Roberto Casati
"Domenica - Sole 24 ore", 12 maggio 2013
Il colonialismo digitale è un'ideologia che si riassume in un semplice principio, un condizionale. Si può, quindi tu devi. Se è possibile che una certa cosa o attività migri verso il digitale, allora deve migrare. I coloni digitali si adoperano per introdurre le nuove tecnologie in ogni settore della vita delle persone, dalla lettura al gioco, dal supporto alla decisione all'insegnamento, dalla comunicazione alla pianificazione, dalla costruzione di oggetti all'analisi medica; la tesi colonialista è data per scontata dai coloni, che ne apprezzano la semplicità: è assolutamente generale, dato che si applica a qualsiasi cosa o attività in modo indifferenziato. Facile da ricordare, difficile da contrastare. Chi si oppone al colono digitale viene rapidamente incasellato nella categoria dei luddisti, dei distruttori di macchine, di quelli che non sanno stare al passo con i tempi. Il dibattito, secondo i coloni, non dovrebbe neanche iniziare.
In realtà, negare una tesi condizionale è prendere una posizione più debole, negoziale. Chi si oppone al colonialismo non per questo dice che le cose e le attività non digitali non devono mai compiere la migrazione digitale. Invoca il principio di precauzione; dice semplicemente che la migrazione non è un obbligo che discenderebbe dalla semplice possibilità della migrazione; e che deve essere accompagnata, perché tende a essere troppo invadente. Non basta mostrare un libro elettronico che funziona per imporre il libro elettronico.
L'anticolonialista ha quindi tutti i diritti di rivendicare un atteggiamento positivo e costruttivo: la legittimità della migrazione dev'essere valutata caso per caso. In alcuni casi la digitalizzazione ha liberato, in altri no; e lo sappiamo già. A un estremo sappiamo che la fotografia si è affrancata ed è diventata, grazie al digitale, quello che avrebbe dovuto essere da sempre, un modo di prendere appunti visivi. A un altro estremo, sappiamo che il voto elettronico, e in particolare il voto online, presenta dei rischi imparabili di controllo sociale e manipolazione, e dovrebbe essere bandito per sempre dalle istituzioni democratiche. Ma entro questi estremi c'è uno spazio negoziale molto ampio in cui i casi particolari meritano una discussione; discussione che è del tutto assente e quando c'è viene mortificata dalla ripetizione ossessiva del mantra colonialista. La geolocalizzazione crea enormi possibilità ma queste non si accompagnano a enormi rischi per la sicurezza individuale? La condivisione immediata e senza riflessione della propria vita privata gratifica ma non espone i cittadini a forme sottili di aggressione commerciale e politica? L'educazione può trarre giovamento dalle nuove tecnologie o distrugge il capitale di tempo e di attenzione strutturata che la scuola dovrebbe invece faticosamente proteggere? Le nostre scelte individuali non sono sempre più condizionate da quanto ci propongono degli algoritmi? Il semplice fatto che queste domande possano essere sollevate indica che non si accetta l'ideologia colonialista; non certo che non si accetta il digitale. Non essere colonialisti non significa essere luddisti.
I coloni e i colonialisti che offrono loro una sponda intellettuale hanno pronta una batteria di risposte a chi nega il «si può, quindi devi»; la ridda vorrebbe frastornarci ma dovrebbe venir vista per quello che è, un tentativo di parare con la quantità degli argomenti l'assenza di qualità degli stessi. Nell'ordine: le nuove tecnologie avrebbero poteri quasi magici per risolvere vecchi problemi sociali, in primis politica (M5S, ma anche Diebold) ed educazione (Prensky, Ferri); sono divertenti in sé e comunque più divertenti dei loro antenati (Google Mail); creano prodotto interno lordo e occupazione (ex-ministro Profumo); permettono misure oggettive dei risultati (Commissione europea); fanno tutti così, e chi sei tu per opporti (amici e colleghi che deplorano la vostra assenza da Facebook); e, ultima spiaggia, funzionano benissimo, nel senso che abbiamo riparato tutti i bug. Post-ultima spiaggia, se poi non funzionano, possiamo sempre trovare il modo di ripararle. La hybris non risparmia il lessico: vengono coniati termini come «multitasking» e «nativo digitale» che danno un'aura di scientificità agli argomenti.
Non basta quindi lavorare caso per caso, ma su ogni caso si devono soppesare questi molti e diversi argomenti. Prendiamo, tanto per fare un esempio, la scuola, e mettiamo da parte il «si può, quindi devi». Quali ragioni ci sono per introdurre le nuove tecnologie nella scuola? Non certo e non più il bisogno di colmare il digital divide: i ragazzi hanno più tecnologia a casa di quanta la scuola possa mai averne. Ma quale ragione, allora? La ridda riparte: «Ci sono delle attività educative incredibili che puoi fare con il computer; i ragazzi d'oggi sono così e bisogna adattarsi alla loro forma mentis; dobbiamo dare un accesso totale all'informazione totale; ha funzionato benissimo nel settore bancario, perché non deve funzionare nella scuola?». Ma sono argomenti ideologici. Bisognerebbe chiedere se esistono dei dati per giustificare gli investimenti in tecnologia. Per esempio dei dati sul rendimento scolastico. Certamente questi dati non c'erano (per definizione!) nel momento in cui le tecnologie sono state introdotte: la loro introduzione era un esperimento alla cieca, che la dice lunga sulla qualità delle decisioni pubbliche.
Uno studio recente di Marco Gui del l'Università di Milano Bicocca fa il punto su un esempio tra i tanti, il rapporto tra la frequenza d'uso dei media digitali e i livelli di apprendimento, andando a scavare nei dati del sesto volume del rapporto Pisa Ocse 2011, che coprono una popolazione di 450mila studenti quindicenni da 65 Paesi. L'analisi di Gui è quantomai interessante: le nuove tecnologie si associano positivamente all'apprendimento fintantoché se ne fa un uso modico. Non appena le tecnologie diventano invasive e colonizzano il tempo, il rendimento scende, a livelli inferiori a quelli che si hanno senza tecnologie. Vale la pena di fare un'osservazione metodologica: si tratta di associazioni e non di rapporti direttamente causali, per il momento, dato che l'identificazione di questi ultimi necessiterebbe di studi sperimentali. Tuttavia è più che abbastanza per farci venire il sospetto (il rapporto Pisa vede gli stessi dati, ma è più elusivo sulle conclusioni). Gli unici vantaggi (minimi) si hanno per quella che il rapporto Pisa chiama subdolamente «lettura digitale», un altro dei termini dalla semantica dubbia che fanno la gioia dei colonialisti, e che io renderei piuttosto con «spippolamento». A guardare da vicino, la «lettura digitale» è l'abilità di andare in giro per ipertesti, fare copia e incolla, cliccare per dire «mi piace» e cose simili. Ci sarebbe da stupirsi se almeno queste "competenze" non migliorassero almeno un po' con un uso accanito del computer, e comunque a usarlo troppo anche queste regrediscono! Ma il punto principale è che le altre competenze, ben più serie: lettura, matematica e scienze, ne soffrono.
Da Contro il colonialismo digitale. Istruzioni per continuare a leggere, di Roberto Casati (Ed. Laterza).
In questo breve saggio ho cercato di mostrare come si possa scegliere in modo utile tra percorsi che catturano l’attenzione e percorsi che la proteggono, in particolare sottolineando le potenzialità dei sistemi educativi tradizionali, inerti e low-tech, in un paesaggio sociale in cui la tecnologia, al servizio di colossali catene commerciali di distribuzione, colonizza la vita e conquista facilmente il tesoro dell’attenzione dei discenti. La tecnologia entra a gamba tesa nelle pratiche e nelle tradizioni; non c’è nulla di intrinsecamente buono o cattivo in questo; dipende dalla qualità delle tradizioni, e dipende dalla terra promessa. Ho parlato del libro, e di come abbia un certo numero di vantaggi cognitivi e sociali, a volte sorprendenti proprio perché vengono invece descritti come dei limiti (il fatto di essere lineare, di non essere ipertestuale, di presentare informazioni nel formato una-pagina-alla-volta, di essere un oggetto di scambio sociale, di essere fisicamente pesante, di occupare spazio, e di non informare l’editore sulle nostre abitudini di lettura). Che il libro di carta rischi di diventare commercialmente obsoleto non significa che sia obsoleto cognitivamente. Anche il disincanto epistemologico che creano le nuove tecnologie – tuttele tecnologie, quando sono nuove – non è né buono né cattivo in sé. La fotografia è stata liberata; il libro purtroppo no, e per questo, ho sostenuto, va protetto istituzionalmente. Non tanto immaginando economie protezionistiche, quanto studiando dei modi per dare valore alle specificità della lettura (la settimana o il mese della lettura, la creazione di spazi privati temporanei nelle biblioteche, il prestito massiccio, le etichette annotabili). Se la lettura ci è stata rubata, la nostra autodifesa deve essere attiva.
Parlare del libro a scuola ci ha permesso di parlare della scuola e del suo rapporto con la novità tecnologica. Ho parlato a lungo dell’iPad, di un modello specifico di innovazione, perché ha catturato l’immaginazione dei guru della comunicazione e di ministri affrettati, facendo dimenticare che non è semplicemente un computer molto ergonomico, ma l’ultimo anello, il più importante, di un’enorme e potentissima catena commerciale. Penso che dovremmo pensarci su due e anche tre volte prima di introdurre massicciamente nella scuola una vetrina. Se ci interessano i tablet, rivolgiamoci a produttori che si limitano a fornire l’hardware e imponiamo delle condizioni sulla presenza di software aperti, sulla possibilità di disattivare le connessioni alla rete. Ho suggerito che si possano e si debbano cercare nei contesti educativi delle occasioni per sottrarre alle nuove tecnologie l’aura di normatività automatica: riciclandole, usandole in modo diverso da quello immaginato dai loro progettisti e produttori (i sistemi a bassa tecnologia per il tutoraggio a distanza con gli sms, il riciclaggio dei blog per assistere l’insegnamento, l’invito a scrivere su Wikipedia e non solo a consultarla o copia-incollarla), liberandole quindi dalla sciatteria progettuale, ed evitando al tempo stesso di soccombere a interessi economici poco trasparenti. Non abbiamo nessuna ragione di subire la novità tecnologica, e non abbiamo nessuna ragione di rifiutarla a priori; possiamo sempre negoziare (chiedere ai nostri interlocutori di consultare mail e chat solo alla fine della riunione, per favore). La tecnologia va studiata e va affrontata con pragmatismo e creatività, come fanno gli hacker, nel senso buono della parola. Ho cercato di mostrare che non c’è una soluzione, un comportamento o un prodotto “killer”. Questo perché non c’è un solo problema (“il problema delle nuove tecnologie a scuola”) e bisogna mantenere un atteggiamento aperto e pragmatico. Ho speso alcune pagine per mostrare gli intrecci ormai noti, ma mai sufficientemente spiegati, tra l’uso della tecnologia e le logiche di potere grandi e piccole che stanno dietro anche agli usi più semplici, come una richiesta inviata a Google, e indicato alcune strategie di autodifesa (le ricerche che perturbano i sistemi di raccomandazione, l’uso del caso). Spiegare questo intreccio dovrebbe essere uno dei compiti della scuola se deve formare dei cittadini tecnologicamente consapevoli.
Ho sostenuto che la scuola e gli insegnanti – che ne sono la linfa vitale – non hanno ragione di farsi intimidire dalla normatività automatica che le tecnologie impongono, e tanto meno dal discorso populista che richiede di giustificare l’istruzione e in particolare la colonizzazione tecnologica dell’istruzione ventilando i benefici che se ne potrebbero trarre in termini economici o occupazionali. La missione della scuola, fino a prova contraria, non è di rincorrere la novità; è di istruire. Istruire significa anche dare la possibilità di sapere che esiste e che vale la pena di conoscere da vicino un teorema di logica, La cognizione del dolore, o l’Offerta musicale. Non perché questo serva necessariamente a qualcosa. Ma perché è parte di quello che gli esseri umani hanno saputo fare di meglio, ed è un peccato non saperlo. La scuola, in una società che lascia poco spazio a ciò che non è immediatamente utile, ha qui un valore esemplare: mostra che è possibile passare del tempo a fare cose belle e senza ricadute economiche.
Ho cercato di sfatare il mito del “maestro elettronico”, un gadget o un’app che idealmente si sostituirebbero all’insegnante, e di opporvi l’idea di una tecnologia dal volto umano che allarghi gli orizzonti dell’insegnante. Ho difeso l’idea che la scuola debba in certa misura resistere alle tecnologie distraenti proprio perché ha già un vantaggio immenso su di esse – il fatto di essere uno spazio protetto, in cui lo zapping è vietato per definizione; il che le permetterebbe di non rincorrere il cambiamento tecnologico e, allo stesso tempo, di incubare, paradossalmente grazie alle sue immense inerzie, il vero cambiamento, o meglio lo sviluppo morale e intellettuale dellepersone.
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