domenica 26 gennaio 2014

Mostri. Creature fantastiche della paura e del mito

Mostri. La paura e l’attrazione
I protagonisti della mitologia che piacciono molto ai bambini

Edoardo Sassi

“Corriere della Sera“, 26 gennaio 2014

Nelle fonti antiche che ne tramandano le gesta, di tutti i «Mostri» lui è il più terribile: Tifone, personificazione dei venti e distruttore del fuoco, dalle cui spalle spuntavano cento serpenti. Questa e cento altre storie, risalendo indietro nei secoli (storie di superstizioni, credenze e paure di una umanità bambina) si apprendono visitando la bella e scenografica mostra dal titolo, appunto, «Mostri», allestita fino al 1° giugno a Palazzo Massimo, una delle quattro sedi del Museo nazionale romano. 
Una mostra archeologica di impianto rigorosamente scientifico ma di grande impatto visivo e adattissima ad ogni tipo di pubblico, compreso quello delle scuole, che infatti sta affollando il percorso espositivo pensato non a caso in forma di labirinto, forma più antica di viaggio iniziatico. Ad aprire il cammino di visita c’è infatti un Torso del Minotauro dal gruppo con Teseo, in marmo bianco e di età flavia (fine I secolo d.C), scultura di norma esposta al primo piano del museo e ritrovata a Roma nella zona dello Stadio di Domiziano, attuale piazza Navona. 
Eccezionalmente spostata per introdurre la mostra, la statua assume così una sorta di ruolo-guida tra i tanti esseri — mostruosi certo, ma bellissimi — esposti nella rassegna e generati secoli addietro dalla fantasia e dalla paura dell’essere umano. 
Sculture, terrecotte, vasi, armi, affreschi e mosaici raffiguranti grifi, chimere, gorgoni, centauri, sirene, satiri, arpie, sfingi, tritoni, Pegaso, Scilla o l’Idra di Lerna: in tutto un centinaio di meraviglie che in origine ebbero per lo più funzione apotropaica, dunque con il ruolo di tenere lontani effetti malefici, fino a oggi mai o poco viste, straordinari prestiti nazionali e internazionali da Atene, Berlino, Basilea, Vienna, Los Angeles, New York e provenienti da diversi ambiti culturali e cronologici (Oriente, Grecia, mondo etrusco, italico e, ovviamente, romano). Curatrici della mostra (organizzata dalla Soprintendenza archeologica di Roma guidata da Mariarosaria Barbera), la direttrice di Palazzo Massimo, Rita Paris, ed Elisabetta Setari. «Per mostri — spiegano — s’intendono esseri che non trovano corrispondenza nella realtà, nell’ordine naturale, per lo piu originati da combinazioni di parti di esseri reali, creati dall’immaginazione dell’uomo, che hanno animato racconti ancestrali e miti. La mostruosità di queste creature, nel repertorio vastissimo dell’arte antica, presenta quasi sempre elementi di nobiltà e di eleganza, per il legame con la sfera cultuale e le loro imprese mitologiche». 
E sono, questi «mostri», per lo più transitati fino a noi, in una sterminata tradizione che attraverserà tanta arte (a quanti pittori, da Bosch a Böcklin, da Füssli a Salvador Dalí, sarebbe piaciuta questa esposizione) e letteratura, giungendo fino al cinema. Per spiegare quanto la «mostruosità» antica sia servita da fonte d’ispirazione per l’arte a venire, la mostra presenta infine anche tre opere di epoche successive: una tela del Cavalier d’Arpino raffigurante Perseo che libera Andromeda, una Medusa di anonimo fiammingo del XVII secolo e un Minotauro con testa di giraffa di Alberto Savinio. 


E il Simbolismo inquieto ritrovò il caos primordiale
A fine ‘800 il recupero di un disagio psichico 
che la serenità apollinea greca aveva eliminato

Francesca Bonazzoli

In un ormai vecchio saggio, Simbolica e mitologia, rimasto comunque seminale, Friedrich Creuzer indagava il passaggio dal simbolo al mito chiedendosi che cosa ci fosse stato prima della «ciarliera» tradizione di Esiodo e Omero la quale aveva sistematizzato l’albero genealogico degli dei, attribuendo a ciascuno di loro onori, funzioni, appellativi. Prima delle parole chiare dei Greci, ci furono gli enigmi dei Pelasgi, sosteneva il filologo tedesco. La brevità, la sintesi, costituiva il carattere fondamentale della dottrina religiosa più antica, e il dare un nome a ciò che prima era senza, rappresentava la funzione sacerdotale primaria. 
Tuttavia, «come il devoto presentimento di quei Pelasgi si connesse ad un nome, e grazie alla moltiplicazione dei nomi nella preghiera il loro pensiero religioso trovò un ordine sempre maggiore, così un universale impulso della natura umana richiede molto presto segni esterni determinanti ed immagini per indicare sentimenti indeterminati e idee oscure». In questa fase più antica della religiosità, quindi, interpretare i simboli e dar loro una forma coinciderebbero nella figura sacerdotale. È così che nascono sia l’aura divina intorno all’artista, sia la funzione magica attribuita all’immagine. E infatti ancora oggi è di questo che parliamo quando diciamo «artista divino» o vediamo milioni di persone in pellegrinaggio al Louvre davanti alla «Gioconda», o persino quando il vandalo spiega il suo gesto iconoclasta con affermazioni come: «Quell’immagine mi guardava con cattiveria». 
L’immagine nasce dunque divina. Ma è paradossalmente con i Greci che questo legame originario fra divinità e immagine si cominciò a sciogliere. Friedrich Nietzsche indicò proprio nella «serenità greca» della tarda grecità, nel prevalere dell’apollineo, cioè della razionalità e della scienza sul dionisiaco, la malattia che da lì in avanti indebolì l’Occidente. Che cosa restò, dunque, della potenza primigenia delle loro Arpie, Sirene, Gorgoni, Meduse o Sfingi? Nel Cinquecento, quando l’Umanesimo le riportò in auge sostituendole al bestiario medievale che decorava le facciate delle cattedrali, rimase solo l’eleganza di un divertissement intellettuale. 
Il compiacimento colto e raffinato per una bellezza artificiosa, tipico del Manierismo, trasformarono per esempio il Perseo del Cavalier d’Arpino in un cavaliere fiabesco che libera Andromeda da un mostro marino simile a quelli che nel basso Medio Evo venivano dipinti negli inferni dei Giudizi Universali. Anche Benvenuto Cellini, nel fondere in bronzo Perseo che brandisce la testa mozzata di Medusa, puntò tutto sull’ammirazione dello spettatore verso la magnificenza del corpo dell’eroe. All’inizio del Seicento, la terribilità della Medusa di Caravaggio è dunque solo la parentesi personalissima, di un uomo che provocava la morte rimanendone perseguitato. 
La situazione degradò ulteriormente nel Settecento dove umani e mostri vennero indifferentemente infiocchettati e incipriati diventando innocui ninnoli di un mondo dai colori pastello. Bisognerà aspettare il Simbolismo (1886) per riprovare un brivido di inquietudine e avvicinarci all’insondabilità del caos primordiale della psiche. Finalmente una società già febbricitante, ma non ancora illuminata dalla psicanalisi, tornò a «dire» il disagio psichico attraverso gli unici simboli che conosceva: quelli antichi. 
Le Sfingi di Gustave Moreau; i Centauri di Arnold Böcklin e Max Klinger; le Arpie di Munch o le Sirene di Klimt sono tutti mostri associati a ciò che si nasconde dietro le apparenze della realtà, quel magma di disagio arcaico che verrà chiamato inconscio. Lo stesso «espediente» che sarà utilizzato da Freud, il quale non a caso tornerà a far riferimento ai miti greci parlando per esempio di complesso di Edipo. In questa fase storica, dunque, i mostri antichi sembrano recuperare la loro forza di simboli e le immagini il loro potere magico. 
Metafisici e Surrealisti continueranno con consapevolezza su questa strada finché, dopo la seconda guerra mondiale, le Erinni, le Meduse, le Arpie e i Tifoni che assediano la razionalità umana verranno documentati dalla fotografia e dal cinema. Il valore simbolico si smarrisce allora nuovamente: il Mostro diventa l’orrore della cronaca o, addirittura, intrattenimento per bambini attraverso pellicole blockbuster


La metamorfosi delle sirene, da uccellacci a seduttrici
Ma nel mondo ellenico il volto femminile era «noir»

Eva Cantarella

Non c’è alcun dubbio, il mondo dei Greci era pieno di figure mostruose, di creature dall’aspetto spesso ripugnante, a volte pericolose, a volte senza scampo mortali. Sempre, comunque, difficili da classificare, nella loro varietà. 
Partendo da esseri semiumani, a ben vedere meno «mostruosi» come i Centauri, mezzi uomini e mezzi cavalli, o i Satiri, mezzi uomini e mezzi caproni, si arriva a creature dall’aspetto orripilante e disgustoso come le Erinni che, in Eschilo, accovacciate come cani, stillano sangue dagli occhi e a celebri mostri come le terribili Scilla e Cariddi. E poi, ancora, le Sirene. Proprio così, proprio loro, nell’immaginario odierno donne bellissime, seducenti e ovviamente irresistibili. Nelle raffigurazioni cinematografiche, ad esempio, hanno l’aspetto della stupenda Daryl Hannah, che nel film «Una Sirena a Manhattan» fa innamorare il protagonista al punto da indurlo a gettarsi nel mare per raggiungerla negli abissi, dove si presume vivranno per sempre felici. Ma per i Greci le sirene erano tutt’altra cosa, erano appunto dei mostri. Per cominciare, non erano affatto mezze donne e mezze pesci: in Omero, così come in Ovidio e più in generale nell’antichità classica, le Sirene sono donne con ali di uccello (o, se si preferisce, uccelli con testa di donna). La tradizione che le trasforma in pesci è solo medievale. 
Quale sia la loro genealogia è cosa incerta. Le tradizioni sulla loro nascita sono diverse: a volte sono figlie di Melpomene e del fiume Acheloo, a volte di Acheloo e di Sterope, altre volte ancora di Acheloo e di Tersicore. Ugualmente incerto il loro numero: in Omero sono due, ma nelle tradizioni posteriori diventano tre, o anche quattro. Quando sono tre si chiamano Pisinòe, Aglaòpe e Thelxièpeia (ovvero Parthenope, Leucosla e Ligheia). A volte sono quattro e si chiamano Telès, Raedné, Molpè e Thelxiòpe. Meno controverso il luogo in cui abitavano: tre isolette rocciose, tre scogli sulla costa tirrenica dell’Italia, oggi chiamate Li Galli, tra la punta della penisola amalfitana e Capri. Ma torniamo al loro aspetto, a ben vedere molto simile a quello delle Arpie. Figlie di Thaumas e di Elettra, discendente di Oceano, le Arpie appartenevano alla generazione divina preolimpica e abitavano le isole Strofadi, nel mare Egeo, ove — come peraltro in tutta la Grecia — godevano di pessima fama: la loro attività, infatti, consisteva nel rapire i bambini e condurre i morti nell’aldilà. Più che spiegabile, dunque, la loro frequente rappresentazione sui monumenti funebri. Al pari delle Sirene: anche queste — che così appaiono in numerose rappresentazioni, a partire dall’VIII secolo — erano demoni dell’oltretomba, grandi uccelli sgradevoli che intonavano, con voce gracchiante, lamenti funebri per ordine dei sovrani dell’Ade. 
Una rappresentazione per noi sorprendente che, per capirla, è necessario aprire una parentesi sulle personificazioni greche della morte: la più celebre delle quali, forse, è Thanatos. Figlio di Notte e gemello di Sonno (Hypnos), Thanatos è molto diverso dal fratello. Questo percorre pacificamente terre e acque ed è dolce con i mortali; Thanatos invece ha cuore di ferro, spirito di bronzo e petto implacabile. Una volta afferrato un essere umano, lo tiene con sé per sempre. 
Personaggio inevitabilmente temibile, Thanatos ha tuttavia tratti meno terrificanti di altre rappresentazioni della morte: più specificamente, di altre rappresentazioni della morte di genere lessicale e dal volto femminile. Morte e Sonno infatti hanno una sorella, Kera (a volte Kere, al plurale), la nera morte che terrorizza, rendendo insostenibile l’idea di un destino che pure, quando ha genere e volto maschile, viene in qualche modo accettato, con filosofica rassegnazione di fronte all’ineluttabile. E lo stesso vale per Gorgò, il mostro dal volto di donna e dallo sguardo che pietrifica, il cui solo pensiero indurrà Ulisse ad abbandonare precipitosamente l’Ade (quando, nell’Odissea, è costretto a visitarlo). 
L’associazione stabilita dai Greci, le donne, la morte e le immagini mostruose di questa, quando sono femminili, è non poco inquietante. Ma non è questo il momento per parlarne. Qui e si voleva ricordare la presenza, nel mondo greco, una volta idealizzato immaginato come luogo perfetto di ogni bellezza, la presenza di immagini inquietanti immagini mostruose, che pongono interessanti interrogativi sulla vita interiore dei Greci. 

Dacci oggi il nostro zombie quotidiano
Con l’era digitale le creature fuori dal comune si annidano nella normalità

Roberta Scorranese

«Il suo corpo guizzante come un pesce, l’ignobile rabbia espressa dal suo viso cattivo, calcinavano in me la vita e la sbriciolavano fino alla nausea». Un racconto poco conosciuto di Georges Bataille, Madame Edwarda (1941), tratteggia una mostruosità femminile che nasce da un desiderio sfrenato, un’estasi torbida. E, in fondo, il «mostro» moderno, novecentesco, scaturisce da questa interiorità devastata, lontana dalle fantasie gotiche dell’Ottocento, dove le creature fantastiche evaporavano nelle nebbie. No, da Edgar Allan Poe a oggi, il mostro è più sottile, imprendibile perché sempre più simile a noi, come ci ha suggerito Magritte con i suoi fantasmi. O Bacon, con autoritratti sfregiati. E persino la saga degli «zombie», dai film di Romero ai recenti rifacimenti, come una vita simile alla nostra che ritorna inaspettata. 
Ma negli ultimi decenni, nell’era dell’accesso e della virtualità condivisa, l’immaginario dei mostri è cambiato ancora, con sfumature sempre più vicine alla «normalità». O, meglio, alla trasfigurazione della normalità. È un mostro Walter White, il protagonista della serie televisiva americana Breaking Bad: la malattia lo rende sempre più abietto modificandone, insieme al destino, anche l’aspetto fisico; è un mostro Joker (rigorosamente nell’interpretazione di Heath Ledger) ne Il cavaliere oscuro del 2008, diretto da Chris Nolan; è un mostro Cate Blanchett nella scena finale di Blue Jasmine di Woody Allen, dove si arrende alla sua trasfigurazione che la lascia piangente, scarmigliata, volutamente cieca e sorda al reale; è un mostro Tony Soprano, dell’omonima saga televisiva, boss italo americano «cariato» all’interno da un destino di degrado morale. 
Così, curiosamente, mentre l’apparato cinematografico ci regala mostri sempre più sofisticati anche grazie a tecnologie che sfiorano la perfezione digitale (come tutta la recente serie dei «vampiri»), la sensazione è che il perturbante non risieda tanto nella finzione cinematografica o letteraria, quanto piuttosto si annidi nella vita di tutti i giorni, perfettamente impastata con i guizzi erotici, gli affetti, gli odi. 
Il monstrum (prodigio, creatura fuori dal comune) è nella serie infinita di fotografie modificate dai filtri dei social network; è nell’immagine distorta dell’altro che Skype ci restituisce ogni giorno (quante coppie oggi, si frequentano più su Skype che non nella vita reale?); è nel nostro stesso mostrarci poco per come siamo realmente, preferendo relazioni virtuali; è nella paura non tanto di invecchiare (paura che sa ormai di modernariato) quanto di cambiare, terrorizzati da un futuro che percepiamo come un abisso, più che come una possibilità. 
Persino nell’immaginario dei bambini il mostro è cambiato e ha preso le sembianze di un maialino «normale» come Peppa Pig. Perché le Carrie o gli Esorcisti che tanto ci hanno spaventato in passato, oggi tornano con la disarmata stanchezza dei remake. Quei mostri lì non ci sono più, quelle paure sono finite e lo dimostra lo scrittore che forse ha meglio interpretato il concetto di «mostro» moderno: Stephen King. Dopo aver raccontato la ferocia delle macchine (quindi del progresso) e la spietatezza dell’inconscio, King da tempo veste i panni (raffinati) di chi si limita a citare se stesso con ironia. 
Paradossalmente, il mostro, oggi, è più vicino a Freaks di Todd Browning, film del 1932 in cui il «mostro» era il nano, lo storpio, il diverso. Quelle creature che le città hanno relegato in abissi sempre più difficili da raccontare. 

Resterà aperta fino al 1° giugno l’esposizione «Mostri. Creature fantastiche della paura e del mito», a Roma, al Museo nazionale romano Palazzo Massimo (Largo di Villa Peretti 1), promossa dalla Soprintendenza Speciale per i beni archeologici di Roma in collaborazione con Electa e a cura di Rita Paris ed Elisabetta Setari.

1 commento:

  1. Engaging and fascinating subject...but what would really enthrall me is your feelings and ideas about monsters and mythology, inner and outer monsters of our soul...
    Have you seen the new photograph in my blog?

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