lunedì 13 maggio 2013

La rivoluzione di Georgia O’Keeffe: dipingere l’universo in un fiore


Melania Mazzucco

"La Repubblica",  12 maggio 2013

Nei musei del mondo ci sono intere stanze tappezzate di quadri di fiori. Le evitavo, annoiata dalla monotonia di opere che mi parevano tutte uguali: vaso poggiato su ripiano, con sfondo neutro. La maestria degli autori — per lo più olandesi e fiamminghi — consiste nel raffigurare i fiori come se fossero veri e gli mancasse solo il profumo. Coi petali vizzi o molli di rugiada, gli steli verde smeraldo o giallognoli e imputriditi, perfino con le mosche e gli insetti che ci ronzano sopra.
Ma la mia avversione per i quadri di fiori era anche un’avversione di genere (nel senso di gender). Per secoli i pregiudizi accademici hanno relegato la pittura di fiori al gradino più basso della gerarchia. Al primo posto c’era la figura umana (il quadro storico, religioso, mitologico). All’ultimo, la figura inanimata (la natura morta). Come pittura di genere, e di genere minore, le artiste donne avevano finito per specializzarsi proprio in quella, divenendo maestre del virtuosismo illusionista, come Rachel Ruysch, o dell’eleganza decorativa, come Margherita Caffi. Ma io respingevo l’associazione della pittrice con la produzione floreale, che implicava la svalutazione del suo talento. Sul finire dell’Ottocento, l’arte moderna ha capovolto la gerarchia, vedendo proprio in un genere così formalizzato il campo ideale per la sperimentazione pura: basti pensare alle
Ninfee di Monet e ai Girasoli di Van Gogh. Ma non mi sono riconciliata coi fiori dipinti dalle donne finché non ho scoperto questo scioccante capolavoro.
C’è un’umida macchia scura coronata da sinuose labbra viola, grigie e rosate. I colori, intensi e accostati arditamente, non servono a creare volume o a dare luce: sono colori assoluti. La forma illude: chiunque guardi crede di riconoscere nella sinuosa fessura, che si schiude trionfante e sensuale, un sesso femminile. Non rappresentato con la crudezza anatomica dell’Origine del mondo di Courbet: con una capacità poetica di astrazione quasi giapponese. Ma il titolo non consente equivoci. Il quadro raffigura un Iris nero.
Eppure la pittrice che l’ha dipinto rifiuta con radicalità la zavorra della tradizione e il suo trito simbolismo: sovvertendo ogni rapporto di scala e dimensione, reinventa il proprio soggetto. Quando prendi un fiore in mano e lo guardi — ha osservato una volta — è il tuo mondo in quel momento. Voglio dare quel mondo a qualcun altro. Così l’iris nero è un fiore-mondo. Visto in tutti i suoi dettagli botanici come attraverso la lente di un microscopio, o fotografato con un potentissimo zoom. Il quadro è infatti enorme. L’oggetto che rappresenta è ingrandito più di quaranta volte. Questa macro-pittura finisce per trasformarlo in una figura astratta, una sinfonia armoniosa di colore e linea, dipinta a olio con una sbalorditiva sicurezza. Le pennellate restano invisibili, come se il quadro si fosse dipinto da sé.
Invece Georgia O’Keeffe aveva impiegato venticinque anni per impadronirsi di una simile tecnica. Fra i pittori non si trova spesso un Rimbaud: la pittura ha rari geni precoci. Per quasi tutti è un lento, caparbio, faticoso apprendistato alla ricerca di se stessi. Il primo fiore dal vero, un arisaro, Georgia l’aveva disegnato nel 1901, in un collegio di Madison. Dopo una formazione accademica tradizionale, in scuole d’arte di vario livello, si era impiegata come illustratrice di pubblicità e poi come insegnante in provincia: sarebbe forse rimasta l’ennesimo talento femminile inespresso se non avesse incontrato
interlocutori aggiornati capaci di stimolare la sua ricerca. Così, a quasi trent’anni aveva ricominciato daccapo, ripartendo da un foglio di carta e da un carboncino. Tesaurizzando ogni nozione che aveva appreso e insieme dimenticando tutto, per creare una pittura originale, che fosse davvero espressione della sua personalità.
Iris Nero lo dipinse nel 1926, intorno ai suoi trentanove anni, al culmine della sua maturità di donna e di artista, al tempo della sua consacrazione professionale e del suo matrimonio. Quando i fiori giganti furono esposti per la prima volta a New York, i visitatori ritennero che i petali morbidi dischiusi attorno a un alvo oscuro evocassero una vulva, e che ognuno di quei fiori carnosi ed erotici fosse un intimo — imbarazzante e insieme provocatorio — autoritratto dell’artista. Il suo mentore (e marito), Alfred Stieglitz, aveva contribuito a creare la fuorviante identificazione dichiarando che Georgia si era aperta «come un fiore». I fiori giganti attirarono una folla di visitatori turbati e affascinati, perfino di pazienti nevrotiche mandate alla galleria d’arte dagli psichiatri che le avevano in cura per liberarle delle loro inibizioni. Offesa, O’Keeffe rifiutò qualunque interpretazione sessuale o psicanalitica della sua opera. Voleva che essa fosse valutata per le sue qualità pittoriche. Cioè per il disegno, la composizione, l’armonia della forma, l’uso rivoluzionario del colore. Quando dipingeva astrazioni, rappresentava le immagini della sua mente; quando dipingeva mele rosse, iris, petunie viola, calle, papaveri, tulipani, orchidee, camelie, fiori di cactus o di banano dipingeva non tanto l’oggetto in sé quanto l’esperienza di esso, dunque l’emozione che le trasmetteva. Riempire lo spazio in modo che la bellezza si mani-festi: questa — diceva — è l’arte.
Iris nero e i fiori giganti riscossero un successo travolgente, furono venduti a prezzi altissimi, e diedero finalmente a O’Keeffe la possibilità di vivere della sua pittura. Eppure poco dopo — e per molto tempo — smise di dipingere fiori. Negli anni Cinquanta giunse a dire di odiarli, e di averli dipinti solo perché costavano meno di una modella, e avevano il pregio di non muoversi. Abbandonò i colori per il bianco. Si dedicò a ossa di animali, scheletri, bucrani e pelvi raccolti pazientemente nel deserto del New Mexico, dove si era trasferita, e intorno ai settant’anni alle nuvole, che la sedussero quando prese l’aereo per la prima volta. Anche lei dovette rifiutare l’equazione di genere per essere considerata, come credeva di meritare, non la migliore delle pittrici, ma uno dei migliori pittori americani.
Georgia O’Keeffe,  Black Iris (1926), New York Metropolitan Museum

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