lunedì 13 luglio 2015

Ottica, numeri e precisione: l’emozione nasce dalla tecnica

Musée du conservatoire national des arts et métiers: il laboratorio di Lavoisier

Ecco come nel corso della storia 
gli artisti sono stati considerati non più artigiani ma detentori del sapere

Jean Clair, "La Repubblica", 11 luglio 2015

Pubblichiamo l’intervento che Jean Clair terrà alla Milanesiana, il festival ideato e diretto da Elisabetta Sgarbi. L’incontro si inserisce nel ciclo “Ossessioni /arte e scienza” in collaborazione con Intesa Sanpaolo. 

La mia prima emozione che potessi qualificare come artistica la provai in un museo scientifico: al Conservatoire des Arts et Métiers di Parigi, davanti ai piccoli strumenti di vetro e di rame che Lavoisier utilizzava nel suo laboratorio. Si trattava di arte? Il nome del Museo lo assicurava: Conservatorio delle Arti e dei Mestieri. Ora non si chiama più così, ma è intitolato “Museo delle tecniche”. Solo più tardi ho ritrovato lo stesso piacere in un museo detto “delle Belle Arti”, mi pare fosse davanti alla Vergine del Cancelliere Rolin, al Louvre, la cui precisione ottica mi incantava.
E solo più tardi ancora compresi che gli oggetti della scienza erano a volte delle opere d’arte, e che le opere d’arte erano spesso oggetti scientifici. L’estetica a volte poteva essere un’euristica.
La più bella dimostrazione di questa equazione l’ha fatta Claude Lévi-Strauss, a proposito di un ritratto di dama di Cluet di cui ammirava la “collerette”.
L’emozione profonda, ci dice, che suscita la riproduzione del collo di merletto, filo per filo, con un effetto di trompe- l’oeil scrupoloso, è la stessa che produce il modellino a scala ridotta, il capolavoro dell’artigiano, che è il prototipo dell’opera d’arte.
Entrambi, per effetto della riduzione, procedono per una sorta di inversione del processo della conoscenza: per conoscere un oggetto, abbiamo tendenza a operare a partire delle sue componenti. La riduzione della scala capovolge la situazione; più piccola, la totalità dell’oggetto appare meno temibile. La virtù intrinseca del modello è di compensare la rinuncia alle dimensioni sensibili attraverso l’acquisizione di dimensioni intellegibili.
La scienza che lavora a scala reale, che rimpiazza un essere con un altro, l’effetto con la causa, è dell’ordine della metonimia, mentre l’arte che lavora a scala ridotta producendo un’immagine omologa all’oggetto rientra nel campo della metafora.
Ars, in latino, ci parla di abilità: è un talento particolare acquisito attraverso lo studio e la pratica (diciamo: “possedere l’arte di...”); una conoscenza legata a un mestiere, un’esperienza del corpo che permette la precisione e l’economia dei gesti, un’attitudine appresa che si schiude all’eleganza, allo charme, alla grazia (diciamo: “fare con arte”). Ars è nel contempo la “maniera” dell’artista e il marchio dell’artigiano. Nel linguaggio popolare, l’”homme de l’art”, l’uomo dell’arte, è l’uomo del mestiere. Questa qualità può limitarsi a una parte del corpo, una particolare abilità manuale, un gesto, un’attitudine, per esempio il portamento del ballerino, o la voce posata del cantante o dell’oratore - l’actio nella retorica... Si parlerà anche della “mano intelligente” dell’architetto, quella sua arte particolare che unisce competenze manuali e intelligenza concettuale.
Da questo punto di vista, l’arte, ars, si oppone alla natura, come l’artificio si oppone al naturale. Ma si oppone anche all’ingenium, che non è il genio, bensì l’inclinazione spontanea, la disposizione propria della sensibilità. L’ars è acquisita, l’ingenium è innato. L’ ingenium è la capacità naturale dello spirito a produrre, una potenza generativa che è allo stesso tempo predisposizione nativa e invenzione. Vicino a quella che Lévi-Strauss descriveva con il termine di “bricolage”, l’ingenium è quell’attitudine dello spirito umano a riunire dati eterogenei per produrre qualcosa di nuovo. Oltrepassa i limiti della semplice ragione, è appunto quell’eccesso che somiglia a un dono, al’invenzione ingenua, al tratto di genio.
Ars si oppone infine alla scientia, che è un sapere essenzialmente linguistico e verbale, un’informazione, una conoscenza, o l’insieme delle conoscenze acquisite su un soggetto. Cicerone oppone i due termini di ars e scientia quando parla di “ artem scientia tenere ”, possedere un’arte in teoria.
Scientia, la conoscenza astratta e generale, non è il sapere concreto e singolare che si incarna in un gesto, in un “tour de main”, quel linguaggio del corpo che Aristotele chiamava giustamente tekhné: «I Greci, ricorda Ernst Gombrich, avevano un solo termine e un solo concetto per l’arte e per l’abilità: tekhné » - la storia dell’arte, per definizione, era la storia delle tecniche.
Se consideriamo le lingue germaniche, ritroviamo più o meno le stesse opposizioni.
Kunst, l’arte, deriva dall’alto tedesco können, che ci parla di una disposizione intermedia tra la conoscenza e la competenza, tra il sapere e l’abilità. In ogni caso nulla di comparabile alla pretenzione che oggi dissimuliamo sotto il termine di “arte”.
Können ha la stessa origine del gotico kann , dell’antico inglese can, nel senso di un potere radicato in un sapere.
Notiamo en passant che können non va confuso, nonostante l’omofonia, con kennen, che significa conoscere, essere al corrente, come to know in inglese: è questo il campo della conoscenza, del knowledge, della scientia.
Già all’origine quindi troviamo nel termine “arte” un’ambivalenza, un’oscillazione tra un savoir faire che rileva di un apprendimento e di una conoscenza, dell’ordine del codificabile e del trasmissibile, e d’altra parte una qualità eccezionale, una tendenza particolare di un individuo, uno slancio dell’essere, una disposizione singolare dei suoi organi, delle sue cellule, che gli permetterebbe di esercitare un potere di cui gli altri non dispongono, nonostante abbiano le stesse conoscenze. Ma i due aspetti sono legati: non ci può essere pouvoir-faire senza savoir-faire, né savoir- faire senza vouloir-faire.
Malkunst, nel sedicesimo secolo, è l’arte di dipingere, e cioè quell’insieme complesso di ricette e di conoscenze che permettono all’artigiano di esercitare il suo mestiere. Ma oltre alla chimica che gli permette di preparare i colori, quest’arte complessa riunisce ben altre competenze: la matematica e la fisica che permettono di fondarsi sulla prospettiva come scienza esatta, e di disporre correttamente i corpi nello spazio; l’anatomia, insegnata nei teatri di Padova, di Bologna, di Londra, di Vienna; la fisiologia, ossia lo studio del funzionamento dei tessuti, delle carnagioni, degli organi; l’ottica, la dioptrica e la catoptrica, che permettono di progredire nella scienza dei colori, delle rifrazioni, dei riflessi, delle trasparenze; e anche un po’ di zoologia che permette di distinguere e di tagliare correttamente i calami per disegnare e i peli animali di cui son fatti i pennelli, di martora per esempio... tutto un insieme di conoscenze e di ricette che hanno permesso all’arte della pittura di passare dallo statuto di ars mecanica a quello delle artes liberales, e all’artista, di non essere semplicemente un abile artigiano ma un letterato, un sapiente, un polymathes, un polytechnes.
© Jean Clair 2015

venerdì 10 luglio 2015

Il sindaco della città dove nacquero i libri


Adriano Prosperi, "La Repubblica", 10 luglio 2015

LA VICENDA del sindaco leghista di Venezia Luigi Brugnaro, così preoccupato di proteggere i bambini delle scuole da far sequestrare libri ritenuti dannosi per loro a causa delle teorie di gender, è una storia che sembra anch’essa uscita da una fiaba. Forse un giorno in una diversa Italia, qualcuno si metterà a tavolino e la racconterà, cominciando magari così: «C’era una volta, in un paese lontano lontano un buon sindaco che amava tanto i bambini». Buono, certamente: voleva liberarli dalla paura. Impresa eroica, donchisciottesca: da sempre nelle fiabe esiste la paura. Senza paura non ci sarebbero le fiabe. È lei la protagonista che protende le sue ombre cupe sulla vita infantile e quasi sempre lo fa proprio dall’interno delle famiglie. Ripensiamo a come siamo cresciuti noi che non abbiamo avuto sindaci così attenti. Il mondo che abbiamo conosciuto attraverso le fiabe era un mondo terribile. Vi accadevano cose spaventose. E tutte con la collaborazione attiva di membri della famiglia. C’erano padri che abbandonavano ripetutamente i figli nel bosco (Pollicino), finte nonnette con tanto di cuffia che standosene in letto spalancavano all’improvviso una bocca enorme e divoravano la nipotina dal cappuccetto rosso, che poi era salvata da un cacciatore di passaggio grazie al coltellaccio con cui apriva la pancia della nonna-lupo (un parto cesareo?). Non augureremmo a nessuno di vivere le esperienze degli eroi delle fiabe, di quelle che hanno occupato le nostre fantasie infantili. I bambini vi attraversavano foreste oscure, erano a rischio di finire nella pentola dell’orco, venivano schiavizzati o condannati a morire da matrigne infernali come quelle di Cenerentola e di Biancaneve. I loro interni di famiglia erano quanto di più irregolare si potesse immaginare. Il capolavoro indimenticabile fu per molti di noi la storia di un burattino che chiamava “babbo” il falegname che lo aveva intagliato da un tronco di legno e incontrava poi una sorellina/mamma in una bambina dai capelli turchini — una crudelissima creatura capace di ignorare le invocazioni del povero burattino impiccato a un ramo della quercia grande. Chissà se quel sindaco lo ha letto. E soprattutto chissà se immagina quali messaggi sotterranei si intreccino nelle storie e nei simboli in apparenza più innocenti — per esempio il cappuccetto rosso di quella bambina. Speriamo che non legga le interpretazioni di Erich Fromm o le brillanti pagine scritte anni fa da Robert Darnton sulle diverse versioni di questa fiaba. Perché se ne avesse anche solo un’idea sarebbe costretto a spingere la sua campagna assai al di là dei confini che finora ha toccato.
Ma torniamo alla fiaba che un giorno sarà scritta su questa storia: quale parte toccherà al sindaco? Forse quella del cacciatore che libera Cappuccetto rosso dal ventre della nonna-lupo, o quella del Principe Azzurro che risveglia Biancaneve e la sposa. In realtà, il suo ruolo nella vicenda ricorda quello del Pifferaio magico: come il Pifferaio, anche il sindaco ha dato un segnale, ha emesso un ordine del piffero contro i libri ritenuti pericolosi: il suo piffero ha intonato una melodia e tutti, tutti li ha portati via. Evento strano, fiabesco: quel piffero del sindaco ha fatto sparire dalle scuole tanti libretti che a noi non sembravano minacciosi quando li scoprimmo nella bellissima fiera del libro per ragazzi di Bologna e poi li cercammo in libreria per regalarli a figli propri o altrui, e più tardi a nipotini e nipotine: libri coloratissimi, disegnati da maestri assoluti come Altan, popolati di esseri come il Guizzino inventato da Leo Lionni — un pesciolino nero, membro di una famiglia di pesciolini rossi (ma per quale via? inquietante quel nero fra i rossi, ora che ci pensiamo), sfuggito al grosso tonno che divora tutti i pesciolini rossi della sua famiglia ma pronto a farsi un’altra più grande famiglia per opporsi al tonno. Già, la famiglia. Sta sullo sfondo, irregolare, disforme e complicata, da sempre. Spesso pericolosa, quanto tranquillizzanti gli animali. Il popolo di animali umanizzati abita il paese delle fiabe fin dai tempi di Fedro. Cambia un po’ col tempo. Ai tempi del ciuchino di Pinocchio li si incontrava per la strada e nei campi, oggi c’è la televisione o lo zoo. Ma è sempre un messaggio tipico della fiaba quello di mettere in gioco tutte le forme di vita che ci circondano.
Un ultimo suggerimento all’autore futuro: non dimentichi di raccontare che quel sindaco governava una città speciale, davvero fiabesca, dove i libri erano stati sempre di casa. Vi affluivano da lontano come i pesci di Lionni e vi erano nati come gli alberi delle foreste di Pollicino e di Cappuccetto Rosso. In quella città vi erano stati concepiti tanto tempo fa, per la prima volta al mondo, i libri-bambini, bellissimi, così piccoli da poterli mettere in tasca: e infatti li hanno chiamati “tascabili”. Li aveva creati un mago venuto da lontano, di nome Aldo con l’aiuto di un altro mago di nome Erasmo che veniva anche lui da molto lontano. Potremmo chiamarli genitore uno e genitore due. Quella era stata una nascita senza madre. O forse la madre c’era, si chiamava Venezia. Chissà se nel futuro Venezia non sarà diventata anche lei solo il nome di una creatura magica, abitante solo nella fantasia — la fata Venezia. Perché è anche così, con la caccia ai libri, che Venezia muore.

Perché amore vuol dire naufragio

Auguste Rodin, Fugit amor, 1887

In una relazione sentimentale “andare a fondo” e “salvarsi” 
sono due aspetti coesistenti 
Niente come l’abbandono dimostra la vulnerabilità e la finitezza della condizione umana

Michela Marzano, "La Repubblica", 9 luglio 2015

“Se volete avere la certezza che il vostro cuore rimanga intatto, non donatelo a nessuno” 
diceva C.S.Lewis

Anticipiamo parte della lectio che Michela Marzano terrà domenica prossima 12 luglio a Pesaro, nell’ambito del festival Popsophia che si tiene da oggi alla Rocca Costanza.
 Il tema è “Allegria di Naufragi”. 
Tra gli ospiti della rassegna: Remo Bodei, Achille Bonito Oliva, Umberto Curi, Massimo Recalcati 

«Non vi è più soggetto-oggetto, ma breccia spalancata tra l’uno e l’altro», scrive Georges Bataille parlando dell’amore. «E nella breccia, il soggetto e l’oggetto sono dissolti; vi è passaggio, comunicazione, ma non dall’uno all’altro; l’uno e l’altro hanno perso l’esistenza distinta ». Ma se l’uno e l’altro non sono più separati, non c’è allora il rischio di perdersi per sempre? E quindi di trasformare l’amore in un naufragio, nonostante il giustapporre termini come “amore” e “naufragio” sembri a prima vista un vero e proprio ossimoro?
In realtà, tutto dipende da cosa si intende esattamente per naufragio, visto che la parola ha diversi significati e che, se da un lato rinvia alla “rovina” e al “fallimento”, dall’altro lato rinvia anche al “dolce smarrirsi” di leopardiana memoria, e quindi a un perdersi momentaneo, prima di approdare nuovamente in un porto sicuro. Ma allora in che senso e in che misura si può accettare l’indistinto senza andare alla deriva? Che cosa si può smarrire e che cosa si deve invece ritrovare per evitare il fallimento e il naufragio dell’amore?
Per Freud, padre della psicoanalisi, si diventa autonomi solo nel momento in cui si è capaci di mantenere «linee di demarcazione chiare e nette » tra sé e gli altri. Si può amare in modo “normale” solo grazie a un doppio processo di separazione: bisogna prima separarsi dalla madre, poi differenziarsi dal mondo. E anche se al culmine dell’innamoramento i limiti tra l’io e il tu rischiano di essere cancellati, l’abbandono all’altro non dovrebbe mai essere totale e definitivo. La capacità di ritrovare i propri confini dopo i momenti di rapimento erotico è infatti la chiave di volta dell’identità personale di ognuno; è ciò che evita di scivolare nel non-senso dell’indistinto e della confusione; è ciò che impedisce il naufragio definitivo. Certo, non c’è amore senza abbandono. Non c’è amore senza il rischio di mettersi a nudo e di mostrare all’altro le proprie fragilità e le proprie contraddizioni. Esattamente come l’altro si abbandono a noi e accetta il rischio di togliersi la maschera dell’indipendenza e dell’autosufficienza. Ma l’amore fallisce inesorabilmente se si pensa che tutto si riduca a un reciproco possesso. Quel “tu sei mio o mia” che non può che soffocare. Perché nessuno appartiene a nessuno. (…) L’amore naufraga se non si è disposti a lasciarsi andare e se non la si smette di controllare tutto. Se non si capisce che ci sono tante cose che non dipendono da noi e se non si accetta di abbandonarsi almeno parzialmente all’altro. Ma naufraga anche se ci illudiamo che, con l’altra persona, potremo un giorno sperimentare di nuovo la gioia della fusione e dell’indeterminatezza che si è sperimentata durante l’infanzia. Il “poter-essere- soli”, come scrive il filosofo tedesco Axel Honneth, «costituisce il polo soggettivo di una tensione intersoggettiva, della quale il secondo polo è la capacità di fusione illimitata con l’altro». Perché se non c’è amore senza fusione, non c’è amore nemmeno senza la capacità, talvolta, di costruire e proteggere una distanza di sicurezza. Accettando che i dubbi non scompaiano mai. Esattamente come l’incertezza che avvolge il desiderio. Chi potrebbe d’altronde essere così folle da pensare di sapere esattamente chi è e che cosa vuole? (…) «Amare significa, in ogni caso, essere vulnerabili», disse un giorno il romanziere britannico C. S. Lewis. Subito prima di concludere: «Qualunque sia la cosa che vi è cara, il vostro cuore prima o poi dovrà soffrire per causa sua, e magari anche spezzarsi. Se volete avere la certezza che esso rimanga intatto, non donatelo a nessuno». Unico modo, per Lewis, per evitare il naufragio. Unico modo, in fondo, per non smarrirsi definitivamente. Dimenticando, però, che la vulnerabilità è parte della condizione umana e della sua finitezza. E che anche se decidessimo di restare per sempre da soli, dovremmo comunque fare i conti con tutto quello che ci manca, quello che non siamo, quello che non avremo mai. La famosa “mancanza ontologica” di cui parla un altro grande psicanalista, Jacques Lacan. Quella ferita che ci portiamo dentro perché nessuno di noi può mai “essere tutto “ o “avere tutto”. (…) Naufragio o salvezza, allora, quando si parla dell’amore? In fondo, entrambe le cose. Visto che l’andare a fondo nell’abisso del vuoto è possibile anche se si resta da soli. E che l’amore, a patto che la fusione sia momentanea e la dipendenza non sia assoluta, ha il potere di farci approdare sulla riva della condivisione. Perché se è vero che da soli si è sempre incompleti, è anche vero che non si può mai chiedere all’altro di colmare il nostro vuoto. Il vuoto — quel segno tangibile della nostra vulnerabilità e dei nostri limiti, quella la traccia del bisogno che ci portiamo dentro e che ci spinge ad incontrare gli altri, ad avere dei progetti, a fare di tutto per realizzarli — lo si può solo attraversare. E il modo migliore per farlo, vincolati a un desiderio che è sempre desiderio di altro rispetto a ciò che una persona ci può dare, è proprio “con” l’altro. “Io amo con te”, allora. Scoprendo così che è soltanto “con” l’altro che il naufragare può essere dolce.

martedì 7 luglio 2015

L’italiano dimenticato


Parole sbagliate, verbi usati male, forme inappropriate.
Tutti gli errori (anche) degli adulti

Paolo Di Stefano, "Corriere della Sera", 6 luglio 2015

Qualche settimana fa il dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Pisa ha annunciato di voler avviare, per l’anno prossimo, una serie di corsi di grammatica italiana per i propri studenti. Come mai? Perché la competenza della lingua, indispensabile alle professioni forensi, va calando in modo vertiginoso. È noto, secondo i famosi (o famigerati) rilevamenti Invalsi, che la gran parte degli studenti che escono dalle scuole superiori non sa scrivere, manca dei fondamenti testuali, grammaticali, lessicali, sintattici: dopo le scuole medie, si disimpara l’italiano, e la tendenza verso il basso continua negli anni dell’università e poi in età adulta. Un fenomeno di regressione, il cui primato europeo spetta all’Italia, come ha dimostrato un anno fa anche la ricerca internazionale Piaac (Programme for the International Assessment of Adult Competencies). Dunque, c’è poco da meravigliarsi se l’editoria si attrezza per rimediare all’analfabetismo di ritorno che concerne il leggere e lo scrivere, oltre al far di conto.
In questa linea si inserisce l’esigenza di riproporre un vecchio manuale voluto nel 1954 da Adriano Olivetti per le dattilografe, Piccola guida di ortografia (pubblicato ora da Apice libri), a cura di due grandi studiosi come Bruno Migliorini e Gianfranco Folena. E, dopo l’uscita del pamphlet semiserio di Andrea De Benedetti La situazione è grammatica (Einaudi), il nuovo saggio del linguista Vittorio Coletti, Grammatica dell’italiano adulto (Il Mulino). Non un vero e proprio prontuario, ma un libro più articolato che segnala e affronta, analizzandone le ragioni anche storiche, i dubbi e le tante eccezioni che mettono in difficoltà parlanti e scriventi. Non solo l’eterna questione del congiuntivo, che sembra in via di estinzione da quando è nato, ma ben altro. La pronuncia e la grafia: perché scuola e non squola, le doppie z, la d eufonica («ed ecco»), gli accenti e gli apostrofi (perché e qual è), la punteggiatura, vera piaga scolastica... I plurali dei nomi composti (lo sapete il plurale di girocollo e di pescespada?) e dei tanti forestierismi; il mistero dei doppi plurali (braccia, bracci) e quello dei plurali dei nomi in –io (principio); le sottigliezze che fanno litigare su ciliegie o ciliege (una regoletta malefica vuole la i per i sostantivi che al singolare terminano in –cia e –gia).
Poi ancora il genere dei pronomi personali: gli / le la cui distinzione va rispettata almeno nello scritto; la spinosa diatriba sul femminile nelle professioni, per esempio presidente e vigile, che dovrebbero ormai valere per i due generi, e delle forme non ancora accettate da tutti, come sindaca e ministra. Le sfumature di significato che riguardano la posizione di certi aggettivi (non è la stessa cosa dire «un pover’uomo» e «un uomo povero», ma forse neanche «un amico caro» e «un caro amico»); il codesto in disarmo, sostituito da quello ; le ambiguità da evitarsi («il fratello dell’amico di Carlo che è arrivato ieri»); l’invasività del pronome ci; il piuttosto che usato a sproposito in luogo di oppure; così come assolutamente, diventato un avverbio passe-partout (positivo o negativo). Il grande capitolo dei verbi, compresi i dubbi sugli ausiliari con il verbo servile («è dovuto partire» e non «ha dovuto partire»). E il lessico, con l’eccesso di usi stranieri: delle 305 parole nuove entrate nell’uso tra il 2000 e il 2013, ben 124 sono puri anglismi, spesso sostituibili da forme italiane perfettamente omologhe (Jobs Act , spending review...).
Ma quel che conta più delle regole e delle eccezioni, si sa, è la sensibilità verso i registri da utilizzare in rapporto alla situazione testuale: in certe condizioni l’uso del congiuntivo è d’obbligo, in altre si può soprassedere. Evviva dunque le grammatiche come quella di Coletti (leggibile da tutti e non prescrittiva), anche se la responsabilità maggiore per rimediare alle lacune linguistiche, che sono poi lacune cognitive e sociali, dovrebbe spettare alla scuola e all’università. Le riforme finora hanno voluto guardare altrove, inglese e internet su tutto, raramente affrontando le carenze del parlato e della scritto nella lingua madre. Ma il paradosso è che la vera emergenza è la lingua italiana: sarebbe utile affiancare la storia della letteratura nei licei con lo studio continuo della lingua; sarebbe indispensabile una formazione ad hoc per gli insegnanti, eccetera. Perché la situazione è davvero grammatica, e c’è poco da ridere.

Noi, travolti dall’ossessione di restare connessi.


Le luci e le ombre del web
 Una riflessione di Bauman

Uno spettro del nostro tempo si fa meno minaccioso:
sentirsi esclusi da tutto
 Ma trapiantare le procedure dell’online all’offline produce alti costi etici e sociali

Zygmunt Bauman, "La Repubblica", 6 luglio 2015

Il dizionario Merriam-Webster, che gode di grande considerazione, liquida il termine “ossessione” come «un’attività verso cui si nutre molto interesse o a cui si dedica molto tempo»; “compulsione” come «il sentirsi costretti a fare qualcosa»; e “dipendenza” come «un persistente consumo compulsivo di una sostanza di cui la persona che ne fa uso conosce l’effetto nocivo». Il rapporto che abbiamo con le nove ore o più che, stando a una ricerca attuale, l’individuo medio trascorre quotidianamente davanti a schermi grandi, medi o in formato tascabile (ossia nell’universo online) rispecchia tutte e tre le definizioni. (…) Lasciatemi cominciare dalla considerazione secondo cui le azioni nel mondo connesso sono nettamente più veloci e vantaggiose di quelle che impone invece la vita nell’universo disconnesso. In netto contrasto con il modo in cui una persona si aggira nel mondo offline, le imprese della vita di un individuo che naviga nell’universo online sono incomparabilmente più semplici (senza la necessità di abilità particolarmente complesse né di uno sforzo prolungato), più veloci (i risultati sono davvero immediati e si ha la sensazione di riuscire a ottenere qualcosa senza dover aspettare), più sicure (le iniziative che si intraprendono quando si è connessi possono essere annullate senza grossi problemi, ed è improbabile che le conseguenze di ciò finiscano per tormentare la persona che naviga incautamente in rete). Ma era proprio questo a cui mirava l’idea di progresso annunciata dai profeti, dai pionieri e dai promotori della modernità, così come i conseguenti affanni della modernizzazione. È esattamente ciò che “essere moderni,” o “condurre una vita moderna,” doveva significare: liberarsi, a una a una, di tutte le fatiche e i disagi della vita. (…) Considerate, ad esempio, il contributo che ha avuto nello scacciare lo spettro maligno della nostra epoca: la minaccia dell’esclusione, dell’estromissione, dell’abbandono e della solitudine. Su Facebook non ci si deve più sentire soli o abbandonati, rifiutati, eliminati – lasciati lì a cuocere nel proprio brodo senza la compagnia di nessuno se non di se stessi. C’è sempre, ventiquattr’ore al giorno e sette giorni su sette, qualcuno da qualche parte pronto a ricevere un messaggio e persino a rispondere a esso o a confermare di averlo ricevuto. (…) Ma cos’è che è andato perduto – già accertato o che si prevede di perdere? Tanto per cominciare, i ricercatori riferiscono di danni che affliggono (o che si presume possano affliggere) le nostre facoltà mentali; innanzitutto, le qualità/capacità ritenute indispensabili per stabilire un ambito di cui la ragione e la razionalità hanno bisogno per essere utilizzate e dare piena prova di sé: attenzione, concentrazione, pazienza – e la loro durata. (…) Stiamo perdendo la pazienza, ma i grandi risultati si ottengono solo con molta pazienza. Bisogna tener testa agli ostacoli che si incontrano, alle probabilità inattese che tuttavia confondono i piani o interrompono la loro realizzazione. Sono stati condotti molti studi su questo problema, e la maggior parte dei risultati ha mostrato che la capacità di attenzione, di rimanere concentrati a lungo – e nel complesso la perseveranza, la tolleranza e la forza d’animo, le caratteristiche fondamentali della pazienza – stanno diminuendo, e rapidamente. (...) Oggigiorno, il “multitasking” tende a essere la strategia di gran lunga preferita nell’utilizzo della rete con le sue sempre più numerose app e gadget, contenendosi un attimo (per quanto fuggevole) di attenzione. (…) La prossima considerazione riguarda il probabile impatto sulla natura dei rapporti umani. Stringere o interrompere dei rapporti è di gran lunga più facile e meno rischioso nell’universo online che in quello offline. Il fatto di allacciare delle relazioni online non implica impegni a lungo termine, figuriamoci poi quelle in stile «finché morte non ci separi, nella buona e nella cattiva sorte», né richiede il duro, logorante e prolungato sforzo che invece esigono i legami nel mondo disconnesso. (…) C’è un’altra questione, forse la più controversa tra quelle che emergono dal dibattito sui vantaggi e gli svantaggi della rete mondiale. L’esporsi in modo universale, facile e comodo agli eventi del mondo in “tempo reale”, abbinato a un’apertura analogamente universale, e all’affacciarsi con la medesima facilità e tranquillità al palcoscenico pubblico, è stato salutato da molti osservatori come un’autentica svolta nella breve seppur movimentata e burrascosa storia della democrazia moderna. Contrariamente alle previsioni piuttosto diffuse secondo cui Internet rappresenterà un importante passo in avanti nella storia della democrazia, chiamando in causa ognuno di noi nel plasmare il mondo che ci dividiamo e sostituendo la “piramide del potere” che abbiamo ereditato con politiche “trasversali” – si stanno accumulando le prove a sostegno del fatto che Internet potrà benissimo contribuire a prolungare e inasprire i conflitti e gli antagonismi, impedendo al contempo un reale dialogo a più voci e la possibilità di un armistizio e di un accordo conclusivo. Paradossalmente, il pericolo nasce dalla tendenza della maggior parte degli internauti a rendere il mondo online una zona priva di conflitti, benché non venendo a patti sulle questioni alla base degli scontri di modo che vengano risolti accontentando entrambe le parti – ma sottraendo tali conflitti che tormentano il mondo offline alla loro vista e attenzione… (…) Va detto che il sopraccitato inventario dei vizi e delle virtù effettive e potenziali della suddivisione del Lebenswelt (“mondo della vita”) in un universo online e offline è tutt’altro che completo. (...) Nonostante tutto quello che al momento si possa sostenere, una delle conseguenze meno allettanti riguarda il prezzo da pagare per i risultati più grandi ottenuti dall’universo online in termini di comodità, facilità, assenza di rischio – e incoraggiando una tendenza a trapiantare le concezioni del mondo fatte a misura dell’ambiente online nel suo corrispettivo offline, a cui possono essere applicati a costo di un grande danno etico e sociale.

domenica 5 luglio 2015

La lingua della scienza. Non può essere Babele


Dopo la scomparsa del latino per un lungo periodo
 gli scienziati usarono varie lingue per comunicare finché non prevalse l’inglese

Arnaldo Benini, "Il Sole 24 ore - Domenica", 5 luglio 2015

«Per quanto inevitabile, la scomparsa del latino come linguaggio universale della scienza - scrisse l’allora direttore della rivista Endeavour Trevor Williams nel 1977 (Interdisciplinary Science Reviews 2, 165-172, 1977) - è stata una grande sventura». Deleterio fu l’intervallo fra il declino del latino e la prevalenza dell’inglese, perché, fra la fine del ’700 e gli anni ’70 del secolo scorso, prevalse la Babele di scrivere di scienza in diverse lingue. Michael D. Gordin, dell’Università di Princeton, storico della chimica, della scienza russa e della guerra fredda, in un geniale e vastissimo studio di storia della comunicazione scientifica, che è anche un saggio di politica culturale, racconta la fine molto deplorata («a monument to human folly») del latino come lingua universale e la lenta marcia verso l’egemonia, ora incontrastata, dell’inglese. Perché non si è continuato col latino, che era la lingua scritta della cultura in Europa, nel medio Oriente, in Russia (introdotto con la scienza, non essendoci tradizione cattolica), nella quale si leggevano anche traduzioni di testi greci e arabi? La ragione principale potrebbe essere che da secoli era scritto e non più parlato. Inoltre il latino classicheggiante degli umanisti del Rinascimento non si prestava ad esprimere i rapidi e radicali cambiamenti della scienza e della tecnologia. Il latino, dice Gordin, fu la vittima più illustre della rivoluzione scientifica, anche se testi di Galilei e Newton sono in latino. Ancora nella seconda metà del ’700 il latino resisteva come lingua della scienza. Giambattista Morgagni, ad esempio, pubblicò nel 1761 la prima grande opera di anatomia patologica De sedibus et causis morborum e il medico napoletano Domenico Cotugno nel 1779 De Ischiade Nervosa Commentariis, il primo studio sulla sciatica come malattia dei nervi e non delle vene delle gambe. Carl Linnaeus, che scriveva in latino e svedese, a metà del ’700 introdusse la nomenclatura binomiale latina per tutte le piante, in uso universale e obbligatorio fino al 2012. Al latino non giovò, nel XIX secolo, d’essere identificato col dogmatismo della Chiesa cattolica. Nel XIX e fino alla metà del XX secolo le lingue più usate nella comunicazione scientifica furono il “triunvirato” di inglese, francese e tedesco, ma nessuna ebbe il ruolo che era stato del latino. Il russo, che fuori dalla Russia pochi conoscevano, fu rilevante nella chimica di fine ’800.
Gordin racconta per esteso una delle più furibonde dispute nella storia della scienza del XIX secolo. Essa scoppiò per un errore nella traduzione tedesca, di un chimico bilingue russo-tedesco di Gottinga, del testo russo di Dmitrii Mendeleev (che aveva pasticciato alcuni lavori scritti in un francese approssimativo) del 1869 sulla tavola della periodicità degli elementi. La parola russa per periodico fu tradotta non con periodisch, ma con stufenweise, cioè graduale, progressivo. Il traduttore non aveva afferrato che la periodicità era la caratteristica cruciale e la scoperta della tavola. In Russia, nel XVIII secolo, le lingue in uso nella scienza furono francese e tedesco. Il francese ebbe difficoltà ad imporsi, anche perché, ancora nel XVII e XVIII secolo, era la lingua dominante solo in 15 degli 89 dipartimenti del paese, dove si parlava tedesco, occitano, basco, provenzale ed altre lingue. Uno dei compiti della Rivoluzione, dice Gordin, fu di rendere il francese lingua universale in tutta la Francia. Dal 1900 fino alla fine degli anni ’20, si pubblicarono nel mondo più lavori scientifici in tedesco che in inglese e il doppio e il triplo che in francese, nonostante l’avversione per la cultura e la società tedesche durante e dopo la prima guerra mondiale. In quegli anni la scienza tedesca, in particolare la fisica e la chimica, quest’ultima anche sul piano industriale, fu al culmine della creatività, testimoniata dal numero di premi Nobel. L’ignoranza del tedesco comportava, a quel tempo, di non essere al corrente di molto di ciò che scienza e tecnologia producevano.
Il declino della preminenza della lingua tedesca cominciò col nazifascismo, per l’esodo massiccio verso gli Stati Uniti e l’Inghilterra non solo di ebrei, ma anche di non ebrei ostili alla barbarie dei regimi in Italia e in Germania. L’inglese prevalse, sostiene Gordin, non per la preminenza economica e militare dei paesi anglofoni, ma perché l’Inghilterra e ancor più gli Stati Uniti avevano favorito il trasferimento nei loro istituti e università, che ebbero uno sviluppo enorme, di scienziati, umanisti e artisti dall’Europa, anche se molti di loro sapevano poco o niente inglese. L’inglese prevale non perché è la lingua dei padroni, ma perché è la lingua di paesi che hanno creduto nella cultura.
La preminenza dell’inglese fu favorita anche dalla decisione delle colonie britanniche di mantenerlo come lingua ufficiale dopo l’indipendenza e dall’occupazione di parte della Germania sconfitta di inglesi e americani. In Germania il bilinguismo nelle aree occupate era diffuso. L’inglese è oggi non solo la lingua delle pubblicazioni scientifiche e delle comunicazioni in conferenze, congressi e laboratori, ma è corrente nelle istituzioni scientifiche, anche nei paesi dell’Europa dell’est. Dagli anni ’70 del secolo scorso in poi quasi tutte le riviste scientifiche pubblicano in inglese e, in molte Università di paesi non anglofoni, insegnamenti, interrogazioni, tesi di laurea e pubblicazioni si tengono in inglese. Così si evita la Babele che si ebbe dopo il tramonto del latino. Per i non anglofoni sapere solo la lingua madre è una mutilazione culturale e professionale, per gli anglofoni è più la regola che l’eccezione. Sono comunque avvantaggiati.
Il neuroscienziato sudtirolese Valentino Braitenberg sostenne, molti anni fa, che chi non è anglofono, nei congressi e nei rapporti con i colleghi non deve lasciarsi intimidire. Impari l’inglese basico della scienza, prepari la conferenza, si eserciti nella pronuncia corretta e parli senza remore. Verrà ascoltato con interesse, se quel che dice lo merita. Oggi spesso non è così: chi, in una discussione, non interviene in un fluent English, è spacciato in partenza. È un bene che ci sia una lingua sola? È un bene per la scienza, perché la Babele nella scienza è inimmaginabile. Sta agli anglisti giudicare se è un bene per l’inglese. Gordin sospetta che l’egemonia dell’inglese non durerà a lungo e specula sulla successione. È probabile invece che l’inglese come lingua della scienza durerà più del latino perché è parlato, scritto e letto come lingua madre in paesi di tutto il mondo. Circa la successione: nessuno, nell’Europa del XV o XVI secolo, poteva prevedere che il latino sarebbe stato sostituito dalla lingua di un’isola dell'Oceano Atlantico.
Michael D. Gordin, Scientific Babel How Science Was Done Before and After Global English, The University of Chicago Press, Chicago and London, pagg.415, € 30,00

Al cinema andateci con Kant

Pensieri filmati

Camilla Tagliabue, "Il Sole 24 ore - Domenica", 5 luglio 2015

Che si fa stasera? Andiamo a vedere Lei con Martin (Heidegger), oppure optiamo per Interstellar, così c’è pure Edmund (Husserl)!... Banalizzando, si può forse riassumere così lo spirito di Al cinema con il filosofo, ultimo saggio del prof Roberto Mordacci, preside della Facoltà di Filosofia dell’Università San Raffaele, in cui insegna anche Filosofia morale. Nato da una rubrica su TgCom24, il libro è una raccolta di acute riflessioni (più schede informative e trame) su 37 film recenti, da The Wolf of Wall Street a La grande bellezza, da Mario Martone a Wes Anderson, dai Premi Oscar alle chicche d’essai, dalla Danimarca a Timbuktu. Convinto che «la lettura filosofica dei film è come un’immersione nel nostro mondo, come leggere lo stato dell’arte della coscienza contemporanea», l’autore rintraccia quattro modalità di approccio pensoso: la prima consiste «nel domandarsi che cosa sia il cinema»; la seconda nel «leggere i film come documenti storici, artistici e sociali da interpretare»; la terza nell’usare la settima arte «per fare filosofia»; la quarta nel considerare le pellicole come «testi filosofici» (questa è la sua preferita). Da filosofo morale, inoltre, Mordacci non può che enfatizzare l’«empatia, il luogo concreto di tutta la verità che è possibile condividere. Altra non ne abbiamo, ma è sufficiente a salvarci»: solo così, poi, ci si «scopre in dialogo con Socrate, Aristotele, Leibniz o Kant mentre si guarda un film». Sempre per amor di sofia, i titoli sono raggruppati per macroaree quali il bene e il male, la famiglia, l’amore, la crisi, la giustizia, tutti argomenti che testimoniano come il cinema contemporaneo, «e quindi la coscienza collettiva, accetti la sfida dei temi forti… Insomma, le ideologie sono finite, ma le persone sono tornate». Almeno al multisala.



mercoledì 1 luglio 2015

La radice e la memoria. Siamo tutti figli del logos



Ecco perché la Grecia resterà sempre la miglior patria d’Europa

La cultura nata all’ombra del Partenone
 fa parte del mito fondativo del Vecchio continente

E i singoli Stati non devono ignorarlo 
se non vogliono disfarsi tra nazionalismi e calcoli economici
Quel pensiero ci raccoglie insieme, 
è la nostra radice e ha informato di sé la storia e il destino dell’Occidente

Oggi Atene grida al mondo che l’unità del denaro non produce di per sé 
alcuna comunità politica

Massimo Cacciari, "La Repubblica", 1 luglio 2015

Può l’Europa fare a meno della Grecia? Se la domanda fosse stata rivolta a uno qualsiasi dei protagonisti della cultura europea almeno dal Petrarca in poi, questi neppure ne avrebbe compreso il significato. La patria di Europa è l’Ellade, la “migliore patria”, avrebbe risposto, come verrà chiamata da Wilhelm von Humboldt, fondatore dell’Università di Berlino. Filologia e filosofia si accompagnano, magari confliggendo tra loro, nel dar ragione di questa spirituale figliolanza. Non si tratta affatto di vaghe nostalgie per perdute bellezze, né di sedentaria erudizione per un presunto glorioso passato, coltivate da letterati in vacua polemica con il primato di Scienza e Tecnica. Oltre le differenze di tradizione, costumi, lingue e confessioni religiose che costituiscono l’arcipelago d’Europa, oltre l’appartenenza di ciascuno a una o all’altra delle sue “isole”, si comprende che il logos greco ne è portante radice, che non si intende il proprio parlare, che si sarà parlati soltanto, se non restiamo in colloquio con esso. Quel logos ci raccoglie insieme e ha informato di sé la storia,il destino di Europa. Ciò vale per pensatori e movimenti culturali opposti, per Hegel come per Nietzsche.Vale per scienziati come Schroedinger, Heisenberg, Pauli. Vale anche per coloro che si sforzano di pensare ciò che nella civiltà europea resterebbe non-pensato o in-audito: anche costoro non possono costruire la propria visione che nel confronto con quella greca classica. Per la cultura europea, dall’Umanesimo alle catastrofi del Novecento, la memoria della “migliore patria” è tutta attiva e immaginativa: non si dà formazione, non può essere pensata costruzione-educazione della persona umana nella integrità e complessità delle sue dimensioni senza l’interiorizzazione dei valori che in essa avrebbero trovato la più perfetta espressione. Un grande filosofo, Edmund Husserl, li ha riassunti in una potente prospettiva: nulla accogliere come quieto presupposto, tutto interrogare, procedere per pure evidenze razionali, regolare la propria stessa vita secondo norme razionali, volere che il mondo si trasfiguri teleologicamente in un prodotto della vita di questo stesso sapere. Una follia? Forse — ma una follia che ha veramente finito col dominare il mondo. Eurocentrismo? Certamente — ma autore dell’occidentalizzazione dell’intero pianeta.
La Grecia non assume più per noi alcun rilievo culturale e simbolico? Possiamo ormai contemplarla come l’Iperione di Hölderlin dalle cime dell’istmo di Corinto: «lontani e morti sono coloro che ho amato, nessuna voce mi porta più notizie di loro»? Come è spiegabile un simile sradicamento? L’anima bella “progressista” risponde con estrema facilità: quell’idea di formazione che aveva la Grecia al suo centro era manifestamente elitaria, anti-democratica; la sua fine coincide con l’affermazione dei movimenti di massa sulla scena politica europea. Io credo che la risposta sia ancora più semplice, ma estremamente più dolorosa. Tra l’ora attuale (noi, i “moderni”!) e la “patria migliore” c’è il suicidio d’Europa attraverso due guerre mondiali. L’oblio dell’Ellade è il segno evidente della fine d’Europa come grande potenza. Si badi: grande potenza è anche lo Stato o la confederazione di Stati che intendano diventarlo. Essi dovranno, infatti, dotarsi tanto di armi politiche ed economiche quanto di una strategia volta alla formazione di classe dirigente e di una cultura egemonica. Sempre così è stato e sempre così avverrà. Quando vent’anni fa scrivevo Geofilosofia dell’Europa e L’Arcipelago ancora speravo che questo arduo cammino si potesse intraprendere. E ci si risparmi la fatica di ripetere che non è affatto necessario che ciò si realizzi nel senso di una volontà di potenza sopraffattrice. L’Europa può ora pensare di dimenticare la Grecia, perché rinuncia a svolgere una grande politica, la quale può fondarsi soltanto sulla coscienza di costituire un’unità di distinti, aventi comune provenienza e comune destino. Se questa coscienza vi fosse stata, avremmo avuto una politica mediterranea, piani strategici di sostegno economico per i Paesi dell’altra sponda, un ruolo attivo in tutte le crisi mediorientali. E avremmo avuto grandi interventi comunitari per la formazione, gli investimenti in ricerca, l’occupazione giovanile. Tutto si tiene. Una comunità di popoli capace di svolgere un ruolo politico globale non può non avere memoria viva di sé, memoria di ciò che essa è nella sua storia, e non di un morto passato.
Tutti miti — diranno gli incantati disincantati dell’economicismo imperante. So bene — l’Europa attuale è quella costruita sulla base delle necessità economico- finanziarie. Gli staterelli europei usciti dalla seconda Guerra non avrebbero potuto sopravvivere senza l’unità del denaro. Oggi la Grecia grida al mondo che una tale unità non produce di per sé alcuna comunità politica. Se pensiamo all’Europa come a un colossale Gruppo finanziario, allora è “giusto” che una delle sue società di minore peso (magari mal gestita, da un management inadeguato) possa tranquillamente essere lasciata fallire. L’importante è solo che non contagi le altre. Ma se l’Europa vuole ancora esistere in quanto tale,e non disfarsi in egoismi, nazionalismi e populismi, deve sapere che la Grecia appartiene al suo mito fondativo, e che nessuna credenza è più superstiziosa di quella, apparentemente così ragionevole e “laica”, che ritiene il puro calcolemus senso,valore e fine di una comunità.