È un quadro che disorienta. Le pennellate caotiche, a creare un tappeto tattile, organico; i colori colati sulla tela; l’immagine nitida ai lati e liquefatta al centro, come in una fotografia con l’esposizione sbagliata, incapace di fermare il movimento. E’ un quadro che provoca. Per la forma, il soggetto e perfino il titolo, che richiama la terminologia accademica: Due figure nell’erba.
Nel 1954, anno in cui fu dipinto, l’arte astratta ha sopraffatto l’arte figurativa e condannato il soggetto come inutile zavorra della tradizione. Bacon si ostina a conservare l’apparenza delle cose.
Siamo nello stesso tempo dentro una sorta di camera della tortura — recintata da una struttura tubolare simile a un ring e da un panneggio simile a un sipario di teatro — e all’aperto, su un prato: i fili d’erba, fittissimi, sembrano mossi dal vento. La struttura imprigiona e nello stesso tempo protegge le due figure avvinghiate che lottano furiosamente. La loro pelle si compenetra con l’erba, metamorfosandosi in essa. I loro corpi si congiungono sino a fondersi l’uno nell’altro. Il coagulo di carne che ne risulta assume una forma animalesca. L’enigmatico rettangolo nero, che occupa la parte inferiore della tela, respinge lo spettatore come uno specchio cieco — lo tiene a distanza.
Bacon non dipingeva dal vivo, davanti al modello reale. Preferiva partire da una fotografia. Nel suo studio ammucchiava in un magmatico caos ciò che aveva visto e selezionato: foto di boxeurs, calciatori, cani, dittatori, amici, foto mediche ritagliate da libri sulle malattie della bocca, radiografie di cavi orali, studi di anatomia e disegni di nudi di Michelangelo, il fotogramma della bambinaia della Corazzata Potëmkine il pastello di un nudo femminile di Degas, ritratti di antichi maestri riprodotti coi colori saturi o sballati. La manipolazione di un testo altrui gli garantiva più autonomia di espressione e nella libertà della creazione la promiscuità delle immagini generava imprevedibili associazioni, inconsce e non intenzionali. Fra i suoi quadri più celebrati figurano gli studi che realizzò, a partire dal 1950, dal Ritratto di Innocenzo X di Velázquez, alla Galleria Pamphilj. Quel quadro di papa in porpora ossessionò Bacon per tutta la vita. Eppure, nemmeno quando venne a Roma, nel 1954, sentì la curiosità di vederlo.
Due figure nell’erba nasce da una fulminante combinazione. «Michelangelo e Muybridge si sono fusi nel mio spirito» ha dichiarato Bacon «può darsi che io abbia appreso da Muybridge qualcosa sulle posizioni e da Michelangelo la grandezza della forma». A Michelangelo Bacon attribuiva i nudi maschili più voluttuosi della storia dell’arte; di Eadweard Muybridge invece lo assillavano le sequenze sulla meccanica del movimento umano (pubblicate in volume nel 1887, avevano influenzato anche Degas). Two men wrestling coglieva due lottatori nudi avvinghiati sul tappeto di un’arena. Nel 1953 la foto era già servita a Bacon come struttura di base per Two figures: Due figure nell’erba può considerarsi il secondo pannello di un dittico immaginario.
Ma, come sempre, Bacon opera una deformazione — o “registrazione distorta”. E ai corpi fotografati sovrappone corpi reali. I due maschi si danno battaglia sull’erba, ma non stanno praticando sport. E’ come se Bacon accendesse i fari della macchina, investendoli di una luce abbagliante. Siamo voyeur di una scena di violenza o di sesso — o piuttosto di entrambe: di sesso violento. Nessuno aveva mai osato mostrare l’atto che per ogni società e convenzione artistica è il più osceno — indicibile e non rappresentabile. Tollerato ipocritamente nel segreto di una camera da letto, ma a volte nemmeno in quello. Nel 1954 in molti stati la sodomia era ancora perseguita penalmente, e in Inghilterra — paese in cui Bacon, nato a Dublino, viveva dopo la giovinezza trascorsa a Parigi e Berlino — l’omosessualità divenne legale solo nel 1967.
Due figure nell’erba fu esposto a Parigi e a Roma, ma nessun museo pubblico l’ha acquistato. A Bacon però non interessa scandalizzare né sedurre. Refrattario a ogni messaggio politico o morale, non intende rivendicare alcunché, né mettere in piazza la sua vita privata (benché qualcuno abbia voluto identificare nelle Due figure lui stesso e il suo amante). Dagli anni ‘40 pratica una pittura aggressiva, monumentale e disturbante, popolata da ammassi di carne sanguinolenta, bocche urlanti senza volto, membra sfatte e bestiali. I suoi sostenitori ritengono che quelle figure mostruose esprimano la disperazione dell’umanità massacrata dalla dittatura e dalla guerra mondiale, e in sostanza la solitudine e la disperazione dell’uomo contemporaneo. I suoi detrattori la trovano solo repellente. Lui ritiene che l’arte sia sempre un modo di reinventare ciò che viene chiamato reale, strappando il velo che lo offusca: e la realtà nuda non ha nulla di spirituale o trascendente, è materia, carne, violenza. L’uomo è una creatura futile, un corpo destinato alla disgregazione, e la sua vita non ha significato né scopo. L’artista può solo tentare di «registrare i suoi sentimenti riguardo a certe situazioni, rimanendo il più possibile vicino al suo sistema nervoso».
Due figure nell’erba è più indefinito del predecessore senza erba, e talvolta lo si vede perfino nelle pubbliche mostre. Eppure trasuda un erotismo selvaggio. Dal tempo di Michelangelo nessuno aveva rappresentato il corpo virile con simile oltranza.
Bacon non pone limiti alla rappresentazione. Dipingerà un nudo maschile seduto sulla tazza del cesso. Mentre vomita e muore. Dipingerà altre volte anche i due maschi a letto, su un materasso o in una stanza. Il tema claustrofobico della “figura in un interno” — rinchiusa come una bestia in gabbia, e incorniciata e isolata nello spazio da intelaiature, trespoli, sipari — può anzi essere considerato il più propriamente suo. Quello di Due figure nell’erba è insomma uno dei suoi temi ossessivi. Anni dopo, Bacon spiegò all’intervistatore-biografo che questo era «un soggetto senza fine. Davvero, non c’è bisogno di nessun altro». Alla fine, si tratta del desiderio di passare da un corpo all’altro, di sciogliere i confini della pelle e diventare uno. Chiunque può riconoscervisi.
La scienza dell'anima oggi trascura la letteratura
A Saramago e Ford preferisce biologia e statistica
Emanuele Trevi
"Corriere della Sera - La Lettura", 30 giugno 2013
È abbastanza comune affermare che per amore si arriva a delirare, eppure il desiderio e il delirio, in quell'assurdo labirinto che è la mente umana, possono anche diventare feroci antagonisti. Chi nega o in qualunque modo scaccia dalla coscienza il proprio desiderio, sta già delirando. E non c'è energia mentale più potente, si direbbe, di quella dell'errore e dell'autoinganno. Per certi individui, rivelare a se stessi ciò che veramente amano è l'impresa più difficile. Tale è il loro orrore della verità, che sono capaci di costruire interi mondi fittizi per seppellirla più a fondo che possono. Ma più di tanto, per quanto si sforzino, non possono. Ed è qui che cominciano i guai. Tra i narratori più efficaci di questa ingegnosa trappola psicologica, il prolifico Wilhelm Jensen occupa un posto del tutto particolare. Da poco ristampata con le bellissime illustrazioni di Cecilia Capuana Gradiva (Donzelli) è l'unica sua opera, tra le decine che ne scrisse, ad essergli sopravvissuta. Lo scrittore tedesco pubblicò questa fantasia pompeiana, come la definì, nel 1903, quando era già avanti con gli anni e all'apice di una vasta ma effimera fama.
Sarebbe un vero peccato se anche Gradiva fosse scivolata nell'inesorabile gorgo dell'oblio. A rileggerlo oggi, questo breve romanzo sentimentale-archeologico, mascherato da storia di spettri, conserva una notevole forza di persuasione. Com'è noto, però, a garantire all'opera la sua durata nel tempo non furono né i lettori di narrativa né i critici letterari, ma l'interesse, quasi vampiresco, di Sigmund Freud. È questa circostanza a rendere del tutto eccezionale la fortuna dell'operetta di Jensen. Fu Carl Gustav Jung, nell'aprile del 1906, a mettere in mano a Freud Gradiva. Erano ancora lontani, Freud e Jung, dalla clamorosa rottura del 1912. Erano i tempi eroici della Società di Vienna, e quegli eccezionali speleologi procedevano solidali, come fossero legati in cordata, nei cunicoli e nelle voragini della coscienza umana. Le loro idee provocavano una generale diffidenza, che rafforzava la solidarietà fra gli iniziati. Ad ogni modo, il romanzo di Jensen, intessuto com'era di fantasie deliranti e sogni rivelatori, e pervaso da una potente corrente erotica, fece letteralmente balzare Freud sulla sedia. Durante le vacanze estive, trascorse come d'abitudine all'Hotel du Lac di Lavarone, Freud si mise all'opera componendo quello che sarebbe destinato a rimanere uno dei suoi saggi più limpidi e belli, intitolato Il delirio e i sogni nella «Gradiva» di W. Jensen, pubblicato la prima volta nel 1907. Quando si dice (giustamente) che Freud è un grande scrittore, è a testi come questo che bisogna pensare. Dando fondo alle sue innate qualità di narratore Freud riscrisse Gradiva creando quello che Giorgio Manganelli avrebbe definito un «libro parallelo». Ci si può rendere conto del valore e dell'importanza dell'impresa servendosi di un vecchio ma utilissimo libro curato nel 1961 da Cesare Musatti, intitolato Gradiva, che ristampa insieme il romanzo di Jensen e il saggio di Freud, accompagnati da un intelligentissimo commento.
L'interesse dell'autore dell'Interpretazione dei sogni per le avventure italiane del giovane archeologo tedesco Norbert Hanold è più che giustificato. La sua è una vicenda che rende manifesto, in modo molto più efficace di qualunque trattazione scientifica, il funzionamento della rimozione, che dei meccanismi della psiche umana è il più pericoloso e gravido di conseguenze. L'eroe di Jensen ha consacrato l'esistenza alla sua unica passione, l'archeologia. Solo al mondo, le uniche figure femminili che ha considerato sono fatte di marmo e di bronzo. E di una di queste figure arriva addirittura a innamorarsi. O perlomeno, così lui stesso crede che vadano le cose. Si tratta, ad ogni modo, di un'opera d'arte realmente esistente, e conservata ai Musei Vaticani: il bassorilievo di una fanciulla velata che cammina, dirigendosi chissà dove, sollevando con la mano un lembo della veste. L'elemento più notevole della figura è la posizione del piede destro, sollevato in maniera quasi perpendicolare al suolo. È questo particolare che genera in Norbert una vera ossessione per l'opera così leggiadra di un ignoto artista greco, da lui ribattezzata Gradiva, «colei che avanza», versione femminile dell'epiteto che in latino accompagnava abitualmente Marte.
Un misterioso concatenarsi di sogni e premonizioni induce Norbert a partire da un giorno all'altro per l'Italia, finendo per cercare le tracce della Gradiva tra le rovine di Pompei. E in effetti, la incontrerà, ma in carne ed ossa. Ma non si tratta di uno spettro autorizzato a vagare nella luce del sole nell'ora meridiana, come crede il giovane archeologo, ma della ben concreta e viva Zoe Bertgang, vicina di casa di Norbert e sua amica d'infanzia, ben decisa a sposarlo. È questo personaggio femminile l'invenzione più riuscita di Jensen, e la sua strategia finisce per affascinare Freud molto più dei sintomi di Norbert. Zoe comprende al volo che il giovane non solo l'ha totalmente dimenticata, ma la crede un fantasma del passato, morta a Pompei nell'eruzione del Vesuvio del 79 dopo Cristo. Ma la peggiore strategia da usare con un delirante è quella di sbattergli in faccia la realtà, nuda e cruda. Per tirare a sé Norbert, serve una lenza più sottile. Sarà necessario accettare il particolare ordine di realtà in cui vive Norbert, e aspettando di scardinarlo, prestarsi al ruolo del fantasma della fanciulla pompeiana morta sotto le ceneri del vulcano.
È fin troppo ovvio osservare come questa tecnica di guarigione finisse per affascinare Freud molto più dei sintomi del delirio e dei sogni di Norbert. Si può dire, senza paura di esagerare, che quella di Gradiva agli occhi di Freud sia un'allegoria non meno importante di quella di Edipo. Se Edipo è l'immagine più universale dell'uomo afflitto dalla nevrosi e imprigionato dai suoi sintomi, ebbene Gradiva, in questo stupendo teatro di marionette preso a prestito dalla letteratura, rappresenta tutte le virtù di colui che, seduto all'altro capo del famoso divano, tiene fra le dita il filo, fragile e prezioso, della guarigione. Scaltra, seducente, dotata di empatia a capacità intuitive, Gradiva è la santa patrona di tutti gli strizzacervelli a venire. Con l'importante differenza, però, che sia Freud che Musatti tengono molto a segnalare, che se Zoe alla fine del romanzo convola a giuste nozze con il suo stordito Hanold, non altrettanto possono fare l'analista e il suo paziente, che dovrà scegliere un reale oggetto d'amore una volta emerso dalle ceneri pompeiane della rimozione.
Chiuse le due Gradive, quella di Jensen e quella di Freud, il lettore d'oggi potrà provare un senso di malinconia, considerando quanto sia ormai diventata profonda e irreversibile la separazione fra psicoanalisi e letteratura. È come se la prima, tutta affannata a conquistarsi i suoi galloni scientifici, abbia deciso di volgere le spalle, con una buona dose di ingratitudine, a quell'inaffidabile e ciarliera sorella. È vero che moltissimi libri contemporanei di psicologia sono letteralmente infarciti di citazioni letterarie e cinematografiche. Ma le citazioni, per loro natura, sono frammenti e relitti. Vengono facilmente piegate alle finalità del discorso che le ingloba. Lampeggiano nella loro bellezza e vengono rapidamente dimenticate. Non producono mai immagini totali, capaci di segnare le svolte della conoscenza. Lo psicoanalista, sbagliando, non si sogna più di andare in cerca di nuovi Edipi e di nuove Gradive nei libri di Stephen King, o di Richard Ford, o di José Saramago. E anche la letteratura ha una buona parte della colpa. Saccheggiando da un secolo la psicologia del profondo, ha perso ogni forma di innocenza. A uno psicologo di oggi, non può che fornire l'idea di una minestra riscaldata. Mentre l'entusiasmo di Jung e Freud per Gradiva dipendeva in buona parte dal fatto che Jensen, pur essendo arrivato così vicino alle loro scoperte, non avesse mai nemmeno sfogliato L'interpretazione dei sogni.
Per cercare le sue conferme più importanti, la scienza della psiche preferisce ormai battere i più severi sentieri della statistica, della biologia, delle scienze cognitive. Si potrebbe dire che, come il giovane Hanold di Jensen aveva rimosso la sua Zoe, illudendosi di amare una statua antica, così la psicoanalisi ha rimosso il potere simbolico, la forza di persuasione della grande letteratura. Ma tutte le rimozioni, lo insegna la scienza stessa, si trasformano in sintomi ben peggiori di ciò che si sotterra. Rischiano, insomma, di trasformare in deliri anche i saperi più complessi ed accademicamente corazzati.
A version of this article originally appeared in Newsweek Japan.
He is one of the biggest-selling literary novelists in the world, and practically a deity in Japan. But American critics are still unsure about him, and often find his books strange and chaotic without explanation. Rob Verger looks at his reputation in the United States. READ MORE...
Ancora una volta Lucio Russo porta argomenti per ribaltare la ricostruzione tradizionale della storia del nostro sapere. Ne L'America dimenticata, fresco di stampa nella collana Scienza e Filosofia di Mondadori Education, difende una tesi presa in considerazione in passato, ma audace: che l'esistenza del continente americano fosse nota in epoca ellenistica. Lucio Russo è personaggio singolare nel panorama intellettuale italiano. A cavallo fra discipline diversissime, è difficile da collocare. Ma molti studiosi, tra cui sono felice di annoverarmi, hanno per lui un'ammirazione che sfiora l'adorazione. I suoi libri hanno avuto un impatto profondo; per me hanno cambiato la visione di cosa sia la scienza, la visione della storia, e hanno riorientato i miei interessi culturali.
L'America dimenticata si inserisce nella scia aperta dal corposo La rivoluzione dimenticata, vasta e coltissima valutazione della scienza ellenistica. La scienza del periodo intorno al III secolo a.e.v., quando un'aristocrazia greca controllava gran parte del medio oriente, lo splendore di Atene era tramontato, e Roma era ancora una piccola potenza marginale. Una parte impressionante di quello che noi tutti sappiamo, quello che impariamo a scuola, è conoscenza sviluppata durante questo periodo, ad Alessandria oppure da studiosi in stretto contatto con Alessandria. Qualche esempio: la geometria, modello per tutta la matematica, è opera di Alessandria. La grammatica è opera di Alessandria. L'astronomia scientifica, dalla quale deriva la scienza moderna, è alessandrina, l'idea che la Terra giri intorno al Sole è di quel periodo, la grande fisica e matematica di Archimede che calcolava integrali duemila anni prima di Newton, sono di quel periodo, la medicina scientifica e l'anatomia sono nate ad Alessandria. L'idea di istituzioni pubbliche per la ricerca scientifica, di biblioteca pubblica, di raccogliere e sviluppare il sapere universale, è alessandrina. La Bibbia, che parecchi venerano oggi nel mondo, è stata composta ad Alessandria, chiedendo a settanta dotti di accordarsi nel comporre e tradurre in greco sparsi e variegati testi religiosi ebraici antichi. L'Iliade e l'Odissea sono state compilate ad Alessandria raccogliendo i canti della tradizione di cinque secoli prima. Se conosciamo la dimensione della Terra, la distanza della Luna, la precessione degli equinozi, il fatto che il Sole è più grande della Terra, tutto questo è stato chiarito e misurato ad Alessandria. Potrei continuare a lungo, con l'ottica, la geografia, la meccanica... Il III secolo a.e.v., sul quale a scuola spesso si scivola via, è stato uno dei momenti più fulgidi per la crescita della coscienza. Russo restituisce questo straordinario periodo di luce della ragione al suo giusto posto nella storia universale del sapere.
Riesce in quest'impresa perché è fra i pochissimi intellettuali che vivono in entrambi i mondi in cui la cultura è frantumata: è un matematico di raffinata sensibilità scientifica, ma ha conoscenza vasta e approfondita di lingua e cultura greca. L'ignoranza sulla storia degli scienziati è abissale. Ho bravissimi colleghi astronomi che non sanno che duemila anni fa la Terra fosse già considerata rotonda. E l'ignoranza scientifica di molti grecisti è, se possibile, ancora peggiore. Si trovano libri che sostengono che i greci non conoscessero la trigonometria, perché Tolomeo invece di seni e coseni usa le «corde», senza capire che un seno non è altro che la metà di una «corda». Russo ha nelle sue mani entrambi gli strumenti, e combinandoli ci apre un mondo quasi dimenticato.
In Italia c'è una grande tradizione di attenzione al sapere scientifico antico. Geymonat e la sua scuola hanno saputo cogliere il senso dell'intreccio dello sviluppo della cultura scientifica e filosofica, anche se forse la reazione all'ideologia di fondo dei suoi lavori ne ha reso più difficile l'influenza. Non è un caso isolato: dagli splendidi studi sulla scienza greca di Aldo Mieli (ma anche per lui essere difensore dell'omosessualità negli anni in cui vinceva il fascismo non ha aiutato), risalendo all'indietro fino all'umanesimo coltissimo di Galileo, l'Italia è il paese dove il sapere scientifico antico ha potuto fare da sorgente alla scienza moderna. In fondo Copernico è venuto a studiare Tolomeo ed Euclide a Bologna e Padova, per poi aprire la rivoluzione scientifica moderna. Ma è stata necessaria la sensibilità scientifica di Russo per cogliere pienamente la portata storica della "rivoluzione dimenticata" di Alessandria, e il valore di questa operazione è lontano dall'essere solo storico. Il senso dell'unità del sapere, del nostro sapere, delle sue radici migliori, ne esce profondamente rafforzato.
Certo, vedere riaffiorare dall'arazzo di Russo la grandezza del pensiero razionale antico ha anche qualcosa di inquietante. Chiamiamo «seno» la funzione che Tolomeo chiamava «corda» perché «sinus» è la traduzione latina di una parola araba che translittera un termine sanscrito che traduce il greco «corda». Questo significa che sappiamo la trigonometria perché i Greci l'hanno insegnata agli Indiani, che l'hanno insegnata ai Persiani che l'hanno insegnata agli Arabi, che l'hanno riportata sul Mediterraneo. Qui, la trigonometria come il resto di quello splendido pensiero, era stata perduta. Quel mondo intelligente, capace di imparare, si è arenato, è stato travolto. Dalla brutalità delle armi. Dal fanatismo della fede. Dalla stupidità. Rischiamo lo stesso? I tre ingredienti sono intorno a noi, tra noi. La consapevolezza del rischio ci aiuti almeno un po' a difendercene.
Russo è audace. Non esita a rincorrere ipotesi ardite, e mi sono trovato a discutere alcune sue tesi con feroci filologi che ne contestavano i dettagli. Forse non tutti i particolari dell'affresco che continua a sviluppare sono corretti, ma il panorama d'insieme è troppo coerente per non essere convincente. Non c'è bisogno di essere d'accordo su tutto per apprezzarne il senso. Io non concordo con lui neppure su quale sia il miglior uso della parola "scienza": Russo riserva il nome per discipline che producono modelli matematici che prevedono il futuro; io preferisco chiamare scienza ogni attività razionale di revisione critica continua della nostra immagine del mondo. Ma Russo resta per me come per molti un maestro di pensiero e una fonte inesauribile di ispirazione. I suoi libri luccicano di passione scintillante. Leggerli è un piacere dell'intelligenza. Il suo delizioso libricino sulle maree, Flussi e riflussi, per citarne un altro, è riuscito a cambiare l'interpretazione dell'argomento di Galileo nel Dialogo sui Massimi Sistemi. Il suo nuovo libro sulla conoscenza dell'America nel mondo antico susciterà, sono certo, polemiche e reazioni vivaci. Non vedo l'ora di seguirle.
I libri di cui si parla
Lucio Russo, «L'America dimenticata. I rapporti tra le civiltà e un errore di Tolomeo» (Mondadori Università, pagg. XI-260, € 18). Dello stesso autore: «La rivoluzione dimenticata» (Feltrinelli 2001) e «Flussi e riflussi» (Feltrinelli 2003). Da ricordare: Aldo Mieli, «La scienza greca» (Libreria della Voce, 1915) e di Ludovico Geymonat (storico collaboratore della Domenica) «Storia del pensiero filosofico e scientifico» (Garzanti 1970).
L’America scoperta dai cartaginesi. Duemila anni prima di Colombo
È la straordinaria tesi di Lucio Russo
Un libro che farà discutere e che rivoluzionerà il pensiero contemporaneo
Lo storico della scienza avvalora la sua tesi con prove inconfutabili
Pietro Greco
"L’Unità", 1.7.13
I CARTAGINESI SONO STATI I PRIMI MEDITERRANEI A SBARCARE IN AMERICA. Duemila anni prima di Cristoforo Colombo. Ora ne abbiamo la prova. Matematica. L’ha trovata Lucio Russo, storico della scienza e docente di calcolo delle probabilità, nel suo nuovo libro, L’America dimenticata. I rapporti tra le civiltà e un errore di Tolomeo, appena pubblicato con Mondadori Università. Un libro che farà discutere, non solo per la novità in sé (clamorosa come uno scoop), ma anche per le implicazioni sull’idea stessa di storia che abbiamo.
Ma andiamo con ordine. Protagonisti della storia di Lucio Russo sono tre grandi scienziati dell’età ellenistica – Eratostene, Ipparco e Tolomeo – e due popoli, i cartaginesi e i romani.
Eratostene di Cirene (nato nel 275 a.C. e morto nel 195 a.C.), è stato un grande matematico dell’età ellenistica. Ha diretto la Biblioteca di Alessandria d’Egitto e ha inaugurato la geografia matematica, usando in maniera sistematica le coordinate sferiche (latitudine e la longitudine) e riuscendo a calcolare il diametro della Terra con un errore che, rispetto alla misura attestata dai geografi dei nostri giorni, è inferiore all’1%.
Il secondo protagonista della storia ricostruita da Lucio Russo è Ipparco di Nicea (nato nel 190 a.C. e morto nel 120 a.C.). Uno straordinario astronomo capace di compilare il primo catalogo delle stelle fisse (ricco di 1080 oggetti cosmici) e di scoprire la precessione degli equinozi. Ma Ipparco è anche un grande geografo. Capace di prevedere, in base allo studio delle maree, la presenza di un continente tra l’Indopacifico e l’Atlantico. Oggi sappiamo che quel continente è l’America. In realtà, dimostra Lucio Russo, Ipparco in qualche modo conosce quel continente. I cartaginesi, infatti, parlano di una serie di isole cui, lasciata la costa africana, si giunge dopo alcuni giorni di navigazione verso occidente. Quelle isole diventano note nell’antichità come «fortunate», a causa del clima particolarmente gradevole e della vegetazione, particolarmente florida. Ebbene Ipparco calcola la longitudine e la latitudine delle Isole Fortunate: e Lucio Russo dimostra che corrispondono con straordinaria precisione alle coordinate delle Piccole Antille. Inoltre Ipparco calcola la longitudine e la latitudine di un località più a Nord, cui i cartaginesi sarebbero giunti: corrispondono, ancora una volta con straordinaria precisione, alle coordinate di Tule, sulla costa orientale della Groenlandia.
Testi antichi, a iniziare da quelli di Strabone, descrivono le Isole Fortunate in un modo che corrisponde alla morfologia delle Piccole Antille. Inoltre ci sono diversi indizi che sembrano corroborare l’ipotesi di un’antica «scoperta dell’America» da parte di popolazioni mediterranee. Per esempio, in alcune località dell’America Latina gli spagnoli che sbarcano al seguito di Colombo trovano galline, animali euroasiatici. Oppure, in molte rappresentazioni di epoca romana compare l’ananas: un frutto americano sconosciuto nei tre continenti connessi (Asia, Europa e Africa).
Inoltre i cartaginesi erano padroni dell’arte della navigazione e possedevano navi che, per grandezza e qualità, erano in grado di superare l’Atlantico molto più facilmente della Nina, della Pinta e della Santa Maria. O delle piccole, ancorché agili navi dei vichinghi che hanno preceduto Colombo. Per Lucio Russo è fondata l’ipotesi che, grazie ai cartaginesi, i popoli mediterranei abbiano frequentato le Piccole Antille e, probabilmente, buona parte dell’America centrale in maniera continua e per molto tempo: probabilmente anche per cinquecento anni.
Poi, noi mediterranei, ci siamo dimenticati dell’America. Anche in questo caso Lucio Russo indica una possibile causa. La distruzione di Cartagine, tra il 146 e il 145 a. C., e l’annessione della Grecia da parte di Roma. In particolare i Romani distruggono tutti (o quasi tutti) i documenti cartaginesi, compresi quelli che riguardano la navigazione transatlantica. E, non avendo né le capacità né l’interesse per la navigazione di lungo corso, si dimenticano dell’America. In realtà le rotte verso le Isole Fortunate vengono battute anche in età romana. Ma quei viaggi sono ignorati a Roma e, ormai, quei marinai non hanno più alcun rapporto con i geografi.
È qui che interviene il terzo protagonista della storia: Claudio Tolomeo. Anche lui astronomo e matematico, grande esponente di una generazione di scienziati di cultura ellenistica ma di una fase successiva a quella di Eratostene e di Ipparco. Tolomeo, infatti, nasce intorno al 100 e muore intorno al 170 dopo Cristo. Dunque tre secoli e mezzo dopo la grande stagione in cui sono vissuti i due precedenti protagonisti. Ormai dei viaggi verso le Americhe i geografi hanno perduto memoria. In quell’epoca le isole più a occidente conosciute sono le Canarie e Tolomeo assume che siano esse le Isole Fortunate. Ma i conti non tornano rispetto alla grandezza della Terra calcolata da Eratostene e alle coordinate calcolate da Ipparco. Così, a causa del suo pregiudizio Tolomeo commette una serie di errori. Assume un’unità di misura diversa da quella usata tre secoli prima e, così, rimpicciolisce del 29% le dimensioni della Terra è sposta di 15 gradi verso est la longitudine delle Isole Fortunate, in modo che corrisponda a quella delle Canarie. Questa operazione comporta una evidente distorsione della geografia e delle carte geografiche. Ma in mancanza di interessi reali alla precisione e in forza del pregiudizio l’errore di Tolomeo si afferma. E l’America è, appunto, definitivamente dimenticata. Gli europei dovranno attendere quasi un millennio e mezzo prima di riscoprirla.
Lucio Russo, dunque, fornisce per la prima volta una prova quantitativa della scoperta dell’America avvenuta a opera di popolazioni mediterranee prima della nascita di Cristo. E ciò costituisce in sé una novità davvero importante. Di quelle che fanno riscrivere i manuali di storia in tutto il mondo.
Naturalmente, quella quantitativa di Lucio Russo dovrà essere corroborata da altre prove indipendenti. Ma è una prova di peso. E costituisce uno stimolo per nuovi programmi interdisciplinari di ricerca.
Tuttavia Lucio Russo non si limita a presentare la sua scoperta, ma ne propone un’interpretazione in chiave di «filosofia della storia». Molti studiosi sono rimasti colpiti, nel corso dei secoli, dall’evoluzione convergente delle società umane. Tra il VI e il V secolo, per esempio, in Grecia (i primi filosofi ionici), in India (Buddha) e in Cina (Confucio) viene scoperta la «potenza della ragione». O, anche, in Eurasia e Africa (diverse civiltà) come in America (i Maya) vengono realizzate una serie di innovazione e di vere e proprie scoperte singolarmente coincidenti: dall’agricoltura alla lavorazione del metallo, dalla città alla scrittura, dal gioco della palla e dei dadi al concetto e all’espressione di zero.
Ci sono due possibili interpretazioni di questi fenomeni. Il primo è che esiste una sorta di legge generale di progresso che porta in maniera deterministica le diverse società umane a tagliare certi traguardi. È quella che i biologi chiamerebbero una forma di «convergenza evolutiva».
La seconda interpretazione è che questa legge non esiste. E che le società umane tagliano i medesimi traguardi semplicemente perché sono connesse tra loro, si scambiano cultura. E, dunque, la convergenza non è affatto indipendente.
Lo sviluppo delle civiltà americane sembrava una falsificazione di questa seconda teoria. Perché se Asia, Europa e Africa possono essere considerati continenti connessi e gli scambi culturali tra le varie civiltà di questi continenti sono ormai ben documentate, quello americano è stato considerato a lungo un continente «non connesso», con uno sviluppo della civiltà del tutto indipendente.
La «nuova storia» di Lucio Russo mette in discussione tutto ciò. Perché, se non falsifica la prima ipotesi (quella della evoluzione convergente), ridà dignità scientifica alla seconda ipotesi (quella dell’evoluzione per connessione).
Un corollario di questa discussione è la scienza, della cui storia Lucio Russo è esperto. Molti sostengono che la scienza sia nata più volte in maniera indipendente: in età ellenistica nel Mediterraneo, poi in India, in Cina, nell’Islam e, infine, nell’Europa del XVII secolo. E, invece, la connessione nello spazio e nel tempo delle varie civiltà rafforza l’idea di Lucio Russo: che la scienza sia un «accidente congelato». Che sia nata una sola volta, in età ellenistica, all’epoca di Eratostene (ed Euclide e Archimede e Ipparco e molti altri) e che si sia diffusa, talvolta in maniera chiara, estesa e consapevole, talaltra in maniera ambigua, frammentaria e inconsapevole. Questa seconda ipotesi spiegherebbe perché anche la scienza in diversi paesi e in diverse fasi storiche possa essere, come l’America, scoperta e poi dimenticata.
Mancano soldi e personale. Così s'impoverisce l'Italia
Gian Antonio Stella
"Corriere della Sera", 30 giugno 2013
«Ma in quali mani si trovano, gran Dio! Perché mai il Cielo invia tali ricchezze a gente così poco in grado di apprezzarle?». La celebre invettiva lanciata nel 1776 da Alphonse de Sade davanti alle rovine di Pompei sarà stata ripetuta chissà quante volte, parola più parola meno, dai turisti bloccati dai cancelli chiusi nel «venerdì nero» dei beni culturali. Scaricare sui custodi tutta la colpa di questa figuraccia mondiale, che ha spinto l'Unesco a lanciarci un umiliante ultimatum pochi giorni dopo averci riconosciuto altri tre siti patrimonio dell'umanità, però, è troppo facile.
Certo, scegliendo di lasciar fuori dalla porta, sotto il sole, da un capo all'altro della penisola, com'era già successo al Colosseo, migliaia di turisti venuti dalle più lontane contrade perché innamorati del nostro Paese, i custodi si sono assunti pesanti responsabilità. In momenti come questo la reputazione dell'Italia dovrebbe venire prima di qualunque altra cosa. Perfino delle battaglie contrattuali giuste. Ed è francamente inaccettabile che il comunicato ufficiale di tutte le organizzazioni sindacali diffuso a Napoli per spiegare l'agitazione non contenga neppure un cenno di scuse, manco uno, verso quei visitatori bloccati a Pompei, Oplontis o Ercolano dopo essere arrivati da Vancouver o da Tokio. Non si fa così.
Detto questo, le assemblee destinate a bloccare gli ingressi dei musei il 28 giugno erano state comunicate al ministero, come prova un documento ufficiale, il 10 giugno. In questi casi, dicono i sindacati, «un ministro subito si muove, convoca, discute, ascolta, propone. Invece Massimo Bray cosa fa? Ci dà appuntamento per l'8 luglio! Quattro settimane dopo!».
Beghe contrattuali loro? No. Episodi come il «venerdì nero» dei nostri musei e dei nostri siti archeologici, infatti, finiscono per rimbalzare sui giornali di mezzo mondo. Rinsaldano antichi pregiudizi sulla inaffidabilità degli italiani. E vanno a incidere profondamente nelle tabelle che poi pesano sul nostro credito internazionale quindi anche sulla nostra economia.
Basti dire che il Country Brand Index 2013, la classifica sulla reputazione di 118 Paesi stilata dall'agenzia FutureBrand, vede il «marchio Italia» primo tra i sogni dei visitatori stranieri, primo nella tabella del patrimonio culturale, primo nella cucina. Eppure perdiamo cinque posizioni su 2012 scivolando al 15º posto. Per non dire della graduatoria Travel & Tourism del World Economic Forum sulla competitività turistica che ci vede arrancare al 26º posto.
Non basta possedere il Colosseo e Taormina, le mura di Palmanova o Selinunte: devi occupartene. Garantire trasporti, una rete web decente, alberghi e ristoranti decorosi ma non avidi, sicurezza sul fronte della piccola criminalità. Ma soprattutto devi mostrarti consapevole delle ricchezze che hai e coscienzioso nella loro gestione. E qui non ci siamo proprio.
Dal 2001 ad oggi, mentre gli altri Paesi si muovevano in direzione opposta, gli investimenti sulla cultura sono calati dal 39% al 19% del nostro Pil. E i risultati si vedono. Anche nelle carenze del personale di chi dovrebbe occuparsi dei nostri tesori. Come ha scritto Vittorio Emiliani, in tutta l'Italia «gli archeologi in organico sono 343 per oltre 700 siti archeologici e monumenti dello Stato, spesso di dimensioni imponenti, e magari in località decentrate.
Più altri 1.300 siti su cui vigilare. Non va meglio con gli storici dell'arte scesi a 453 per altrettanti musei dello Stato, più altri tremila circa su cui vigilare, centomila fra chiese e cappelle (nel Sud veri e propri musei), 734 musei ecclesiastici, ecc...». Un panorama agghiacciante, per un Paese che si vanta di avere più siti Unesco di qualunque altro.
Fatto sta che gli stranieri, davanti alle condizioni in cui versano le cascine di Tavola di Lorenzo il Magnifico o la reggia di Caserta, il castello di Cusago o la residenza borbonica di Carditello, la cittadella di Alessandria o l'anfiteatro di Paestum segato a metà dalla strada mai rimossa per non infastidire i gelatai e i mercanti di souvenir, restano allibiti.
Quanto ai custodi in carico al ministero, sono meno di 9 mila (contro un organico fissato in 12 mila), hanno in media 58 anni (dopo una giornata passata in piedi sono a pezzi), lavorano per contratto non più di 26 turni festivi all'anno, vanno in pensione senza essere reintegrati e denunciano di non ricevere da mesi la mercede concordata per gli straordinari. Risultato: dopo esser stato esteso dalle 9 alle 19 con aperture nei festivi fino a mezzanotte, l'orario rischia d'essere ridotto.
Di idee per marcare una svolta ce ne sarebbero pure. Ad esempio Gianfranco Cerasoli, storico punto di riferimento della Uil per i beni culturali, propone di far pagare almeno un euro, il costo di un caffè, a quei 20 milioni di visitatori che entrano gratis grazie alle tante esenzioni: basterebbero ad assumere duemila persone nei periodi di piena. Ma ce l'hanno, le controparti, l'elasticità necessaria?
In Sicilia l'assessore Mariarita Sgarlata, tirandosi addosso le ire dei pezzi più corporativi del sindacato, ha denunciato ad esempio l'assurdità di avere oltre 1.200 custodi di cui 484 a Palermo con vuoti da incubo nei musei e nei siti disagiati. Per non dire di certi furbetti che avendo concordato con la giunta Lombardo di fare solo 10 domeniche l'anno pagate in soldoni e non con riposi compensativi, si autogestiscono bruciando i turni nei mesi invernali coi musei vuoti per poi battere cassa per altri straordinari quando arriva l'emergenza a Pasqua e in estate.
Ecco: Pompei, come hanno scritto il New York Times o Le Monde, è la metafora di tutto questo. Cioè dell'abuso di un patrimonio immenso sprecato giorno dopo giorno per sciatteria, egoismi, cecità. Basti leggere il dossier degli inviati dell'Unesco. Scandalizzati dalla scoperta che 50 domus su 73 sono chiuse al pubblico, compresa quella dei Vettii, sbarrata per restauri dal lontano 2003. O che su terreno archeologico, come inutilmente aveva denunciato il presidente dell'osservatorio archeologico Antonio Irlando, sono stati edificati nuovi magazzini «impressionanti» mentre l'Antiquarium resta chiuso dal 1977. O che esiste una carenza «allarmante» di tecnici addetti alla manutenzione, come i mosaicisti (l'ultimo è andato in pensione il 1° aprile 2001: dodici anni fa) con il risultato che perfino il mosaico più famoso, quello del «cave canem» all'ingresso della domus del Poeta Tragico, è ormai sfigurato dall'incuria.
Come ricorda Vincenzo Esposito sul Corriere del Mezzogiorno, gli esperti dell'Unesco scrivono nel loro rapporto che «in quasi tutte le domus sono stati trovati affreschi in pericolo, mosaici a rischio e una allarmante vegetazione che invade peristili e atri. Molto preoccupanti sono giudicate le infiltrazioni d'acqua».
Il giudizio sulla ristrutturazione del teatro decisa da Marcello Fiori, il commissario della protezione civile mandato da Bondi, denunciata dal Corriere e seguita da un'inchiesta giudiziaria, è pesantissimo: «Nella prospettiva di organizzare spettacoli numerosi e grandiosi (...) il teatro ha subito una ripugnante ristrutturazione in tufo dei suoi gradini di marmo e l'installazione dietro la scena di un certo numero di baracche tipo container da cantiere...».
E torniamo ad Alphonse de Sade: «Cosa direbbero questi maestri, questi amatori delle arti belle, se bucando lo spessore delle lave che li hanno inghiottiti potessero tornare alla luce e vedere i loro capolavori affidati a mani così?».
«Non avremo più un altro giorno come questo finché vivremo», disse John F. Kennedy a Ted Sorensen, il fidato collaboratore che scriveva quasi tutti i suoi discorsi, sull’aereo che da Berlino li portava in Irlanda. Era la sera del 26 giugno 1963. Sorvolando la città del Muro, il presidente americano era ancora in uno stato di esaltazione per la straordinaria esperienza vissuta qualche ora prima. Mezzo milione di berlinesi lo aveva acclamato e applaudito come se fosse un nuovo Messia. «Sembrava il secondo avvento», avrebbe scritto Arthur Schlesinger nelle sue memorie. Era stato un delirio collettivo così estremo da preoccupare perfino il vecchio cancelliere Adenauer, il quale aveva chiesto sottovoce a Dean Rusk, il segretario di Stato americano, ricevendone un rassicurante sorriso: «Questo significa che la Germania un giorno potrebbe avere un nuovo Hitler?».
Sulla Rudolph Wilde Platz, davanti al Rathaus Schöneberg, il municipio che ospitava il Senato di Berlino Ovest da quando la città era stata divisa, Kennedy aveva pronunciato quello che sarebbe diventato il suo discorso più celebre.
Un esempio ineguagliato di eloquenza pubblica, concluso da quattro parole, pronunciate in tedesco con l’accento bostoniano: Ich bin ein Berliner, io sono un berlinese. Un capolavoro retorico, che avrebbe cambiato per sempre il vocabolario della solidarietà a un popolo minacciato. Fu una promessa d’impegno dagli effetti psicologici dirompenti su una popolazione di fatto ostaggio della minaccia totalitaria: il giovane leader del mondo libero rassicurava i berlinesi che non erano soli sulla frontiera più esposta della Guerra fredda.
Otto Schily, futuro ministro socialdemocratico dell’Interno, nel 1963 aveva trent’anni e quel giorno si arrampicò su un lampione per vedere e ascoltare il presidente americano. «Kennedy — ricorda Schily — per noi era una speranza, incarnava tutte le cose che ci affascinavano degli Stati Uniti: una figura carismatica, capace di suscitare in noi giovani le stesse emozioni che avevamo provato per James Dean. Ma la costruzione del Muro aveva provocato delusione, rabbia e risentimento verso l’Occidente che sembrava abbandonarci. Pensavamo che fosse l’inizio della fine. A Schöneberg, Kennedy seppe parlare alla nostra anima ferita. Con quella frase, ci disse che era uno di noi. Per questo lo applaudimmo in delirio».
Cinquant’anni dopo la nuova Berlino, capitale di una Germania riunificata e tornata egemone in Europa, ricorda quel passaggio cruciale della sua vicenda, con mostre, conferenze, proiezioni cinematografiche. Di più, toccherà proprio al presidente americano che più si è ricollegato alla mistica di John Kennedy dare particolare solennità alle celebrazioni: il 19 giugno, una settimana prima dell’anniversario, Barack Obama, di ritorno dal vertice del G8 in Irlanda del Nord, parlerà nella capitale tedesca insieme ad Angela Merkel.
Eppure, il caso e l’intuizione giocarono un ruolo importante in quella mattina di mezzo secolo fa. Non era esattamente quello, infatti, il discorso che i consiglieri avevano preparato per Kennedy. Nell’idea della Casa Bianca, la visita in Europa aveva lo scopo di bypassare i governi alleati e rivolgersi direttamente alle popolazioni europee, per creare consenso intorno ai negoziati con Mosca sulla non-proliferazione nucleare e allo stesso tempo dare assicurazioni sulla volontà americana di difendere i Paesi della Nato da un’eventuale aggressione sovietica. Ma l’abbraccio contagioso dei berlinesi e il clima di entusiasmo, che aveva trovato per le strade al suo arrivo in città, convinsero Kennedy a parlare a braccio e a non rispettare il copione della diplomazia, che metteva in guardia da ogni inutile provocazione verso il Cremlino. Come ha spiegato lo storico Andreas Daum nel suo Kennedy in Berlin, «il presidente sentì di dovere qualcosa alla gente di Berlino, che lo aveva accolto come un liberatore».
Così Kennedy scelse per la piazza un tono più duro, puntò l’indice contro il mondo comunista, indicò il Muro come «prova del suo fallimento», ripetendo come un mantra l’invito «che vengano a Berlino» a quanti, nel mondo, coltivavano ancora residue illusioni sulla vera natura del comunismo. Fu un rischio calcolato, vedremo più avanti la ragione, che tuttavia non mancò di allarmare il più diretto collaboratore del presidente, il consigliere per la sicurezza nazionale McGeorge Bundy. Come ci raccontò Robert Lochner, l’interprete di Kennedy in quella visita, Bundy, appena finito il discorso, si avvicinò infatti al leader americano e gli disse: «Mr President, I think you went a bit too far», signor presidente penso che lei si sia spinto un po’ troppo in là. E molto preoccupato apparve anche il borgomastro, Willy Brandt, che ascoltò Kennedy con la faccia di pietra: poche settimane dopo il futuro cancelliere aveva già in programma un discorso, che a posteriori sarà considerato come il primo mattone della Ostpolitik.
In realtà, poche ore dopo il trionfo della Rudolph Wilde Platz, Kennedy avrebbe confermato la sua «strategia della pace» in un intervento molto più misurato alla Frei Universität, dove fra le altre cose dichiarò: «Quando compaiono possibilità di riconciliazione, noi occidentali vogliamo sia chiaro che non nutriamo alcuna ostilità nei confronti di nessun popolo o sistema, a condizione che ognuno decida il proprio destino senza interferire con la libertà di scelta degli altri».
Ma la storia non ha mai registrato questo discorso. Fu la celebre frase a rimanere scolpita. E fu Kennedy in persona a pensarla, I am a citizen of Berlin, con Lochner a tradurgliela, scrivendola in stampatello in un foglietto. «Grammaticalmente corretta», insiste l’interprete, contro chi obietta che la frase avrebbe dovuto suonare Ich bin Berliner, non volendo il verbo sein, essere, alcun articolo se seguito da sostantivo. E quanto alla facile ironia, cui indulse soprattutto la stampa americana, che un Berliner, sulla Sprea, è anche un bombolone ripieno di marmellata, i berlinesi non fecero equivoci, né prima, né dopo. Capirono perfettamente e furono onorati e rassicurati di scoprire come loro concittadino d’elezione il presidente degli Stati Uniti d’America, il Paese che difendeva, con la loro, la libertà di tutti.
Ecco come dobbiamo rivalutare i fallimenti e trasformarli in momenti di vera felicità.Baricco: vi spiego perché alla fine le sconfitte aiutano a vincere
Mi scuso, ma partirei da una constatazione personale: se devo guardare alla mia vita, io non sono mai stato tanto bene come quando ho perso. Vorrei chiarire, peraltro, che sono un tipo orrendamente competitivo, mi secca perdere anche a pari e dispari, non mi diverto se non c’è un traguardo visionario da raggiungere, odio la parola “pareggio”, mi riesce più facile qualsiasi cosa se davanti ho un avversario da schiacciare, e in generale mi sveglio al mattino con il discutibile scopo di vincere qualcosa. Insomma, sono uno di quei nevrotici che invece di godersi la vita risultano inclini a interpretarla come un duello. E qui sta il fatto curioso: adoro la sconfitta. Diciamo che la adoro con cautela, senza autolesionismo, e con saggissima misura: la adoro fino a un passo prima di farmi del male, ecco. Ma certo la conosco come un’esperienza a suo modo deliziosa, e sorprendentemente vitale. Non vorrei spingermi troppo in là, ma se cerco di ricordare momenti di cristallina felicità, spesso li riconosco associati a momenti di sconfitta. Non subito, non quando la sconfitta accade: lì ho ben presente lo smarrimento, la percezione un po’ appannata del mondo circostante, la provvisoria perdita di controllo di molte facoltà estremamente utili. Lì è uno shock e basta. Ma per qualche minuto, qualche ora — magari giorni. Poi subentra quell’altro stato d’animo, di delizia pura, di leggerezza incondizionata e di libertà quasi infantile. Una volta mi è accaduto di salire sul palcoscenico di un teatro, al termine della Prima di un mio testo, e di provare la fisica sensazione della sconfitta nel boato di fischi che mi ha seppellito. Non la ricordo come una sensazione propriamente gradevole: non ricordo cosa ho fatto, né come ho trovato la via per tornare dietro le quinte. Ma molto distintamente ricordo una passeggiata un paio di giorni dopo, nel tempo vuoto di una giornata da sconfitto (nessuno ti cerca, in quelle situazioni…), me ne camminavo con una leggerezza che non conoscevo da anni, vedendo dettagli che da tempo immemorabile non notavo, immerso in una felicità che solo posso descrivere come una totale assenza di ansia, di urgenza e di rimorsi. Un giorno celeste. D’altra parte, se posso continuare con annotazioni autobiografiche, mi rendo conto di aver scritto, nei miei libri, soprattutto storie di perdenti, e questo vorrà pur dire qualcosa. Se devo essere più preciso, molti miei personaggi non sono, semplicemente, dei perdenti: sono tipi a cui interessa il duello ma non il risultato, la liturgia e non il miracolo, il cammino e non la meta. Quanto più sono tipi straordinari (e lo sono quasi sempre), tanto più sembrano disinteressati a trarre profitto dalla propria straordinarietà. Gli piace giocare la partita, ma hanno un’impercettibile ritrosia a vincerla. Evidentemente è il tipo di eroe che mi va di raccontare: geni che scompaiono per finire a pulire cessi da qualche parte, pianisti eccezionali che non scendono mai da una nave, architetti visionari che non approdano a nulla. Perfino nelle storie d’amore — che, com’è noto, sono duelli — i miei personaggi sembrano spesso metter tutto il loro talento nel coniare forme adorabili per amarsi senza riuscire a farlo. Ricordo distintamente di aver iniziato un libro, che poi sarebbe stato quello che mi ha portato al successo, con questo intento preciso: riuscire a scrivere un’immane storia d’amore in cui i due non scambiavano nemmeno una parola. Insomma, non ne farei una poetica consapevole, ma certo anche nei miei libri si ritrova la stessa aporia che ho dovuto imparare a riconoscere nella mia vita. La descriverei così: quanto più grande è la passione per la competizione, tanto più è irresistibile l’istinto a interpretare la vittoria come qualcosa di inelegante, banale, e alla fine poco produttivo. Sono un tipo strano. Ma neanche poi tanto, ho scoperto, il giorno in cui mi è finito in mano un bellissimo saggio di Wolfgang Schivelbusch. Si intitolava La cultura dei vinti. La tesi — a cui devo infinita simpatia e gratitudine — era la seguente: se si sta un attimo attenti alla Storia, quello che si impara è che spesso, all’indomani di grandi scontri militari, a risultare più vitali, forti e veloci a rimettersi in moto sono i popoli sconfitti. Nel dettaglio, il libro studia tre casi: il Sud degli Stati Uniti dopo la Guerra di Secessione, la Francia dopo Sedan e la Germania dopo la sconfitta nella Prima Guerra mondiale. Ma più ancora che quei tre casi (se ne potrebbero trovare altri, peraltro, che dimostrerebbero il contrario), mi affascinò l’intelligenza con cui Schivelbusch entrava in certi schemi mentali, o paesaggi sentimentali, tipici degli sconfitti: trovandovi il germe di una forza, e perfino di una felicità, che i vincitori si sono sempre sognati. Giuro che era piuttosto convincente. Tra le tante argomentazioni, una me la ricordo distintamente, perché dimostra come questa illogica predisposizione dell’umano a sguazzare nella sconfitta abbia radici antichissime, e nobili. Era un’osservazione che in realtà non aveva nulla di nuovo, per me: ma, con una certa cecità, non mi ero mai reso conto della sua portata simbolica. La circostanza, curiosa, è questa: se vogliamo tornare alla madre di tutte le guerre, la guerra di Troia, ecco quel che successe: i vincitori tornarono dalla guerra andando incontro a disgrazie di ogni tipo (in fondo quello a cui andò meglio fu Odisseo, che se la cavò con un ritorno un tantino complicato). In compenso, e per ragioni che francamente appaiono incomprensibili, i troiani compaiono in almeno tre miti di fondazione dall’indubbia importanza: di Enea e del suo ruolo nella fondazione della romanità si vociferava già prima di Virgilio; secondo una popolare leggenda del VI secolo, la Francia deve la sua fondazione a Francio, uno dei figli di Priamo; infine, secondo l’autorevole testimonianza di Goffredo di Monmouth, l’Inghilterra deve la sua nascita a Bruto, uno dei nipoti di Enea. Si tratta di miti di fondazione, come ho detto: ma non è curioso che tre potenze mondiali come quelle si siano andate a cercare gli antenati nella stirpe che più di tutte impersona l’esperienza della sconfitta, della disfatta, del disastro? Insomma, è una cosa che viene da lontano. E probabilmente è una cosa assai più complessa di quanto qualche bonaria annotazione autobiografica possa suggerire. Cosa nasconda non lo so, ma non è nemmeno escluso che lo comprenda a Capri, ascoltando parlare gente da cui sarà delizioso imparare. ***************** Pubblichiamo il testo che Alessandro Baricco leggerà Le Conversazioni di Capri. Il programma completo è su http://www.leconversazioni.it
Le facoltà umanistiche non hanno più appeal: immatricolazioni al minimo e cattedre ridotte all’osso. Non solo in Italia. Anche ad Harvard le aule si svuotano
Dagli Stati Uniti alla Francia, dall’Inghilterra all’Italia è in corso un esodo di massa.
La paura di non trovare lavoro spinge verso ambiti tecnici.
Negli ultimi dieci anni gli iscritti alle facoltà umanistiche
sono diminuiti del 27 per cento.
E ora è emergenza
Più che una fuga, un esodo di massa. Anzi di generazione. Addio facoltà umanistiche, non servite più, i giovani disertano le aule di Storia, di Filosofia, di Lettere, per non parlare di Sociologia. Accade negli Stati Uniti, in Francia, in Inghilterra, ma da noi, forse, è anche peggio. Immatricolazioni al minimo e cattedre ridotte all’osso: nella grande disaffezione italiana all’università, figlia dello sconforto e dello scoraggiamento, le facoltà umanistiche vivono la crisi più dura. In 10 anni gli studenti delle “aree umane” sono diminuiti del 26,8%, un abbandono diffuso e capillare, battuto di poco soltanto dalle materie di “area sociale”, dove l’emorragia nel 2013 è stata del 28,7%, nel 2003 gli iscritti erano 135mila, quest’anno soltanto 96mila. Cosa stiamo perdendo? Le nostre radici, il senso dell’esistere, l’identità, la storia, il ragionamento? Adesso sono le grandi università americane a dire che così non va, ad appellarsi agli studenti perché riscoprano i saperi classici.
Ementre in Italia l’unica voce è il silenzio, in Francia è stato lo stesso Hollande a lanciare un progetto governativo, perché i giovani riscoprano quelle facoltà, dalla storia dell’arte all’antropologia, dalla letteratura alle scienze sociali, abbandonate e considerate fabbriche di disoccupati.
Alberto Asor Rosa, critico famoso, ha a lungo insegnato Letteratura italiana all’università La Sapienza di Roma. Dice con amarezza: «Le facoltà umanistiche sono state lasciate in un tragico abbandono dai governi competenti, nel 2003 gli ordinari di Letteratura italiana alla Sapienza erano 12, oggi sono rimasti in due. Come si fa ad appassionare gli studenti verso questi corsi di studio se il messaggio che passa è che si tratta di studi residuali, di un mondo che non c’è più, sui quali non vale la pena di investire?». E la cronaca attuale, aggiunge Asor Rosa, non è altro che la conferma di questo (tragico) scenario. «Se il ministro dei Beni culturali ritiene che i direttori dei musei debbano ruotare ogni tre anni, come professionisti di terz’ordine, perché ci stupiamo se i giovani disertano la storia dell’arte ridotta a puro fenomeno merceologico?». La paura di non trovare lavoro spinge verso ambiti tecnici, sanitari, o magari porta a non iscriversi proprio all’università, come sta progressivamente accadendo nel nostro paese, dove dal 2004 le immatricolazioni sono diminuite del 20,6%, all’appello mancano 70mila ragazzi, e non è un buon segnale. Ma oggi sono quelle aule vuote nelle aree umanistiche che cominciano a fare paura. Come se all’improvviso, dopo anni di messaggi contrari, ci fosse la consapevolezza che abbandonare all’oblio la storia dell’uomo, può minare le fondamenta di una società. Ed è quello che da tempo sostiene Martha Nussbaum, filosofa americana e studiosa di civiltà antiche, nel suo ultimo libro: “Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica”. Dove rilancia con forza l’idea di una formazione degli studenti non puramente “utilitaristica”, ma anche “disinteressata”.
Andrea Lenzi, ordinario di Endocrinologia, è presidente del Cun, il Consiglio universitario nazionale, che nel febbraio scorso con un drammatico documento sulle “emergenze” degli atenei, ha fotografato l’esodo italiano dall’università. «Che l’Italia abbandoni il suo primato nell’insegnamento delle Scienze umane è uno spreco immane. Un paradosso — spiega Lenzi — visto che siamo la culla del mondo antico. Se continua così avremo domani il problema di chi sa leggere un testo latino, o dirigere un archivio o un museo». E ci sono centinaia di manager laureati in filosofia, in psicologia o lettere moderne, aggiunge Lenzi, per cui la crisi delle facoltà umanistiche arriva da due fronti: uno globale, la mancanza di risorse, l’altro di “sistema”. «Bisognerebbe insegnare ai giovani che si possono fare start up o spin off, insomma si può fare impresa anche partendo da una laurea in Storia o in Antropologia culturale. E che i saperi umanistici e scientifici, lo dico da medico, non si escludono, anzi».
Forse. Ma è lo spettro delle lauree parcheggio a terrorizzare le famiglie con figli diciottenni, freschi di maturità. Fino a sacrificarne passioni e desideri. E non soltanto per le “aree umanistiche”. Sono anche “aree sociali”, la gloriosa Sociologia italiana, ad essere attaccate dalla desertificazione degli studenti, con un calo di immatricolazioni del 28,7% superiore a quello delle facoltà umanistiche.
Un processo ineluttabile, almeno per ora, profetizza il decano di tutti i sociologi italiani, Franco Ferrarotti, classe 1926. «Il pensiero tecnico sta vincendo sul pensiero introspettivo e involontario, sarà così per i prossimi 10 anni, fino a che durerà questa crisi. Ma a medio termine, e già se ne vedono i segnali, tornerà l’esigenza di un sapere globale accanto al sapere concreto, che invecchia e diventa obsoleto in fretta. E perdere il rapporto con le origini e la Storia è addirittura pericoloso per la democrazia, ma c’è bisogno di leggere Pericle per poter difendere tutto questo».
Non solo. Per Franco Ferrarotti anche la stessa Sociologia, oggi intesa in senso riduttivo e troppo “economico”, deve riscoprire, per sopravvivere, le proprie radici filosofiche. «Il direttore di una multinazionale con sedi in tutto il mondo, deve conoscere l’antropologia culturale e le origini dei paesi che compongono l’azienda in cui lavora. Altrimenti sarà un cattivo manager. E non basta sapere, soltanto,l’inglese». E si ricollega al pensiero di Marta Nussbaum, anche Andrea Cammelli, professore di Statistica a Bologna, ma soprattutto fondatore di “Almalaurea”, la più grande bancadati sull’università italiana. «Non solo abbiamo perso il primato nelle facoltà umanistiche, ma oggi, in quest’area, i laureati americani sono il 28%, i tedeschi il 31%, e gli italiani soltanto il 22,3%. Si è troppo insistito in questi anni sull’inutilità di certe lauree, con il terrore della disoccupazione. Ma oggi — dice Cammelli — ciò che si vede dai dati, è che vince chi l’università la fa bene, seriamente, qualunque facoltà scelga. Anzi le facoltà umanistiche preparano a quel long life learning,quell’imparare per tutta la vita, che caratterizzerà le professioni del futuro. E dell’umanesimo c’è bisogno, proprio per salvare le democrazie occidentali».
In realtà ciò che preoccupa è la disaffezione verso gli studi. Un rovinoso salto all’indietro, ammonisce Cammelli. «Dietro l’esodo dall’università ci sono i figli delle famiglie più povere, basti pensare che nel nostro paese il 75% dei giovani che conseguono una triennale, sono i primi a portare una laurea in famiglia». E Cammelli conclude con un ricordo. «Carlo Azeglio Ciampi era laureato in Lettere ed è stato presidente della Banca d’Italia». C’è dunque allora un sapere globale che supera, sembra, i corsi di laurea.
E persino ad Harvard sparisce la Storia
Massimo Vincenzi
Prima i numeri, che pur parlando di studi classici, hanno (purtroppo) il loro peso. Nel 2012 ad Harvard solo il 20% degli studenti ha preso una laurea in materie umanistiche: rispetto al 1954 il calo è del 36%. La media nazionale segna un meno 7,6%. Il Wall street Journal - i calcoli variano a seconda dei parametri - sostiene che la flessione è ancora più forte, dal 1966 si sono persi per strada quasi la metà degli iscritti. E poi ancora, in ordine sparso (che non ha il pregio della scienza statistica ma rende l’idea): al Pomona College l’anno scorso gli amanti delle lettere erano 16 su 1.560, una goccia nel mare. Nel 1991 a Yale erano 165, oggi 62, nella stessa facoltà inglese e storia in quel periodo guidavano la classifica degli indirizzi più richiesti, ora devono lasciare il passo a matematica ed economia. Un rogo di libri classici, un falò alimentato dalla benzina della crisi, destinato a mangiarsi sempre più pagine.
Tanto che adesso il problema arriva al Congresso degli Stati Uniti. Dopo due anni di ricerche, una commissione dell’American Academy of Arts and Sciences, formata da 54 membri tra docenti, scrittori, intellettuali, manager, ha prodotto un lungo documento per mettere sotto pressione i politici: “Servono provvedimenti e servono in fretta prima che sia troppo tardi”. Il titolo è chiaro The heart of the matter, il cuore del problema. La tesi lo è altrettanto: “Sarebbe un errore fatale per la nostra nazione pensare che gli studi umanistici sono un lusso che non ci possiamo più permettere”.
Ed è questo il cuore del problema, quello che non si può cambiare a colpi di legge perché è il frutto di una (contro) rivoluzione culturale, che in tempi di difficoltà economiche diventa ancora più evidente. Salgono le spese per l’università, servono dai 40mila ai 70mila dollari, diminuiscono borse di studio e finanziamenti statali. I dati sull’occupazione giovanile sono cupi, anche se molto migliori di quelli europei. In America, indovinare la laurea è ancora sinonimo di maggiori possibilità di trovare un buon lavoro. Da qui la pressione dei genitori sui figli. Statistiche alla mano, è più facile guadagnarsi uno stipendio buono con una laurea in medicina o in legge che filosofeggiando. «Ma si sbagliano», dice al New York Times Richard H. Brodhead, preside della Duke University, che ha co-guidato la commissione. «Si sbagliano e di molto. Non tengono conto che moltissime delle persone che guidano il Paese, sia in politica che nella finanza, hanno alla base una solida preparazione umanistica. A partire dal presidente Obama. Questo tipo di formazione permette di allenare il cervello alla creatività, e mai come in questo periodo ce ne sarebbe bisogno». Qualche giorno fa parlando ai laureandi della Bradey’s University l’intellettuale Leon Wieseltier ha quasi gridato dal palco: «Non c’è mai stato un momento così basso nella storia degli Stati Uniti per gli studi classici e non c’è mai stato un momento in cui sarebbero così necessari».
Ma è difficile risalire la corrente. L’anno scorso il governatore della Florida, Rick Scott propone ai college del suo Stato di alzare le tasse per gli indirizzi umanistici, da antropologia a inglese. L’accusa è palese: «Non portano lavoro e dunque se uno vuole scegliere quel percorso deve pagare di più chi gli fornisce il servizio, ovvero la comunità ». La polemica diventa nazionale lui fa marcia indietro, ma intervistato in questi giorni dal Miami Herald ribadisce il suo pensiero.
La relazione prova a sfatare il tabù: “Trovare lavoro è ovvio la prima missione di una buona università, ma è proprio questo quello che fanno gli studi classici. Offrono una completezza di analisi, che altrimenti scompare”, dice Eduardo J. Padrón del Miami-Dade College, un istituto dove la maggioranza degli iscritti viene dalle classi sociali più povere e dove il calo è ancora più marcato. Oltre alle belle teorie, che in un editoriale il Washington Post definisce: “Utopie”,i professori provano a chiedere aiuto a quelli abituati a ragionare in dollari. John W. Rowe è stato presidente della società energetica Exelon, anche lui è tra i saggi e nella sua analisi il pragmatismo è la parola d’ordine. Un grafico nel report mette in evidenza un sondaggio dove si vede che il 51% dei manager considera l’educazione classica “molto importante”, quando deve scegliere un candidato per una postazione di prestigio. E il 74% di loro spinge i propri figli su questa strada.
Ma il declino non è frutto solo dei tempi cattivi. Le colpe sono anche delle università, che non sono più in grado di attirare come in passato i ragazzi. David Brooks è uno degli editorialisti più famosi del New York Times, scrittore, anche lui è tra i saggi, ma ha qualche dubbio in più rispetto ai colleghi: «È vero, il mercato del lavoro sempre più spietato ha messo all’angolo queste materie. Ma una nuova generazione di professori ha perso la capacità di affascinare con le loro materie. Per non dar fastidio a nessuno, si sono buttati sulla politica, tralasciando la morale e l’etica privata, che è più scomoda, richiede più fatica e un lavoro più profondo. E così il loro insegnamento ha smarrito il fascino che aveva invece negli anni Sessanta e Settanta».
Sotto accusa anche il sistema dei test, che omologa il pensiero. «I miei alunni sono in grado di superare con buoni risultati i vari esami, ma appena tento di fare connessioni un po’ più originali si smarriscono», osserva Verlyn Klinkeborg che insegna ad Harvard e Yale.
Sulle panchine di Washington Square i ragazzi della New York University leggono i libri al sole, le cuffie dell’i-Phone alle orecchie. Basta poco ad accendere la discussione. John, viene dal New Jersey, fa economia perché «già passerò molti anni a pagare i miei debiti scolastici, ci manca solo che finisco in qualche biblioteca sottopagato». Vicino a lui Kate, che è di New York canticchia tra le risate degli amici: «Che cosa fate con un laurea in inglese? Cosa ne sarà della mia vita? Quattro anni di college e un sacco di conoscenze, ecco cosa mi ha portato questa inutile laurea. Con quello che ho imparato non posso ancora pagare le bollette: non ho le competenze e là fuori c’è un mondo pauroso». Non è una rapper poetessa, quella che recita è una delle canzoni più famose di Avenue Q, il musical cult, che racconta le difficoltà di diventare adulti. La sfida è convincere John, Kate e gli altri che persino la filosofia può servire a pagare le bollette.
What do you do with a B.A. in English? What is my life going to be? 4 years of college, And plenty of knowledge, Have earned me this useless degree! I can’t pay the bills yet, ‘Cause I have no skills yet, The world is a big scary place! But somehow I can’t shake, The feeling I might make, A difference to the human race!
Le conseguenze etiche e l’attualità de «Il Principe» a 500 anni di distanza
Michele Ciliberto
"L’Unità", 27 giugno 2013
Va riconsiderata la generale interpretazione del Rinascimento che è arrivata fino al Novecento
La relazione del professor Ciliberto ieri all’Istituto Italiano di Cultura di Berlino Un dibattito sulla figura del pensatore fiorentino all’interno del ciclo di incontri «Tra Rinascimento e Riformazione»
MACHIAVELLI ELABORA UN SISTEMA TEORICO COMPATTO INCENTRATO SUL RAPPORTO ORGANICO TRA ANTROPOLOGIA E POLITICA; sul conflitto come principio dinamico, in questo contesto dell’agire politico; sulla funzione della legge; su una visione tragica, in ogni caso, dell’uomo, della natura e anche della politica.
Ho dunque voluto insistere sulla questione dei «limiti» attraverso cui si sviluppa la riflessione di Machiavelli per abbozzarne una interpretazione differente da quella consegnata in genere alle genealogie moderne; ma questo non toglie, ovviamente, che Machiavelli abbia una considerazione massima per la politica come forza e che se essa non si configura come tale è destinata all’insuccesso radicale. Per il Segretario fiorentino si può essere un politico di grande qualità ma essere travolti dagli avversari e dalla storia se non si dispone di una forza, cioè di armi adatte ai propri obiettivi. In questo senso è veramente esemplare la valutazione che Machiavelli da su Girolamo Savonarola, un grande personaggio ai suoi occhi, autore oltre che delle grandi prediche in San Marco anche di un testo fondamentale, ispirato a una polemica violentissima contro il tiranno, come il Trattato sul governo di Firenze.
I giudizi di Machiavelli su Savonarola sono una sorta di radiografia della sua concezione della politica, oltre che del rapporto tra politica e religione. I documenti su cui intendo concentrarmi sono essenzialmente tre: la lettera, famosa, a Ricciardo Becchi, del 1498; il giudizio su Savonarola nel I libro dei Discorsi; la valutazione sulla ragione della sconfitta del frate espressa nel III libro dello stesso testo. Tutte queste posizioni hanno in comune un punto: sono di carattere strettamente politico e riguardano il modo con cui il frate utilizza la sua forza in un momento a lui favorevole e la maniera con cui viene sconfitto in una situazione che invece gli è avversa secondo quella relazione tra virtù e fortuna alla quale si è sopra fatto riferimento. Nel primo caso Machiavelli dimostra come Savonarola utilizzando in modo spregiudicato il testo biblico, e paragonandosi implicitamente a Mosé, cerchi di guadagnarsi il popolo fiorentino quello colto e quello rozzo aizzandoli contro un nemico che sarebbe pronto, nelle sue parole, a farsi loro tiranno, ma mirando solamente a salvaguardare il proprio potere, e facendolo con successo «colorando» le proprie bugie come meglio gli conveniva.
Nel secondo caso si serve di Savonarola per mostrare la potenza della religione come forza – e sottolineo il termine: forza – genuinamente politica. Sarebbe interessante insistere su questo punto ma la stessa insistenza di Machiavelli poche pagine prima sulla figura di Numa come fondatore della potenza di Roma più dello stesso Romolo e proprio per il modo in cui aveva saputo usare la religione, è probabile che fosse stata generata proprio dal’aver visto all’opera Savonarola, concepito qui e sempre, anzitutto come grande politico.
Nel terzo caso invece Machiavelli si interroga sulle ragioni della fine di Savonarola pur continuando a riconoscergli, ed è questo l’importante, qualità di grande politico, privo però della forza necessaria per farsi valere. È spietato, ma paradigmatico e perfino didattico il paragone che in queste pagine Machiavelli stabilisce fra Savonarola e Pier Soderini: il primo grande politico privo di forza; il secondo pieno di forza ma incapace di usarla. Paragone che ci consente di scavare ulteriormente nell’argomento perché dimostra, anzi conferma, come per Machiavelli la forza a sé presa, cioè infondata, non sia in grado di conseguire successi se non è animata da una vigorosa azione politica la quale può essere tale solo quando sgorghi da una radice più profonda nella quale si intrecciano elementi civili, culturali ed anche religiosi.
Come è noto queste posizioni di Machiavelli hanno rappresentato nella cultura italiana, variamente articolate, un vero e proprio paradigma: sono state riprese, per fare qualche nome, da Giordano Bruno o da Pietro Giannone mentre sono state invece radicalmente rifiutate da Fra’ Paolo Sarpi che sostiene una concezione della politica, della religione e dei loro rapporto polarmente estranea a quella di Machiavelli.
C’è però un dato, che emerge invece in modo particolare dal rapporto con Bruno e che conferma la estraneità di Machiavelli alle tematiche ermetiche e magiche. Giordano Bruno nello Spaccio della bestia trionfante riprende molti temi di Machiavelli, come ormai è diventato ordinario sottolineare, ma li situa in un contesto in cui la magia ha un valore decisivo. Per Bruno il politico è un cacciatore d’anima, un vincolatore, un sapiente: appunto un mago; e così del resto Bruno interpretava sé stesso. Machiavelli invece espunge ogni considerazione di questo tipo dalla sua analisi della politica, della potenza, che invece è sviluppata secondo criteri rigorosamente naturalistici, di ascendenza sostanzialmente lucreziana.
A differenza di Bruno che pure riprende a larghe mani Lucrezio ma lo complica alla luce di problematiche neoplatoniche e neopitagoriche aprendosi la strada a una concezione della natura in cui la dimensione magica, sia pure concepita in termini naturali, assume valore centrale. Questa differenza non toglie, però anzi conferma la centralità del paradigma machiavelliano nella storia italiana che lo stesso Bruno svolga una concezione della religione in cui gli elementi civili di matrice machiavelliana hanno un valore essenziale.
Alla luce di quanto si è cercato finora di dire si vede come sia complessa la concezione machiavelliana della politica e come essa abbia connotati caratteristici della cultura rinascimentale, come del resto dimostra ampiamente il paradigma biologico-qualitativo che caratterizza la sua concezione del sorgere, dello svolgersi e del finire delle civiltà. Tanto più colpisce come lungo secoli moderni Machiavelli sia stato progressivamente espropriato dei suoi aspetti fondamentali e sia stato decifrato secondo criteri che appartengono al pensiero politico moderno di Bodin, di Hobbes, ma non a quello propriamente rinascimentale.
Per quanto possa apparire paradossale è stato proprio Antonio Gramsci a sottolineare con energia che l’effettivo fondatore della concezione moderna dello stato va individuato in Bodin e nei libri della repubblica, e non in Machiavelli. Osservazione ineccepibile; eppure lungo i secoli moderni la lezione di Machiavelli, confondendosi con l’esperienza della ragione di stato, è venuta diluendosi progressivamente nel machiavellismo con una perdita radicale della sua originalità e novità.
Fenomeni che si sono particolarmente accentuati soprattutto nei momenti di crisi politica e statuale quando la sua lezione è sembrata imporsi con imprevedibile forza ed attualità. Machiavelli non ha però niente in comune con il machiavellismo e neppure con l’ideologia della ragion di Stato. Quello che a noi tocca oggi fare è confrontarsi con la sua opera per quello che essa è stata ed ha voluto essere senza deformare i suoi lineamenti alla luce di vicende che con la sua esperienza umana e intellettuale hanno poco da spartire.
Ma per fare questo, ed è la mia ultima notazione, va riconsiderata la generale interpretazione del Rinascimento che è arrivata fino al Novecento e che ora va rimessa in discussione fin dalle fondamenta. Simul stabunt, simul cadent.