Divinità e potere a Roma
Augusto messo a nudo
Duecento capolavori alle Scuderie del Quirinale
nel bimillenario della nascita dell’imperatore
Silvia Ronchey
"La Stampa", 18 ottobre 2013
Il pudico principe, il dominus tutto decoro, il severo tristis per Ovidio pater patriae, il pontifex massimo, in pubblico e nelle ipostasi marmoree della sua autorappresentazione che fu tale in senso stretto se sul letto di morte, come narra Svetonio, chiese agli astanti di applaudire la sua «commedia» amava mostrarsi meticolosamente abbigliato, quando non togato e capite velato come nelle statue di Palazzo Massimo o di Ancona.
Fa una certa impressione vederlo completamente nudo. Ma è così che audacemente e teatralmente si presenta, un Augusto messo a nudo nell’illusionistico striptease della storia dell’arte, al pubblico della grande mostra aperta fino al 9 febbraio alle Scuderie del Quirinale, dove l’Augusto di Prima Porta il braccio alzato a chiedere silenzio, i bei piedi eroicamente scalzi, le ginocchia scoperte dalla gonna militare, la lorica istoriata di immagini di propaganda e appena sfiorata dal paludamentum che ricade molle sul polso che regge le lancia è per la prima volta affiancato al suo diretto modello marmoreo: il Doriforo di Policleto.
La somiglianza con il candido nudo che è epitome del Canone classico greco perfino nei tratti del viso è straniante, l’intenzionalità della citazione certa. E ha ragioni altrettanto radicate nella costruzione d’immagine del principato augusteo, la cui esegesi al pubblico è al cuore del concept della mostra, esplicitato dal suo ideatore Eugenio La Rocca nel secondo dei saggi che firma nel catalogo Electa: La costruzione di una nuova classicità.
Che il linguaggio artistico del saeculum Augustum non sia classicistico, ma «neo-classico» in senso proprio è suggerito fin dalla disposizione dei materiali, molti dei quali mai esposti e ora riuniti per la prima volta, come i rilievi di Medinaceli-Budapest. L’itinerario segue l’evolversi del pensiero politico del «divo» fino alla morte (14 d.C.) e all’apoteosi intesa, con un occhio all’ideologia e l’altro all’antropologia del mondo antico, come creazione di un nuovo dio, cui è dedicata una delle più emozionanti sezioni, con l’epifania dell’immenso Augusto di Arles e con il saggio Morte e apoteosi di Annalisa Lo Monaco.
«Io non vivo del passato. Per me il passato non è che una pedana», dichiarava Mussolini nella Sala dell’Impero della mostra che nel 1937 celebrò il bimillenario della nascita del princeps con deliberata attualizzazione del riordino statale augusteo in quello dell’«ordine nuovo» fascista, come illustra Andrea Giardina, Augusto tra due bimillenari. Il primo imperatore, il maker stesso di quella durevole entità che i bizantini chiameranno «l’animale imperiale», nel ricreare il suo novus ordo si servì del passato ma non certo in funzione restauratrice; un recupero «proattivo» che i suoi intellettuali interpretarono in «un canone», secondo Alessandro Schiesaro, «dalla straordinaria capacità di resistenza»: Virgilio e Orazio, Properzio e Tibullo, Ovidio e Livio, ma anche i perduti Cornelio Gallo e Vario.
Così, anche il linguaggio figurativo attinse alla classicità per riattualizzarla e non per imitarla freddamente, nonostante il giudizio tombale di Bianchi Bandinelli, ispiratore dei luoghi comuni novecenteschi sul classicismo augusteo che la mostra di Eugenio La Rocca mira a dissipare per sempre.
La legittimazione di ogni princeps, dal Medioevo all’età contemporanea, passerà sempre dal rinvio a Roma e al suo principe: per i duci e cesari novecenteschi come per altri meno cupi ascesi al ruolo imperiale dopo un percorso di cesarismo: Federico II, Lorenzo il Magnifico, più di tutti Napoleone.
Se nell’età napoleonica la creazione del Neoclassico segue la scoperta della scrittura e degli arredi pompeiani, il cortocircuito si enfatizza se si considera che i più belli sono augustei. La mostra ne presenta di straordinari, dal lussuoso braciere bronzeo con satiri itifallici, scoperto nei praedia di Iulia Felix durante gli sterri borbonici di Pompei e noto già dal Settecento, agli sgabelli della domus del Graticcio di Ercolano, testimonianze di una vita quotidiana raffinatissima. Napoleone si ispirò a Augusto, e la costruzione anche qui di una nuova classicità conferma che nessuno «stile impero» è mai restauratore, né è mai ideologicamente solo reazionario, ma in un qualche, non necessariamente gradevole modo anche rivoluzionario.
Lo è per esempio nell’esaltata celebrazione augustea della «pace», nella visionaria celebrazione della vita rurale, nella delirante nostalgia per la fertilità dei campi e degli animali, pacificati come gli istinti umani, per un’età dell’oro che torna contrapposta alla tetra stagione delle guerre civili. Un momento ipnotico che si riflette nelle Georgiche di Virgilio come nei capolavori delle Scuderie: nel gruppo dei Niobidi, i cui frammenti sono per la prima volta riuniti, e secondo la loro disposizione nell’obliquo del frontone, o nei tre grandi rilievi Grimani di Palestrina, giustamente comparati, nell’economia compositiva oltre che nel soggetto, ai versi virgiliani: «Il rilievo della cinghialessa, uno dei momenti più emozionanti dell’arte antica, non è classicismo ma invenzione suprema» (La Rocca).
Lo stile di Augusto
Il mito dell’imperatore che inventò la comunicazione attraverso l’arte
Edoardo Sassi
"Corriere della Sera", 18 ottobre 2013
Indietro nel tempo, venti secoli fa, il tramonto della Repubblica Romana e la nascita dell’Impero: una nuova epoca storica. E, va da sé, anche un nuovo gusto. Protagonista assoluto di quella stagione il figlio adottivo e pronipote di Cesare, colui che dopo la morte diverrà il divus Augustus, l’Augusto divinizzato, l’uomo che da mortale, durante i quattro decenni del suo lungo principato, aveva esteso i confini di Roma fino alla massima espansione, oltre l’intero bacino del Mediterraneo.
A raccontare da oggi Augusto, la sua epoca, le sue contraddizioni, i suoi successi, una mostra di impianto rigorosamente scientifico ma anche di impatto spettacolare, allestita a Roma presso le Scuderie del Quirinale e inaugurata ieri dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Nata da un progetto dell’archeologo Eugenio La Rocca — e da lui curata con Claudio Parisi Presicce, Annalisa Lo Monaco, Cécile Giroire, Daniel Roger — la rassegna resterà aperta al pubblico fino al 9 febbraio 2014, anno in cui ricorrerà il bimillenario della morte del princeps , deceduto a Nola il 19 agosto dell’anno 14 dopo Cristo. Una mostra che dunque inaugura di fatto, sia pure in anticipo di qualche mese, le tante celebrazioni per questa ricorrenza ufficiale e che interrompe così un lungo «silenzio» espositivo sull’imperatore che durava dal lontano 1937.
All’epoca, a un anno dalla proclamazione di tutt’altro impero, fu infatti il regime fascista a voler celebrare con la massima visibilità un altro bimillenario, quello della nascita del divus . E proprio una certa fascistizzazione del mito Ottaviano Augusto, con il suo corredo di magniloquente retorica, deve aver pesato in questi settantasei anni di assenza di Augusto dall’agenda espositiva italiana. All’epoca, alla colossale «Mostra augustea della Romanità» fu riservato l’intero Palazzo delle Esposizioni, e sventramenti furono effettuati, sempre a Roma, per creare l’attuale piazza intitolata all’imperatore, isolandone contestualmente il Mausoleo.
Oggi, in tutt’altro clima storico-politico e senza forzature ideologiche, c’è la voglia di ripercorrere le tappe folgoranti di una biografia, di una carriera politica e di un’intera stagione con una selezione di grande pregio che annovera oltre duecento opere, tra le quali non pochi capolavori. Un’antologia non facile da mettere insieme e alla quale hanno infatti lavorato in tanti, sia italiani, sia francesi (la mostra è organizzata in collaborazione con il Louvre e dopo Roma sarà al Grand Palais di Parigi dal 19 marzo al 13 luglio 2014); sia lo Stato (Soprintendenza archeologica di Roma), sia il Comune (Assessorato alla Cultura, Azienda speciale Palaexpo, Musei Capitolini, Sovraintendenza).
Escluse volutamente la pittura e l’architettura per motivi logistici e perché entrambe ampiamente rappresentate a Roma tra collezioni museali e luoghi fisici (tanti, dall’Ara Pacis al Teatro Marcello, i monumenti «augustei» e le pitture parietali in situ), la mostra alle Scuderie si incentra, come spiegano i curatori, «sulla scultura, sui bronzi, sulle terrecotte, le monete, le gemme, i cammei, i gioielli e sulle arti cosiddette minori, con una scelta critica basata su opere che rivelano nel modo più idoneo il sistema di comunicazione adottato da Augusto e dalla sua corte, e che presentano una qualità artistica superiore alla media».
Il percorso si apre con la colossale Statua marmorea di Augusto, oltre due metri di altezza, ritrovata nel teatro antico di Arles (il torso rinvenuto nel 1750, la testa nel 1834). Al suo fianco una scultura raffigurante la moglie Livia, del tipo orante. A seguire una pressoché ininterrotta sequela di meraviglie tra marmi, ori, argenti, vetri, tripodi, anelli, torsi, crateri o ritratti, provenienti da alcuni tra i maggiori musei del mondo (British, Metropolitan e Louvre alcuni dei prestatori stranieri).
Tra i picchi dell’esposizione, il confronto ravvicinato tra il Doriforo di Pompei (Napoli, Museo Archeologico Nazionale) e la celeberrima Statua di Augusto cosiddetta da Prima Porta, prestata dai Musei Vaticani, scultura in marmo ritrovata sulla via Flaminia nella villa di Livia e che fece da prototipo alle onnipresenti effigi dell’imperatore. Altro prototipo famoso esposto, la Statua togata con capo velato, ritrovata nel 1910 nelle fondamenta di una casa in via Labicana.
E al tipo Prima Porta appartiene inoltre la splendida testa bronzea da Meroe, Sudan, oggi a Londra, ritrovata volutamente sepolta sotto il pavimento di accesso a un tempio della capitale nubiana e per questo perfettamente conservata. Quel seppellimento aveva lo scopo di far calpestare, simbolicamente, l’odiato Augusto da chiunque entrasse nell’edificio destinato a celebrare le vittorie dei sovrani meroiti.
«Cerebrale e politico. Ma l’inquieto Cesare suscita più passioni»
Fu uno stratega,
non un condottiero
Roberta Scorranese
"Corriere della Sera", 18 ottobre 2013
Andrea Giardina, uno dei più fini conoscitori della Roma antica, introduce la figura di Augusto citando Karl Marx: «Secondo il filosofo, nell’era del capitalismo, il concetto di soddisfazione è volgare. Forse è per questo che, ancora oggi, Cesare è più popolare di Ottaviano: Cesare era un insoddisfatto, in fondo un perdente, uno che è morto assassinato. Augusto no: troppo preciso e astuto per essere anche coinvolgente. Ecco perché su di lui sono stati realizzati pochissimi film, pochi spettacoli teatrali, molte statue celebrative ma poche tele a effetto drammatico. Diciamo che la modernità si identifica con i personaggi sofferenti, in un impeto che mescola cattolicesimo e romanticismo».
Già, a differenza del padre adottivo, Augusto è morto nel suo letto e non assassinato; è ricordato per la finezza politica più che per il coraggio militare; non ha mai vestito i panni del «dittatore democratico», bensì ha dato vita all’Impero romano. «Augusto è entrato nell’agone politico poco più che adolescente (19 anni, ndr ) — dice Giardina, che nel catalogo della mostra ha curato un saggio sul personaggio — ma ha immediatamente dimostrato un grande talento politico, riuscendo a barcamenarsi tra Antonio e Bruto. Aveva ricevuto un’educazione regolare, conosceva la retorica e almeno il latino e il greco. Ma era un cerebrale, un ragionatore».
Machiavellico, più che istintivo. E così la sua fortuna, nell’età moderna, è stata altalenante. «La Rivoluzione Francese e quella Americana non lo hanno amato — continua lo storico — preferendogli Bruto o Catone l’Uticense, i martiri vittime del potere. Poi, nella seconda metà dell’Ottocento, Augusto ricomparve, anche come modello artistico». Ritratto o scolpito quasi sempre con la toga, nella veste canonica del cittadino romano, in un fermo equilibrio intriso di valori patriottici, non poteva non diventare un «faro» per Benito Mussolini, il quale, nel 1937, colse l’occasione di celebrare il bimillenario della nascita dello stratega, al fine di identificarsi con lui. Eppure, per Giardina «la dimensione guerriera di Augusto aveva molte incrinature. Nonostante il fatto che, sotto di lui, l’impero romano fu notevolmente accresciuto, e anche se nelle Res gestae il principe enfatizzava i propri successi militari, ciò non significava che egli potesse essere considerato un grande condottiero» .
È sempre stato più un simbolo astratto che non un’immagine concreta dell’uomo «nel fango e nella polvere». Però che lungimiranza politica: vissuto a cavallo tra il mondo pre-cristiano e quello cristiano, unificò l’Impero, divise le province, unificò il fisco imperiale, riorganizzò l’amministrazione di Roma. I limiti? Per Giardina, Augusto non ha saputo «anticipare quell’osmosi sociale verticale che arriverà dopo l’addio alla schiavitù, né intercettare cambiamenti sociali», come quelli nati dall’allargamento della cittadinanza romana. Quel che oggi resta, è (anche) un patrimonio d’arte e memorie non ancora del tutto scandagliato .
«la Naumachia che Augusto aveva fatto realizzare a forma di ellisse lì vicino,
tra le odierne chiese di San Cosimato e San Francesco a Ripa»
Sulle sue tracce, dal miglio aureo al mausoleo
Lauretta Colonnelli
Passeggiando nella capitale tra i resti monumentali e qualche sorpresa sotterranea Tutte le strade portano a Roma, recita un proverbio nato dall’efficiente sistema viario dell’antica Urbe. In realtà tutte le strade partivano da Roma, da una colonna marmorea rivestita di bronzo, che fu posta nel Foro da Augusto, divenuto «curator viarum» nel 20 a. C. La colonna si chiamava «miliarium aureum», pietra miliare aurea, e da questa si misuravano in miglia tutte le distanze dell’Impero. La base della colonna, decorata con palmette, è visibile ancora oggi davanti al tempio di Saturno, ai piedi del Campidoglio.
Si potrebbe partire da qui per una passeggiata alla ricerca dei monumenti che ricordano il primo imperatore romano. Non lontano dal miliario ci sono i resti del suo Foro, collocato ortogonalmente rispetto a quello di Cesare e riconoscibile dalle colonne del tempio di Marte Ultore che vi era inserito. Su via dei Fori imperiali si incontra la sua statua loricata, copia novecentesca in bronzo di quella marmorea ritrovata il 20 aprile 1863 nella villa della moglie Livia a Prima Porta e conservata ai Musei Vaticani. Gli storici hanno sempre detto che la lorica (la corazza dei legionari) fosse in pelle. L’archeologo sperimentale Silvano Mattesini sostiene che fosse cucita in undici strati sovrapposti di lino, come quella di Alessandro Magno, detta «linothorax». Lo dimostrerebbero i laccetti che si vedono sotto il braccio destro della statua, usati per stringere la lorica fino a renderla aderentissima, come si faceva con i corsetti femminili nel Settecento. La statua di Augusto come pontefice massimo, conservata al museo di Palazzo Massimo, risale invece agli anni immediatamente successivi al 12 a. C., quando l’imperatore assunse la più alta carica sacerdotale.
Ma il cuore della Roma augustea si trovava in Campo Marzio, nell’area oggi compresa tra il Parlamento e il Tevere, in prossimità del «pomerium», il confine sacro della città. Qui il 30 gennaio del 9 a. C. fu inaugurata l’Ara Pacis, concepita per celebrare la pace augustea, dopo le imprese compiute a nord delle Alpi e in Spagna. L’imperatore fece costruire contemporaneamente l’«horologium solarium», la più antica meridiana di Roma. Tracciata su un pavimento in lastre di travertino, misurava 160 metri per 75. Lo gnomone era costituito dall’obelisco di Heliapolis (ora in piazza Montecitorio) che Augusto aveva trafugato dall’Egitto con lo scopo, come scrive Plinio, di «captare l’ombra del sole e quindi stabilire la durata dei giorni e delle notti». Il 23 settembre, compleanno di Augusto, l’ombra veniva proiettata sull’Ara. Un lembo dei resti della meridiana, è visibile nel cortiletto al numero 48 di via di Campo Marzio. Sepolta ben presto sotto i detriti alluvionali, l’Ara Pacis fu dimenticata per un millennio, finché i suoi resti cominciarono a tornare alla luce. Nel 1938 venne finalmente ricomposta, trecento metri a nord dalla collocazione originaria, accanto al Mausoleo che Augusto aveva fatto costruire nel 29 a. C. e che Strabone descrisse con ammirazione, come «un grande tumulo presso il fiume, su alta base di pietra bianca, coperto fino alla sommità di alberi sempre verdi; sul vertice è il simulacro bronzeo di Augusto e sotto il tumulo sono le sepolture di lui, dei parenti e dei familiari». Nel 1936, dopo le demolizioni attuate nella zona per costruire l’attuale piazza, il mirabile Mausoleo prese quell’aspetto di «dente cariato» che si vede ancora oggi (la definizione è di Antonio Cederna). Fu l’ultima trasformazione delle tante subite nei secoli: fortilizio nel medioevo, anfiteatro per spettacoli e corride alla fine del Settecento, sala per concerti con il nome di Auditorium Augusteo per l’orchestra di Santa Cecilia ai primi del Novecento.
Un’altra curiosa traccia della Roma augustea si trova a Trastevere, nei sotterranei di un palazzone costruito nel dopoguerra al numero 9 di via della VII Coorte. Qui si conservano i resti della caserma del corpo dei vigili del fuoco istituito nel 6 d. C. dall’imperatore. Sono svaporati i circa cento graffiti ritrovati nel 1866 sulle pareti: raccontavano la vita difficile dei pompieri, in una città fatta in gran parte di legno. «Sono stanco, datemi il cambio», lasciò scritto uno di loro. Affrontavano il fuoco con pompe a sifone, pertiche, corde, scale, recipienti per l’acqua. Forse l’attingevano dalla Naumachia che otto anni prima Augusto aveva fatto realizzare a forma di ellisse lì vicino, tra le odierne chiese di San Cosimato e San Francesco a Ripa, e che era alimentata dal lago di Martignano, attraverso l’acquedotto dell’imperatore, uno degli undici dell’epoca. Trastevere è uno dei 22 rioni di Roma che derivano dalle 14 «regiones» in cui Augusto aveva diviso la città .
Augusto
Il primo imperatore che trasformò Roma in una città di marmo
Alle Scuderie del Quirinale da oggi sculture e oggetti provenienti da tutto il mondo ricostruiscono la storia e la personalità di Ottaviano a duemila anni dalla morte
Claudio Strinati
"La Repubblica", 18 ottobre 2013
Duemila anni fa moriva l’imperatore che si celebrava come princeps di una nuova età dell’oro, e oggi Roma ricorda Augusto con una grande mostra alle Scuderie del Quirinale progettata da Eugenio La Rocca (e realizzata da un comitato scientifico composto da La Rocca stesso, Claudio Parisi Presicce, attuale Sovrintendente capitolino, Annalisa Lo Monaco, Cécile Giroire, Daniel Roger). Rispetto alla mostra tenutasi a Berlino del 1988 nel Gropius-Bau questa romana si basa sulla più aggiornata conoscenza degli studi e mette al centro il tema della produzione artistica senza la pretesa di sviscerare ogni aspetto del mondo augusteo, tramite uno sforzo organizzativo eccezionale che ha impegnato le maestranze delle Scuderie, sotto la direzione di Mario De Simoni coadiuvato da Matteo Lafranconi, in un allestimento che ha richiesto mesi di lavoro, degno veramente di ogni lode.
L’esposizione appare quale vera e propria epopea di cui offre subito una sintetica immagine la superba scultura dell’Augusto di Arles, opera gigantesca da confrontare con l’Augusto di Prima Porta, altro titano pure presente. Qui alle Scuderie il grande argomento è quello della visione della classicità e dei caratteri peculiari dell’arte nell’età augustea. Ottaviano Augusto, attraverso l’arte e la letteratura, tese a dimostrare come con il suo avvento fosse ritornata la mitica “età dell’oro”. Ovunque, all’epoca, appare il suo ritratto nei diversi momenti del lunghissimo comando. Oggi ne restano poco più di duecento raggruppabili, come ben si vede in mostra, in tre tipologie fondamentali: ora viene paragonato ad Apollo, ora è un nudo in armi, ora è togato e velato, custode della pace, rinnovatore della grande tradizione antica. La sua effigie è monumentale o visibile su gemme, cammei, monete. La sua presenza investe di sé ogni manifestazione artistica di cui la mostra offre vasta documentazione, anche se pittura e architettura appaiono solo da proiezioni di suggestive immagini che accompagnano il visitatore.
Come fu formulato in arte il principio del ritorno dell’età dell’oro, della consacrazione di una fase sociale di pace, prosperità, ordine e bellezza? Trasgressivo, ironico, spiritoso, prudente ma portato alla battuta aspra e volgare, Augusto padre della patria volle che la produzione artistica del suo tempo ambisse a presentarsi come sintesi universale incentrata, appunto, sull’idea del ritorno alle origini riscontrate negli atti di governo e nella politica generale, nell’amministrazione e nella gestione delle risorse, quale si vede nell’Ara Pacis, eretta in suo onore a partire dal 13 a. C. L’imperatore vuole creare uno spazio estetico necessario per definire un potere assoluto e ambiguo, pacificatore e insieme ipocritamente attento a utilizzare costantemente lo strumento del ricatto e del pettegolezzo per comprare qualunque cosa, dal potere militare, alla legittimità della discendenza da Giulio Cesare, alla subdola forza della diffamazione, mescolando vizi privati e pubbliche virtù tali da costringere il Senato a acclamarlo e proteggerlo. Dice lo storico Svetonio che Augusto in tarda età avrebbe affermato di aver preso Roma quando era una città di mattoni e di averla trasformata in una città di marmo. La verifica storica, attuabile anche nel percorso della nostra mostra, gli dà ragione. C’è, peraltro, una miriade di autentici capolavori che permettono di avere chiara la visione di un’arte che è tale perché così la vuole il potere costituito ma che parla con un linguaggio autonomo che di quel potere è largamente in grado di prescindere.
I principi della Riconciliazione e della Rinascita sono chiaramente espressi nell’Ara Pacis ma risultano altrettanto chiaramente espressi in tutta l’arte augustea. Dal Louvre (che ha collaborato in modo determinante a questa mostra che vi verrà poi esposta dopo la sede romana) è giunto anche l’unico frammento dell’Ara
Pacis portato via da Roma e di cui, nella ricostruzione attuale nell’edificio di Meier, si vede un calco. È un frammento stupendo, paragonato in mostra a un altro pezzo sublime che dice molto sulla scultura romana del tempo la Tellus proveniente da Cartagine e che è in chiaro rapporto con il riquadro detto la Saturnia Tellus dell’Ara Pacis.
Questi pezzi memorabili permettono di orientare tutta la visita, a condizione di comprendere il loro “classicismo” che non è imitazione a Roma del modello greco, ma è una rinnovata e vivente sintesi di arcaico e moderno, di idealizzazione e naturalismo secondo un principio di verità e intimità che Augusto, vero Giano bifronte distruttore e insieme salvatore dei valori repubblicani, porta nel dibattito culturale romano facendone un prototipo di riferimento per i secoli a venire. Quello che veramente colpisce è la raffinatezza e la delicatezza estrema di certa produzione artistica come nei formidabili argenti provenienti dal tesoro di Boscoreale o le incredibili ceramiche sigillate aretine prestate in parte dal Louvre, per non parlare di alcuni arredi della casa come una serie di vetri che documentano la eleganza e la preziosità di questa arte, imperiale ma sobria e discreta. Sorprende, nella visita alla mostra, l’afflato del sentimento che si vede in numerosissime opere che tutto sembrano meno che apoteosi servili del potere. Lo si percepisce bene, ad esempio, nei tre rilievi marmorei Grimani (due da Vienna e uno da Palestrina) forse parti di un ninfeo con le rappresentazioni di una pecora, una leonessa e una cinghialessa che nutrono i figli, immagini di tale sublime bellezza e di tale potenza espressiva da potersi paragonare alla poesia virgiliana o ovidiana. Tra queste opere ragguardevoli vanno almeno ricordate le bellissime lastre di terracotta Campana (dalla antica collezione di provenienza) anche queste in buona parte dal Louvre, o il fenomenale Tripode con un braciere, in bronzo, da Napoli.
Quando il potere fu racchiuso in un solo nome
Il significato del titolo attribuito al sovrano dal 27 a.C.
Maurizio Bettini
"La Repubblica", 18 ottobre 2013
Il titolo che Ottaviano assunse nel 27 a.C., Augustus, lo stesso con cui continuiamo a chiamarlo, non ha dato nome soltanto a un mese, Agosto, o a quel Ferragosto, Feriae Augusti, che ancor oggi celebriamo con tanta dedizione. Lo ha dato a un’intera epoca, l’età augustea appunto, uno dei momenti più alti, e insieme più problematici, della civiltà romana. “Età augustea” vuol dire infatti Virgilio e Orazio, Ara Pacis e Teatro di Marcello – un fiore meraviglioso nato però dal sangue, e destinato comunque a trasferire in occidente il seme dell’impero e del potere assoluto. Ma se età augustea significa tutto questo, che cosa vuol dire a sua volta Augusto? O meglio, che cosa significa augustus?
Svetonio racconta che Ottaviano da giovane portava il cognomen di Thurinus, e che Antonio, per denigrarlo, usava chiamarlo così nelle sue lettere. In seguito egli assunse il nome di Gaius Caesar e infine, per suggerimento del senatore Munazio Planco, quello di Augustus. L’imperatore stesso, nel catalogo monumentale delle sue imprese, le Res gestae, ricorda con orgoglio il momento in cui questo titolo gli fu attribuito, in cambio della generosità con cui aveva rifiutato i poteri straordinari e restituito la res publica al popolo. Lo storico Cassio Dione, però, racconta la storia in modo diverso.
Secondo lui Ottaviano, desiderando esser chiamato con un appellativo speciale, avrebbe dapprima scelto quello di Romulus, in questo modo identificandosi direttamente con il fondatore della Città. Poi però, temendo che tale decisione lasciasse adito al sospetto di aspirare al “regno” – un’ipotesi inaccettabile per i Romani – ripiegò su Augustus. Il che non significava peraltro abbassare le proprie ambizioni, al contrario.
Questo titolo infatti veniva generalmente attribuito alle divinità, come Giove, Apollo o Esculapio. Ovidio, in uno dei suoi non rari momenti di imbarazzante adulazione, non esiterà a mettere in evidenza il valore divino, sovrumano, che questo appellativo implicava. Se infatti Pompeo fu detto “grande” (Magnus) – scriveva nei Fasti – e Fabio addirittura “grandissimo” (Maximus), essi furono comunque celebrati con onori umani: «ma Augusto ha in comune il proprio nome con Giove». Al di là dell’adulazione ovidiana, però, bisogna dire che Ottaviano, come in molti altri casi, anche quando si trattò di scegliersi un titolo d’onore sapeva bene quello che faceva.
L’aggettivo augustus, infatti, affondava le proprie radici in una delle configurazioni linguistiche e culturali più antiche, e più rilevanti, della civiltà romana. Si tratta di una famiglia di parole che si rifà al verbo augeo “accrescere” nel senso, anche sacrale, di portare a compimento con successo una determinata azione; e vanta termini come augurium, ossia l’esplicita approvazione che gli dèi concedevano a un’impresa; augur, il nome che designa colui che aveva il compito di prendere gli auspicia, ossia di consultare la divinità riguardo all’azione da intraprendere (cosa che a Roma si faceva regolarmente prima di qualsiasi decisione importante); e ancora il termine auctor, colui che dà inizio e porta al successo un certo processo, e insieme ad esso auctoritas, ossia la condizione di “autorità” detenuta da qualcuno nel senso della sua capacità di portare felicemente a conclusione, ancora una volta, una certa azione: la più nobile, come si vede, e la più giustificabile forma di autorità che ci si possa augurare. Assumendo il titolo di Augustus, dunque, se Ottaviano ascendeva in qualche modo al mondo degli dèi, come sosteneva Ovidio, accedeva anche al più laico, ma non meno importante universo costituito dal “successo” delle proprie iniziative e dalla auctoritas che ne sta all’origine. Due qualità fondamentali per chi vuole governare un impero.
hei What hospital? What happened?
RispondiEliminaMy very best wishes