lunedì 13 maggio 2013

La lingua originaria


Gli idiomi euroasiatici nascono da un unico codice
La scoperta viene da uno studio britannico: gli scienziati hanno preso in esame sette «famiglie» linguistiche e trovato un gruppo di parole che hanno gli stessi suoni

Cristiana Pulcinelli

"l’Unità", 12 maggio 2013

«TUTTA LA TERRA AVEVA UNA SOLA LINGUA E LE STESSE PAROLE», COSÌ COMINCIA IL BRANO DELLA GENESI CHE RACCONTA LA STORIA DELLA COSTRUZIONE DELLA TORRE DI BABELE. Il seguito è noto: gli uomini decisero di costruire una torre alta fino al cielo per arrivare a Dio e non disperdersi sulla Terra, ma Dio li vide e pensò di confondere la loro lingua, in modo che non si capissero più tra loro e quindi che non riuscissero a portare a termine il loro ambizioso progetto. Così fu. La torre fu abbandonata e gli uomini si dispersero sulla Terra, parlando tante lingue diverse tra loro.
Il racconto è la spiegazione mitologica del perché noi esseri umani, pur appartenendo tutti alla stessa razza, non ci capiamo. Sotto la leggenda dell’origine delle differenze linguistiche, però, potrebbe esserci qualcosa di vero. In particolare, sembra che circa 15.000 anni fa gli uomini avessero davvero una sola lingua. Per dirla in modo più scientifico: le lingue che oggi vengono parlate da miliardi di persone in Europa e in Asia discenderebbero tutte da un’unica lingua.
La scoperta viene da un’analisi condotta da un gruppo di ricercatori guidati da Mark Pagel dell’università di Reading nel Regno Unito ed è stata pubblicata sulla rivista Proceedings of the national Academy of Sciences.
Gli scienziati hanno preso in esame sette famiglie di lingue dell’Eurasia: altaiche (tipiche dell’Asia centrale e orientale), ciukotko-kamciatke (dell'estremo est della Russia), dravidiche (parlate in India meridionale, Sri-Lanka, Pakistan e Nepal), eschimesi, indoeuropee (la quarta famiglia al mondo per dimensioni che comprende 430 lingue vive, tra cui molte di quelle parlate in Europa), kartvediche (o caucasiche meridionali) e uraliche. In breve, le lingue parlate in un’area che va dal Portogallo alla Siberia e dall’India alla Svezia. Quello che hanno visto è che tutte derivano da una lingua ancestrale usata da gruppi di persone che probabilmente vivevano nell’Europa meridionale alla fine dell’ultima era glaciale.
Per i linguisti non è un’idea nuova: da anni si discute di una possibile superfamiglia di lingue euroasiatiche. Ma la dimostrazione di questa ipotesi non è semplice. Il problema principale è che le parole evolvono troppo rapidamente per preservare i tratti dei loro antenati. La maggior parte delle parole ha il 50% di possibilità di venir rimpiazzata da un altro termine che non ha nessuna relazione con la parola originaria) ogni 2000-4000 anni. Tuttavia, alcune parole hanno una vita più lunga. In uno studio di qualche anno fa, la stessa équipe guidata da Pagel aveva dimostrato che alcune parole possono sopravvivere, come suoni che rimangono associati allo stesso significato, per oltre 10.000 anni prima di venir rimpiazzate. Pensiamo alla parola fratello, in inglese è brother, in francese frère, in latino è frater e in sanscrito bhratr. Come si vede sono collegate fra loro nonostante le distanze temporali. Tra le parole che cambiano di meno ci sono i pronomi usati più di frequente, i numeri e alcuni avverbi.
Nel nuovo studio, i ricercatori hanno individuato un elenco di 23 parole ritrovate in almeno quattro delle sette famiglie di lingue analizzate. La maggior parte delle parole sono quelle più usate, come i pronomi io o tu o nomi come madre, ma ci sono anche sorprese come ad esempio il verbo sputare, to spit in inglese, che si ritrova con le dovute differenze in molte lingue moderne, o la parola verme, in inglese worm, e l’inglese bark che in italiano si può tradurre con corteccia ma anche con barca, un legame stabilito probabilmente dal fatto che le prime barche venivano fatte proprio con la corteccia. «La corteccia era davvero importante per i popoli primitivi ha spiegato Pagel al quotidiano inglese The Guardian -, la usavano per isolare, per accendere il fuoco e ne ricavavano fibre. Ma non mi aspettavo di trovare nella lista il verbo sputare. Non ho idea del perché sia lì».
La ricerca conferma anche un dato che era emerso già precedentemente: il rapporto tra frequenza di uso attuale e probabilità di conservazione nel tempo. Le parole che, nell’uso quotidiano, si presentano con una frequenza superiore a una su 1000 hanno una probabilità da 7 a 10 volte maggiore rispetto alle altre di avere un’antica antenata. Come si spiega questo fenomeno? Gli studiosi pensano a due possibili risposte: nel caso delle parole più frequenti, nuove forme fonologiche possono emergere più raramente perché gli errori di percezione o di memoria o di produzione del suono sono meno comuni. Oppure, la mutazioni avvengono tutte con la stessa frequenza, ma il maggiore uso di una parola fa abbassare la probabilità che le nuove varianti vengano adottate dalla popolazione. Alla base di tutte e due queste spiegazioni c’è comunque l’ipotesi della «mano invisibile», applicata da Adam Smith all’economia: nessuno di noi inventa nuove parole o forme grammaticali, ma l’uso che facciamo della lingua (errori di pronuncia o slittamenti di significato) influenza la trasmissione della lingua stessa. Insomma, siamo noi individui a fare la lingua del futuro.

Nessun commento:

Posta un commento