domenica 5 maggio 2013

Ogni volta che muore Atahualpa

Ascesa e caduta dell’ultimo imperatore inca: 
dal nuovo libro del nostro inviato sparito in Siria, dedicato ai vinti della storia


Domenico Quirico


"La Stampa",  5 maggio 2013


Vittima di Pizarro Atahualpa è stato il 13° e ultimo imperatore degli Inca, prima della conquista spagnola. Regnò dal 1532 al 1533, quando venne messo a morte (nella stampa qui sopra) per volontà del conquistador Francisco Pizarro, che lo aveva vinto in battaglia e fatto prigioniero. Fino all’ultimo rifiutò la possibilità di avere salva la vita, in cambio della conversione al cattolicesimo


«Aspettami, Giulietta, e io tornerò, ad onta di tutte le morti». È un appello alla pazienza della moglie - e insieme una promessa che in questo momento vogliamo intendere come fatta a tutti noi, i suoi colleghi e i suoi lettori - la dedica del nuovo libro di Domenico Quirico, il nostro inviato inghiottito quasi quattro settimane fa nel gorgo oscuro della Siria. Si intitola Gli ultimi (lo pubblica proprio in questi giorni Neri Pozza, pp. 238), e racconta «la magnifica storia dei vinti» di tutti i tempi, visti come Liquidatori che chiudono un’epoca per aprirne una nuova: da Dario (il Gran re persiano umiliato da Alessandro) a Romolo Augustolo, da Pu Yi (l’ultimo imperatore cinese) a Gorbaciov, a Rasputin, a Carlo d’Asburgo, a Atatürk, al generale Salan, fino a Benedetto XVI «andato avanti otto anni con periodi di paura, di stanchezza, con una timida leggerezza di cuore». Un capitolo è dedicato a Atahualpa, l’ultimo imperatore inca, vittima di Pizarro. Ne proponiamo un assaggio, in attesa di tornare a leggere i reportage di Domenico dalla Siria.

Il primo a sperimentare il baratro abissale che c’è tra la propria etica e quella degli altri, dei Nuovi, dei vincitori
Vide il vero volto dei secoli che verranno, odio e bugie, guardò negli occhi di Medusa
Non poteva uscirne vivo

Atahualpa: come facciamo a dargli un volto? Potrà mai somigliare davvero alla faccia gonfia, dissennata, infelice dell’uomo nudo che un gruppo di carnefici di membratura immane e di forza orrenda garrotano, tenendolo immobilizzato su una sedia, in uno sfondo da palazzo di Gustav Doré; mentre eleganti hidalgo guardano un po’ annoiati? Nella incisione spagnola si intravede, forse involontariamente, è lo sguardo della vittima a dirlo, che a un certo grado di strazio si giunge alla alienazione di se medesimi: così che il tormento perpetrato nelle fibre della carne non può eccitare null’altro che una sorta di curiosità. 
Forse il suo aspetto si avvicinava a quello dei faraoni egizi, sottili pallidi giganti dal petto a triangolo e sottanine da ballerina, la mandorla dell’occhio enorme, lo sguardo conficcato oltre le grigie frontiere del sordo aldilà anche da vivi, a rivendicare, non senza una vena di attonito olimpico dolore, la profanazione che la maestà della loro memoria subisce. Non abbiamo, purtroppo, statue che lo rappresentino, e la scultura, sappiamo, è la risposta dell’uomo alla invocazione della materia a essere richiamata dalla morte alla vita. 
Fra benedizioni e reticenze, farneticazioni, inganni, dileggi, stupri tutti santificati dal barbaro crocifisso di fra Vincenzo (è vindicta iustissimam che Dio accorda ai suoi sgherri, incalza questo capodopera della Vera Fede con gioia violenta e quasi ebbra; o Frater, rammenti mai di essere cristiano?), si disegna in lui la curva scientifica di una agonia. È lui il Buon Selvaggio al tramonto che affoga in una pozzanghera, impero monolitico smontato da centosessanta poveracci sopravvissuti a tutte le osterie di Salamanca e alle stive puzzolenti del re cristianissimo. E la sua voce di stridulo profeta, le sue invocazioni di pietà inascoltate, non soltanto delle antiche guerre sporche che ci parlano, con quegli odori di sangue e di rapina e i primitivi strumenti di morte, ma sono exordium di quella, nuova e grande e sudicissima, a cui ci incamminiamo noi tutti, conquistadores di Occidente, verso il termine della notte. Le sue mani di impotente parente del Sole trapiantato sulla terra, dalle viscere della Storia non sapranno estrarre per noi che demoni da ripetere mille, diecimila volte. 
La sua tragedia di Inca denudato e ucciso in modo così platealmente sleale da gettare anche tra gli assassini il disgusto di sé e un seme di dubbio, ahime!, avvizzito sotto tonnellate di oro e di argento, è nel passaggio, troppo rapido e repentino, dall’onnipotenza al Nulla: Liquidatore non per esaurimento vitale o stupidità, ma per ingenua innocenza, il primo forse ad aver sperimentato il baratro abissale e incolmabile che esiste tra la propria etica e quella degli altri, dei Nuovi, dei vincitori, dei padroni di vele e cannoni. 
Quante altre volte è morto Atahualpa in una manata appena di secoli? Nella Città proibita con i suoi diecimila anni di civiltà profanati dai cannoni feroci di una delle primissime Alleanze occidentali contro il terrorismo. Nella regina degli ashanti trascinata a leccare gli stivali del soperchiatore britannico; nelle capitali di tante altre fragili civiltà: chi ricorda i nomi del Buganda, degli zulu, del bey d’Egitto e di quello tunisino a cui costò caro un ventaglio, del moghul neghittoso (o semplicemente stanco) nei saloni del suo palazzo color porpora? Dove sono scritti questi nomi, e il tuo, Atahualpa, nelle nostre Storie? Tutto quanto è appartenuto a quei tempi, è adesso lontano come la parola di una storia annosa, di una fiaba antica. Sarà per questo in agonia fino alla fine dei secoli, combattuto, struggente martire di una paura, di un presagio. Paura di sé, del tradimento del proprio dio che gli morde lo stomaco, del peccato oscuro che sente crescere attorno: sì, la paura di dio. 
Atahualpa poteva sommergere con il semplice peso fisico dei suoi popoli quei centosessanta uomini vestiti di ferro. No, non è il fracasso di un archibugio o il galoppo di un cavallo (li ferrarono di argento, quella troupe che gonfiava le gote nella tuba Christi!), a spaventarlo; o quel crocefisso che gli agitano davanti agli occhi promettendogli salvezza se si sveste dalla sua pelle di Dio. È il non capire che lo vince, lo atterra, lo uccide. Può trionfare senza incomodi e perde, il suo essere l’Ultimo della storia del suo popolo è scritto nel destino, non nei suoi errori. Dunque a che scopo battersi? Cartapecora sopravvissuta al tempo, riassume sotto il borla imperiale la condannata grandezza di altre epoche, il ricordo di una antica civiltà. Non lo sa, ma gli uomini che gli stanno davanti arrivano armati di un Tempo diverso, con regole oggetti astuzie che lui ignora. È un padre sotto i cui occhi pieni di un sonno già simile quasi alla morte, le generazioni dei suoi figli ballano l’ultima danza, sillabano l’ultima preghiera, innalzano l’ultimo palazzo. Aspettando di stramazzare in una miniera, nel Potosì, a estrarre le avvelenate «lacrime di dio», l’argento per il vincitore. 
Atahualpa ha visto il vero volto dei secoli che verranno, odio e bugie, ha guardato negli occhi della Gorgone. Non poteva uscirne vivo. È un terribile privilegio che toccherà solo a noi, mitridizzati da secoli di ben più industriali massacri. [...] 
Eppure nella primavera del 1532, pochi mesi prima dello sbarco degli spagnoli a Tumbes, Atahualpa ha festeggiato la vittoria. A poche leghe da Cuzco i suoi generali hanno disfatto l’armata del fratello Huascar che possiede per decisione del padre, il grande Huayna Capac, metà dell’impero del sole. [...] 
A Cajamarca dove Atahualpa ha atteso le notizie della guerra, tutto il popolo accorre a festeggiarlo: ora ilborla scarlatto, diadema dell’Inca è suo. Ha conquistato la capitale del rivale, si è rivelato guerriero ambizioso e intraprendente, sgominato i generali nemici ai limiti del Chimborazo dopo una battaglia durata un giorno intero. Ha espugnato la arrogante Tunibamba che ha osato chiudergli le porte; ha raso al suolo in quel ricetto di ribelli tutti i palazzi che suo padre aveva costruito (che importa? altri ne sorgeranno, questo sarà un altro segno della sua potenza); attraversato il tumultuoso Apurimac, riempito di cadaveri la pianura di Guipayan rintuzzando la molestia e l’insolenza di quei malviventi, e le ossa le ha lasciate lì come terribile monumento della sua potenza. Atahualpa è dunque un vincitore, «carnali potentia tumidus» si è seduto sul trono celeste e quindi è certo di aver ricevuto pulsioni soprannaturali. 
Chi potrebbe attribuire questo nome al suo nemico Pizarro, analfabeta e guardiano di porci, che marcia e combatte a piedi non per umiltà, ma perché sta male, da goffo, a cavallo, malaccorto cacciatore di tesori che da decine di spedizioni nel Darien, con Balboa, ha tratto modesta gloria di predone, un po’ di terra malsana e un repartimiento di schiavi moribondi di sifilide e di fame? Girava a casaccio quello spagnolo davvero non «sine macula et ruga» partito da Panama nel Nuovo Oceano, sbarcando qua e là per cercare un po’ di cibo per ciurme che morivano di fame: Puerto de Hambre, porto della fame ha battezzato la località dove aveva mostrato, per la prima volta, ai suoi uomini i monili d’oro che gli abitanti caritatevoli che li avevano sfamati portavano addosso: «Non era dunque la buona strada, come vedete? L’oro c’è, a montagne, come in Messico, più che in Messico. Andiamo avanti…».

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