma che fu poi superata rapidamente grazie a massicci investimenti resi possibili da anticipazioni straordinarie dello Stato, all’impiego nelle fabbriche di altre maestranze (fra cui numerose donne) e all’adozione di turni massacranti di lavoro. Dalla primavera del 1918, l’esercito poté così disporre di un efficace apparato bellico e l’aviazione di varie migliaia di velivoli, mentre le veloci incursioni condotte da piccole unità navali giunsero a colpire alcune grosse corazzate austriache alla fonda nelle loro basi.
Perciò non era più soltanto un esercito di fanti-contadini quello che (passato da novembre agli ordini di Diaz) fu chiamato a reggere, nella “battaglia del solstizio” (tra il 15 e il 24 giugno 1918), la massiccia offensiva delle divisioni asburgiche, che, raddoppiati nel frattempo i propri effettivi in seguito alla defezione della Russia, miravano a impadronirsi dei raccolti delle fertili pianure venete, per poi accorrere in parte, una volta sfondato il fronte italiano, su quello occidentale in aiuto alle truppe tedesche.
Fornito di ulteriori mezzi bellici, ritemprato nel morale e ricostituito nei suoi ranghi anche grazie ai giovani dell’ultima leva (“i ragazzi del ’99”), il nostro esercito riuscì a respingere l’assalto concentrico delle armate austriache. E il suo contrattacco, negli ultimi giorni di ottobre, travolse le linee nemiche costringendo Vienna a chiedere l’armistizio una settimana prima della resa della Germania dopo la sconfitta subìta ad Amiens.
Senonché la previsione di alcune grandi imprese (e, in particolare, di quella più eminente e polisettoriale come l’Ansaldo) che la guerra si sarebbe prolungata sino alla primavera del 1919 determinò successivamente una grave crisi di sovraproduzione che avrebbe reso più ardua la riconversione post-bellica con pesanti conseguenze non solo di ordine economico.