Angelo Guglielmi
"L’Unità", 21 maggio 2013
DI «MANDAMI TANTA VITA» DI PAOLO DI PAOLO SU QUESTI GIORNALE È GIÀ STATO AUTOREVOLMENTE SCRITTO. A me rimane una riflessione più minuta su alcuni aspetti meritevoli di un approfondimento.
Tra i meriti del romanzo è la scrittura che non è come si crede qualcosa di estraneo ai contenuti, qualcosa di separato, una seconda realtà che serve a evidenziare la prima. I contenuti pur se drammatici e tragici sono intercambiabili e indifferenti. È la scrittura a fissarli in un volto, a dar loro realtà di natura e senso. Così nel romanzo di Di Paolo, se il filo principale è il racconto dell’eroismo intellettuale e il martirio di Gobetti vittima della violenza fascista, i riferimenti alle aggressioni e i pestaggi delle bande nere occupano uno spazio limitato (due o tre pagine in tutto) a valore più che espressivo di documentazione.
È il romanzo che è per intero dominato da una idea di violenza, in quanto racconto dell’impossibilità di crescere negli anni venti (del secolo scorso) nello specifico a Torino per un giovane non ancora ventenne, nel quale il possibile ostacolo delle timidezze e le altre difficoltà personali (così spesso presenti in un giovane) trovava un definitivo rafforzamento e inevitabilità nel clima persecutorio e antilibertario della cultura (e regime) fascista.
In realtà il romanzo racconta due vite parallele: quella di Piero Gobetti, la sua precocità intellettuale e la morte a soli ventiquattro anni a Parigi dove ha trovato riparo dopo che un decreto della polizia politica ha sequestrato e chiuso le due riviste da lui fondate impegnate in una clamorosa campagna di denuncia e di opposizione (culturale e politica) contro il regime le sue idee e le sue malefatte; e quella del giovane Moraldo coetaneo di Piero Gobetti ( in cui non è difficile identificare la condizione di tanti giovani di talento del tempo) che non riesce a trovare il bandolo della sua vita segnata da continui fallimenti (progettuali e sentimentali ) non tutti riferibili al suo temperamento indeciso e insicurezza esistenziale. In qualunque situazione si trovi (pur ricca di sforzi e di volontà) ha l’impressione di stringere sempre «un pugno di mosche»
Di fronte alla prima delle due vicende, quella di Piero Gobetti, il lettore non ha bisogno di scegliere (né di convincersi) per esaltarsi di fronte allo spettacolo della sua straordinaria intelligenza, già matura e adulta a diciassette anni, alla sue illuminazioni di pensiero («Spezzare il movimento operaio oggi vale distruggere l’unica realtà ideale e religiosa d’Italia») alla sua modernità di sguardo, insofferente a ogni sopruso e violenza diventati nel fascismo metodo e prassi di governo. Non ha bisogno di scegliere per commuoversi davanti allo strazio della sua morte a solo ventiquattro anni in esilio (da lui ideologicamente condannato) lontano da Torino, dalla amatissima moglie Ada e dal figlio appena nato nei quali nei momenti di maggiore solitudine gli sembrava di vedere tutto il «riuscito» di cui era stato capace.
UN’INATTESA MODERNITÀ
Ma è la vicenda di Morando che comunica al lettore (qui senza aiuti) con più evidenza il significato del romanzo. A sorprenderlo non sono tanto i tentennamenti e le incertezze che impediscono al giovane studente sceso a Torino dalla provincia di dare una direzione di consapevolezza alla sua vita quanto la meccanica (non mi viene al momento altro nome) della sua davvero straordinaria storia d’amore con l’indecifrabile Carlotta conosciuta per uno scambio di valigie). È una storia di una inattesa modernità, anzi direi attualità, che si sviluppa in una serie di impossibilità insuperabili (e dunque ostruttive) anche di fronte a situazioni di favore. Si tratta di ostacoli cui è difficile dare un nome e comprenderne le motivazioni non basta la non intraprendenza di Moraldo né la svogliatezza e la mancanza di slancio di Carlotta, è qualcosa di indicibile e pure comprensibile, è quel modo di essere della cultura novecentesca che trova la speranza e il futuro solo in quello che non può fare (nel suo fallimento). In questo senso davvero straordinaria è la parentesi parigina di Moraldo e Carlotta che proprio nel momento in cui il loro rapporto realizza la più intensa felicità e sembra definitiva intesa trova la rinuncia e il fallimento. (E non c’è bisogno di riflettere più di tanto per scoprire che il destino di Piero ha seguito lo stesso andamento )...
MORALDO E PIERO A PARIGI
A proposito di Parigi aggiungo che invece meno riuscito mi pare il racconto degli ultimi venti giorni parigini di Piero dove la lontananza dalla sua fervida attività torinese, la solitudine e il peggioramento della sua malattia sono risolte dall’autore con le risorse del mestiere più che sulla spinta di una invenzione stilistica. E anche artificioso e di convenienza mi pare l’incontro dei due giovani, Moraldo e Piero a Parigi sulla panchina de giardini di Lussemburgo. Sembra un modo comodo e ingenuo di chiudere il cerchio.
Notevole è invece il risultato quando l’autore è alle prese con impegni assolutamente descrittivi. Davvero felice è la sua capacità di restituire l’atmosfera della Torino (degli anni venti del secolo scorso) che riesce a conservare la sua severa dignità anche quando scompare nella nebbia (mentre il disordine e l’allegria delle manifestazioni carnevalesche trovano protezione e risarcimento nella massiva autorità delle mura del Lingotto).
Dunque un romanzo interessante questo del giovane Di Paolo il quale tuttavia avrebbe fatto meglio a evitare (non è necessario essere à la page) nel rievocare la vicenda di Piero Gobetti di indugiare in ammiccamenti posticci alla nostra politica presente.
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