La costellazione Bowie |
Dalle letture giovanili di Philip Dick alla passione per Tesla e per i viaggi spaziali fino al testamento pitagorico Ritratto non in musica di una rockstar
Piergiorgio Odifreddi, "La Repubblica", 9 luglio 2016
Negli anni Cinquanta, quando David Jones era un bambino, uscirono due libri di fantascienza che da adolescente lo fecero sognare, come fece d’altronde tutto il genere, perché sembravano parlare proprio di lui: “Starman Jones” di Robert Heinlein (1953) e “Il mondo che Jones creò”, di Philip Dick (1956). Il primo è un romanzo di formazione che racconta di un ragazzo che voleva diventare un astronauta, e di un “cucciolo ragno” che sapeva giocare a scacchi. Il secondo è un romanzo distopico in cui compaiono mutanti umani ermafroditi che si guadagnano da vivere nell’industria dello spettacolo. Quei romanzi prefiguravano ciò che negli anni Settanta il giovane lettore David Jones sarebbe diventato, dopo aver cambiato il proprio nome in David Bowie: una scelta ispirata al pioniere James Bowie, morto nella battaglia di Alamo, e noto per il coltello da duello chiamato appunto “il Bowie”. Oltre che nella fantascienza e nel West, il futuro cantore delle stelle trovò la sua ispirazione anche in opere musicali come I pianeti di Gustav Holst (1918): già con uno dei suoi primi gruppi, il Lower Third, Bowie ne interpretò il brano Marte, portatore di guerra.
Nel 1969 l’ancora sconosciuto cantante era ormai pronto per il proprio lancio spaziale, che scelse oculatamente (o furbescamente) di effettuare la settimana prima della missione dell’Apollo 11. Nei giorni in cui il razzo Saturno V decollava da Capo Kennedy e il modulo lunare Aquila allunava nel Mare della Tranquillità, il maggiore Tom decollava nel brano Space Oddity, “Stranezza spaziale”, lasciando però presagire una storia con un finale meno lieto, che sarebbe stata raccontata a spizzichi in seguito: in Ashes to Ashes (1980), Hello Spaceboy (1995) e Blackstar (2015).
Nonostante la semplicità del suo stile letterario e musicale, e un video rudimentale che scimmiottava il Kubrick di 2001 Odissea nello spazio (1968), Bowie catturò lo spirito del tempo dei voli spaziali, almeno per gli ingenui giovani dei “favolosi anni Sessanta”. E quasi cinquant’anni dopo la canzone originale è ancora lì, cantata dall’astronauta Chris Hadfield fluttuante nello spazio nel 2013, in un superbo video che è stato visto da trenta milioni di persone, e citata dal cardinal Gianfranco Ravasi in un tweet nel 2016, il giorno della morte del cantante.
Ma David Bowie non si accontentava di impersonare un astronauta: voleva diventare un extraterrestre, anche se per elevarsi nello spazio celeste dovette scendere nei bassifondi terrestri e prendere ispirazione da artisti maledetti come Iggy Pop e Lou Reed. Mescolandoli insieme sintetizzò nel 1972 Ziggy Stardust, che divenne per un paio d’anni il suo indistinguibile alter ego, e lo fece letteralmente uscire di senno. Bowie, accompagnato dal gruppo I ragni di Marte, raccontò L’ascesa e la caduta di Ziggy Stardust in un disco e una lunga serie di concerti, l’ultimo dei quali divenne un film.
Nel 1976 iniziò poi una carriera di attore cinematografico, che nel corso degli anni l’avrebbe portato a impersonare personaggi come il governatore Ponzio Pilato nell’Ultima tentazione di Cristo (1988), l’artista Andy Warhol in Basquiat (1996), e lo scienziato Nikola Tesla in The prestige (2006). Quest’ultimo nel film interviene per costruire una stupida macchina che produce sosia degli uomini, secondo la vulgata pop che lo presenta come uno scienziato pazzo che sfornava appunto sciocche idee, ma nella realtà è stato un fior di inventore e un pioniere dell’elettricità e della radio.
Nel suo primo film, L’uomo che cadde sulla Terra, Bowie interpretò semplicemente sé stesso, o almeno quello che ormai credeva di essere: un alieno di nome Thomas Newton, venuto sul nostro pianeta in missione (nella fattispecie, per cercare un modo di portare acqua al suo inaridito pianeta), ma rimasto intrappolato quaggiù. In una sorta di resa di favori, questa volta fu Bowie a ispirare un’ormai pazzo Philip Dick, arrivato a credere di essere scivolato nella California dei propri tempi dalla Roma dei tempi di Cristo: nel suo romanzo autobiografico Valis (1981) compare infatti una rockstar simile a Bowie. Dopo quasi dieci anni di can- zoni che un acuto John Lennon definì “rock’n’roll col rossetto”, di video e film che mescolavano astronavi e pianeti con il travestitismo bisex, di prese di posizioni filonaziste e di dipendenza dalla cocaina, nel 1977 Bowie si ripulì nell’anima e nel corpo e produsse insieme a Brian Eno due dischi di musica minimalista e strumentale: Low e Heroes. In seguito il compositore Philip Glass scoprì che essi contenevano «brani complessi mascherati da canzonette» e ne trasse due sue sinfonie omonime. Negli anni Novanta Bowie era ormai diventato un prodotto industriale, e il banchiere d’investimenti David Pullman lo immise nel mercato delle obbligazioni. In cambio di un pagamento anticipato di 55 milioni di dollari, Bowie cedette i diritti su tutta la sua produzione passata per dieci anni, e il banchiere emise dei Bowie bonds, che pagavano interessi più alti dei buoni del Tesoro decennali (7,9% contro 6,4%).
Memore del suo diploma all’Istituto Tecnico-Artistico ottenuto da ragazzo a Keston, in un sobborgo di Londra, Bowie sperimentò non soltanto con l’elettronica, ma anche con l’informatica. Poco dopo gli inizi di Internet, nel 1998, la BowieNet offrì per una decina d’anni ai propri utenti non solo un accesso tramite modem alla rete e un servizio di mail, ma anche una serie di contenuti musicali specifici, quali interviste, video e canzoni di Bowie disponibili solo in rete, in quello che fu uno dei primi social network musicali. Diventato ormai una stella pure lui, il cantante ritornò all’ispirazione delle sue origini nelle ultime opere. Anzitutto la canzone The Stars Are Out Tonight (2013), le cui protagoniste sono appunto le stelle, che vivono e muoiono mentre gli uomini le osservano da lontano. E soprattutto l’album Blackstar (2016), il cui titolo è un triplo senso che allude non solo a una stella astronomica, ma anche a una stella pitagorica a cinque punte raffigurata sulla copertina, e all’espressione che i medici usano per indicare una lesione cancerosa. Il lungo video che illustra l’omonima canzone mostra un pianeta sconosciuto sul quale ha trovato la morte un astronauta. E un Bowie bendato e atterrito canta autobiograficamente di una candela che si spegne, e del giorno dell’esecuzione di una stella nera che è anche una stella del pop e una stella del cinema, com’erano appunto sia il maggiore Tom che lui. Nel video della canzone Lazarus, invece, lo stesso Bowie bendato giace e si libra su un letto di un ospedale-obitorio, cantando tormentato di essere ormai in Paradiso, di avere ferite invisibili e di essere in pericolo, ma di non avere più nulla da perdere e di essere ormai libero.