Ma dobbiamo imparare a convivere con il caso
Non c'è ordine prevedibile nel cosmo Eppure orientarsi rimane possibile
Chiara Lalli
"Corriere della Sera - La Lettura", 19 maggio 2013
«Alea jacta est»: così s'intitola il capitolo zero del nuovo libro di Brian Clegg, Dice World. Science and Life in a Random Universe (Icon Books). Ed è proprio dai dadi, presenti sia nella frase attribuita a Giulio Cesare sia nel titolo del suo libro, che Clegg parte per condurci nel «caotico» mondo in cui viviamo, per indicarci le trappole in cui facilmente cadiamo e in cui qualche volta vogliamo cadere, perché ci sembra più rassicurante ipotizzare schemi inesistenti piuttosto che convivere con il peso del caso. Non che non vi siano strumenti per diradare la nebbia, come la statistica e il calcolo delle probabilità, ma sono strumenti difficili da maneggiare e spesso la nostra inettitudine pesa sulla valutazione del rischio. La cosiddetta fallacia del giocatore non ci inganna solo quando lanciamo una moneta o puntiamo sul 19 rosso, ma in ogni scommessa che facciamo, in ogni decisione che prendiamo. Non sono solo le nostre speranze — di vincere, di realizzare i desideri — a confondere il panorama: è facile scambiare una correlazione per la dimostrazione di un nesso causale. È facile lasciarsi sedurre da schemi ordinati e diventa sempre più difficile orientarsi nella complessità del mondo, considerando che, mentre noi siamo rimasti più o meno uguali a migliaia di anni fa, intorno a noi ci sono realtà inimmaginabili anche un paio di secoli fa.
Clegg si sofferma sul valore simbolico dei dadi: non costituiscono un modello del mondo reale, ma sono metafore che ci ricordano l'indifferenza della natura per i nostri desideri. Possiamo sperare con tutte le forze che esca un 6, possiamo invocare qualsiasi divinità o forza superiore, promettere in cambio della realizzazione della nostra richiesta sacrifici e impegni, ma il dado non è interessato, e ciò per noi è frustrante e spaventoso. È forse la frustrazione nel constatare come il mondo sia fuori dal nostro controllo l'aspetto più potente nella celebre affermazione di Albert Einstein: «Dio non gioca a dadi».
Le nostre convinzioni rassicuranti e l'idea meccanicistica di un ordine prevedibile sono sostituite dalla consapevolezza che davanti a noi spesso non abbiamo che imprevedibili possibilità. L'orologiaio non è solo cieco, parafrasando il titolo di un celebre libro di Richard Dawkins, ma è disinteressato al nostro destino.
Alea jacta est illustra bene anche l'irreversibilità, un gesto che simboleggia un punto di non ritorno. La metafora è potente. Lancio i dadi, non li controllo, non posso rendere le conseguenze, e lo stesso lancio, reversibili.
Clegg ricorda un romanzo di Luke Rhinehart, The Dice Man, in cui il protagonista rinuncia a prendere decisioni e si affida al lancio dei dadi, come fosse un'estrema reazione alla paura di dismettere un mondo teleologico. Un conto è rendersi conto della casualità, commenta Clegg, un altro rinunciare alla possibilità di prendere decisioni razionali. La casualità è il cuore pulsante dell'universo e noi dobbiamo imparare ad ascoltarlo. Così come dobbiamo imparare a usare i modelli, che ci servono perché sarebbe uno spreco enorme di energia non farvi ricorso. Siamo in grado di orientarci anche in assenza di moltissime informazioni. Non solo quando dobbiamo distinguere un pericolo da un incontro amichevole e formulare il conseguente comando: tigre/scappa, amico/salutalo. Un esempio banale e affascinante è come riusciamo a leggere un testo anche con parti di lettere mancanti o con i caratteri distorti: come quando un sito ci chiede di digitare correttamente quelle lettere e numeri storpiati (captcha) per dimostrare che non siamo software programmati magari per infestare di spam il web.
È fondamentale avere quest'abilità, perché quasi sempre ci manca buona parte delle informazioni necessarie, ma il risvolto negativo è che spesso immaginiamo modelli dove non ci sono. Oppure fatichiamo ad abbandonare quelli sbagliati: succede anche con le ipotesi scientifiche. Ci affezioniamo a un modello esplicativo e, anche se ci sarebbero sufficienti evidenze per scartarlo, non ne vogliamo sapere. Questo è il momento in cui la scienza si tramuta in superstizione.
Se già è un rompicapo quando le regole del gioco, pur complesse, ci sono e sono intellegibili, la faccenda si complica quando sono assenti. Davanti a un disastro o a una malattia, per esempio. «Perché proprio io?». Abbiamo bisogno di una spiegazione, tuttavia la ragione non c'è, pur essendoci ovviamente una causa. Ma non è il genere di causa di cui avremmo bisogno. È insopportabile pensare che sia successo a noi come mero risultato probabilistico, come quando mettiamo in modalità shuffle la nostra playing list e arriva la canzone che ci fa struggere: «Perché?». La risposta è: per caso, ma spesso ipotizziamo ben altri motivi. È proprio in questa assenza di risposta che si insinuano varie soluzioni consolatorie e sbagliate.
S'intitola «Dice World. Science and Life in a Random Universe» («Il mondo come i dadi. Scienza e vita in un universo casuale») il nuovo libro dello studioso britannico Brian Clegg, uscito in aprile per l'editore Icon Books (pagine 288). Nel saggio l'autore sostiene che il cosmo non assomiglia agli ingranaggi di un orologio, come un tempo si credeva, ma è in larga misura condizionato da fattori imprevedibili. Clegg, nato nel 1955, è noto per i suoi libri dedicati alla divulgazione scientifica: i più recenti sono «Gravity» (St. Martin's Press, 2012) e «The Universe Inside You» («L'universo dentro di te», Icon Books, 2012). In italiano è stato tradotto solo «Volando si impara» (Zanichelli, 2012). Due classici testi scientifici sul tema della casualità sono «Il caso e la necessità» di Jean Monod (Mondadori, 1970) e «L'orologiaio cieco» di Richard Dawkins (Rizzoli, 1988). Il romanzo di Luke Rhinehart «The Dice Man» (1971) uscì da Rizzoli nel 1973 con il titolo «L'uomo dado» (traduzione di Marina Valente). Nel 2010 è stato riproposto con il titolo «L'uomo dei dadi» dall'editore Marcos y Marcos, nella stessa traduzione e con prefazione di Marco Malvaldi.
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