L’immigrazione rende inadeguata la logica dell’aut-aut: la sfida piuttosto è nell’et-et
Umberto Curi
"Corriere - La Lettura", 26 maggio 2013
«Bisogna partire dal mescolarsi, dal conoscere l'altro perché credo si debba arrivare a una nuova coesione sociale, a una convivenza che rafforzi la cittadinanza intera». Così Cécile Kyenge, ministro dell'Integrazione sociale, ha commentato gli episodi di razzismo che hanno coinvolto Mario Balotelli. L'approccio suggerito dal ministro ha il merito di tagliar corto con le polemiche di basso profilo, riportando la discussione sul piano di un'analisi non appiattita sulla contingenza. E offrendo, sia pure indirettamente, la possibilità di una riflessione più approfondita sulla figura dello straniero. A cominciare dai termini impiegati per descriverla.
L'uso dell'espressione «straniero» implica una caratterizzazione esclusivamente negativa, poiché allude a ciò che gli individui così designati non sono (originari del nostro Paese) o a ciò che non hanno (la nostra lingua, la nostra cultura, la nostra religione). Il termine si limita a registrare la loro «esternità» priva di ogni altro connotato, salvo la stranezza, che conferisce una particolare tonalità alla parola sia in italiano sia in francese (étranger) e in inglese (stranger). All'esteriorità s'aggiunge così la difformità da ciò che è consueto, e che perciò suscita perplessità e sconcerto. In molti casi, dunque, è «estraneo» o «straniero» quello che è anche percepito come «strano».
Il primo effetto è l'oscuramento di ogni differenza tra le molteplici identità linguistiche, culturali e religiose di cui è costituita l'umanità che viene «da fuori». Ciò che dell'«altro» il termine «straniero» ritiene pertinente è semplicemente la sua non-appartenenza, rispetto alla quale ogni ulteriore nota distintiva appare irrilevante o del tutto secondaria. L'anonimato in cui l'appellativo di stranieri rigetta la varietà dei gruppi umani si riflette sulla natura della relazione che diventa possibile entro tale orizzonte di senso, rendendola massimamente indifferenziata e impersonale. L'atteggiamento dominante tende a rimuovere il dato fra tutti più importante, vale a dire che lo straniero è ambivalente, è l'ambivalenza. È inevitabile vivere la sua presenza, il suo arrivo, come una minaccia. Ma è altrettanto inevitabile avvertire, nel cuore stesso del páthos che è inseparabile dal contatto con lui, che quella pur ineliminabile minaccia è per me feconda, mi conferisce qualcosa che, pur inconsapevolmente, attendevo da tempo, e di cui non potrei fare a meno. Posso respingerlo, certamente. Ma contestualmente, se mi accingo a questo, percepisco anche un mio profondo e irrimediabile depauperamento. Alla sua duplicità dovrei saper rispondere con altrettanta duplicità. Dovrei riuscire a temerlo e a desiderarne l'arrivo, a spalancargli le porte della casa, e insieme a tenerlo fuori da essa, a respingerlo con fermezza, e contemporaneamente ad accoglierlo come se fosse una benedizione.
Ad inquietarmi nel profondo è la consapevolezza dell'insuperabilità dell'ambivalenza, il fatto che essa non dipenda da un «equivoco» provvisorio e comunque «rimediabile». Sempre, in quanto straniero, egli mi apparirà irriducibilmente doppio. Sempre minaccia e dono, non l'una cosa o l'altra. Anzi: l'una cosa proprio in quanto è l'altra.
Di qui la difficoltà estrema in cui questa «visita» mi pone. L'alternativa paralizzante di fronte alla quale mi situa. Rinunciare al dono per allontanare la minaccia, o affrontare il pericolo per acquisire il dono? Un punto resta comunque assodato: di fronte allo straniero, cede ogni possibile linguaggio dell'unicità. Più ancora: di fronte a lui, la rassicurante e familiare logica dell'aut aut deve essere soppiantata da una modalità di ragionamento basata sul ben più impegnativo et et.
Ciò perché l'hostis — originariamente, insieme ospite e nemico — non è mai espressione di una dissomiglianza talmente radicale da poter essere considerata del tutto indipendente dalla nostra identità. Al contrario, egli è piuttosto l'altro termine di un binomio dal quale non posso prescindere. Nessuna compiuta identità può essere de-finita, nel senso preciso di ciò che possiede chiari confini, senza un nesso vitale con ciò che, essendo altro e diverso, concorre in maniera decisiva a stabilirla. Come ha rilevato Jacques Derrida, dell'hostis non possiamo fare a meno: non possiamo «scegliere» se accoglierlo o respingerlo, non più di quanto possiamo scegliere di essere quello che siamo. Egli è legato alla nostra identità non solo in quanto la determina positivamente, ma anche in quanto la minaccia dall'interno.
La figura stessa dello straniero esige la riformulazione dell'apparato concettuale che è alla base della nostra quotidianità. Egli è dunque «extra-ordinario» (extraordinaire étranger, lo chiama Baudelaire), perché con la sua sola presenza mette in discussione gli ingredienti fondamentali della mia vita «ordinaria». E tuttavia la piena consapevolezza del carattere maxime periculosum dell'incontro con lui non può cancellare l'inderogabilità del rapporto, in una certa misura lo rende anzi ancora più necessario. Nella minaccia in lui incarnata è immanente una promessa alla quale non posso sottrarmi.
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