Così Odisseo tornato a Itaca scoprì la saggezza e la pietà
Un libro di Matteo Nucci, mescolando scrittura saggistica e narrativa,
racconta la civiltà greca. Da Pericle a Omero
Al centro della ricostruzione
l’atto del piangere e la trasformazione vissuta da Ulisse al rientro in patria
Eugenio Scalfari
"La Repubblica", 23 maggio 2013
Ci sono molti modi di scrivere un romanzo e anche molti modi di scrivere un saggio. Matteo Nucci sta a cavallo tra i due generi letterari, ripassa e reinterpreta la storia della civiltà ellenica scegliendo, prima ancora delle idee dalle quali è intrisa, i personaggi, i luoghi, le strade, gli alberi, gli animali; ma non soltanto quelli che esistevano o si pensa che esistessero tremila anni fa, ma quelli di oggi da lui rivisitati e dai quali il libro comincia.
Infatti è l’autore che, dopo aver visitato l’Acropoli e il Ceramico racconta di Pericle. Il principe degli ateniesi, quello che per trent’anni aveva custodito la democrazia confiscandola nelle proprie mani, quello che aveva creato un impero navale che si estendeva su tutto il Mediterraneo, era alla fine inciampato su Sparta, alleata prima e nemica mortale poi. Il disastro aveva colpito Atene e da ultimo la peste si era abbattuta sulla città seminando ovunque la morte nera.
«Sulla Porta Sacra e sul Dipylon il cielo era terso. Tutti gli occhi della folla assiepata erano puntati sull’uomo che avanzava a piccoli passi portando una corona sulle braccia, il volto scolpito in linee regolari, quasi fosse pronto a servire da modello per le innumerevoli statue che lo avrebbero ritratto in una posa immortale... Lo guardavano quasi senza respirare, in un silenzio assoluto, mentre avanzava verso l’ultimo dei suoi caduti, Paralo, l’ultima manciata di metri con lentezza, poi, arrivato dinanzi al corpo, si fermò. La peste gli aveva portato via la sorella, il primo figlio Santippo, i migliori amici e molti parenti, ma lui non aveva mai ceduto. La famosa fierezza, la forza d’animo che era il suo vanto. Atene aveva sempre ammirato quella specie di eroe... Depose la corona, strinse i pugni sulle tempie, chiusi gli occhi. Fece per rialzarsi ma non ci riuscì. Poi si sentì un sibilo che si trasformò in una specie di muggito mentre il corpo di Pericle cadeva sul corpo di Paralo. Un urlo devastò la quiete del Ceramico e Pericle per la prima volta pianse».
Morì poco dopo. Era il 429 a.C. e da quel giorno la storia di Atene e della Grecia cambiò, ma la sua cultura, la sua scienza, la sua filosofia, crebbero e diventarono nei secoli che seguirono il lascito di tutta la storia dell’Occidente e del mondo.
Ma perché il libro ha inizio in questo modo, con Pericle colto alla fine dei suoi giorni e Atene prostrata dalla guerra perduta e da una mortale epidemia? Perché Pericle piange sul corpo del figlio e sulle sorti della città e il libro si intitola Le lacrime degli eroi ed è attraverso le lacrime che l’autore racconta la storia dell’Ellade, dei suoi eroi, dei miti, delle filosofie, delle guerre, dei poemi, delle tragedie, degli amori, dei lutti, dei misteri.
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Dopo il pianto di Pericle che funge da introduzione, il primo personaggio di questa storiaromanzo è Platone, lo scrittore-filosofo della Repubblica, del Simposio e del Fedro. Nucci se ne serve per parlare dell’amore-odio che lega Platone ad Omero, ma in realtà è il cantore cieco degli eroi che viene messo al centro della narrazione e attraverso i suoi poemi, le figure di Odisseo e di Achille con il loro contorno di compagni di guerra, di ninfe, di dei, di mostri e di destino. E naturalmente con le loro lacrime.
Nella gara del pianto i due rivaleggiano, ma Achille ha largamente la meglio sul figlio di Laerte anche perché è profondamente diversa la struttura dei due poemi epici. L’Iliade racconta pochissimi fatti: il duello tra Patroclo ed Ettore, il duello tra Ettore e Achille, l’assalto dei Teucri al campo degli Achei, la visita di Priamo al Pelide. Tutto il resto dei ventiquattro libri non è un racconto ma l’analisi dei sentimenti che animano i personaggi e soprattutto il protagonista del poema e il suo pianto, suscitato dalla sua ira, dal suo lutto, dai suoi sogni, dai suoi presagi, dalla sua impotenza di fronte alla morte e dal suo amore per il corpo dell’amico che ormai è soltanto una spoglia.
L’Odissea ha tutt’altro andamento, il vero romanzo è quello ed è un tipico romanzo d’avventura, il primo e sicuramente il più bello che sia mai stato scritto. Anche il montaggio anticipa a tremila anni di distanza il linguaggio cinematografico del “flashback”: dopo l’episodio di Polifemo, Odisseo smarrisce la rotta ed entra in un mare con correnti sconosciute e sotto un cielo dove le stelle sono ignote al navigante. È il dio del mare, Poseidon, ad averlo trascinato fuori dal mondo nel misterioso oceano che circonda le terre emerse ed è popolato da misteriose presenze: Circe la maga, la bocca degli Inferi, Calipso la bella e l’isola di Ogigia, Nausicaa la vergine e l’isola dei Feaci, anch’essa fuori dal tempo e dallo spazio.
Quella sarà l’ultima tappa, prima di tornare finalmente ad Itaca, nel mondo della realtà. Ma è proprio lì, nel palazzo di Alcinoo, che il “flashback” si verifica: uno degli aedi canta ciò che avvenne sotto le mura di Troia e la parte che in quella guerra impietosa vi ebbe Odisseo e che cosa accadde dopo. L’eroe, di cui nessuno alla corte di Alcinoo conosceva ancora l’identità ed è onorato come ospite sacro, ascoltando quel canto si copre il volto col mantello e piange al ricordo, mentre il racconto procede incalzante, le gesta degli eroi e dei numi che combattono tra loro e insieme a loro, il Fato che domina gli eventi mentre le Parche tessono il filo della vita. Ma prima ancora che il viaggio di Odisseo sia narrato dall’aedo, Omero lo fa precedere dal viaggio del figlio Telemaco che per salvare se stesso e la madre Penelope dalla prepotenza dei Proci, attraversa il mare e sbarca nelle terre di Pilo, di Argo e di Micene in cerca dei compagni del padre, affinché gli diano notizie di lui, se sanno dove si trova e perché non ritorna a casa, ultimo errabondo da dieci anni, dopo i dieci della guerra contro Ilio.
Quattro libri dedica Omero al viaggio di Telemaco e il racconto è pieno di personaggi ed avvenimenti. Nestore informa il giovane della drammatica morte di Agamennone per mano di Egisto e della moglie Clitemnestra. Menelao ed Elena lo ospitano come fosse un giovane principe e Menelao gli racconta le sue imprese a Troia e il suo movimentato viaggio di ritorno.
Mentre i mortali e gli dei che incontrano sulla terra vivono le loro avventure, sulle vette dell’Olimpo gli stessi dei si riuniscono e prendono le loro decisioni in obbedienza ai voleri del Fato, Atena si impone a Poseidon, Zeus comanda ad Ermes di trasmettere i suoi voleri, la favola degli immortali si intreccia con quella dei mortali arricchendo il romanzo; l’epica trascolora in una splendida fiaba nel corso della quale avviene un fatto strano: cambia il carattere del protagonista ed anche quello del figlio Telemaco. Quest’ultimo da adolescente diventa uomo e il suo mutamento è un fatto di natura, ma diverso è il caso di Odisseo: era maestro di inganni quando combatteva sotto le mura di Troia, furbo quanto nessuno, suadente per ingannare o convincere; è lui che guida le decisioni di Agamennone, è lui che ricostruisce un rapporto tra il re di Argo e Achille ed infine sarà lui a immaginare il cavallo, la trappola mortale per Ilio e la sua gente. Ma l’uomo che torna a Itaca è diverso da quello che vent’anni prima ne era partito. La capacità di ingannare e mentire non l’ha perduta, anzi è ancor più vigile, ma ad essa si è aggiunta un’esperienza e una saggezza che prima non aveva ed è l’incontro con Atena che ne fa il primo eroe della modernità, non a caso cantato da Dante come maestro di anime. Ricordate? «Fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza».
Ho la sensazione che il bravissimo Nucci non colga quest’aspetto, il mutamento del personaggio suscitato dalla sua insaziabile curiosità. Del resto è lui stesso ad annunciare a Penelope, quando finalmente si ricongiunge con lei nel letto nuziale che aveva costruito sulla base d’un ulivo secolare, che dovrà ripartire per trovare la gente «che non conosce il sale» e soltanto dopo quell’ultimo viaggio tornerà per sempre ad Itaca.
Credo che Nucci non veda il mutamento perché il ritorno a Itaca è dominato dalle menzogne che Odisseo è costretto a dire per non farsi riconoscere e ci riesce perfettamente con l’aiuto di Atena, salvo che con la vecchia nutrice e il vecchio cane Argo. Menzogne e infine strage, non solo dei Proci ma dei servi e delle ancelle che ad essi si erano venduti. Strage e menzogne: dove è dunque la differenza dal maestro di inganni e di strage quando combatteva a Troia della cui guerra è lui e non Achille il vero vincitore?
Capisco l’obiezione, ma la differenza c’è ed appare chiaramente nel colloquio che ha con Penelope nella lunga notte di racconti e d’amore e poi, nei giorni successivi, quando si rappacifica con i parenti delle vittime della strage, riconquista l’amore di tutto il popolo dell’isola e lascia al figlio il governo della comunità. Odisseo ha scoperto la pietà, un sentimento che prima del viaggio di ritorno gli era del tutto ignoto. La strage dei Proci fa parte della natura umana nella quale la vendetta per un torto subìto è un sentimento ineliminabile. Del resto Odisseo aveva acquisito una quantità di crediti verso gli dei e verso il Fato perché per dieci anni era stato un fuscello e un trastullo nelle mani d’un ignoto destino. L’ultimo sopruso era stato quello dei Proci ai quali aveva offerto di lasciare il suo palazzo ed andarsene. Ciò che accade subito dopo è la natura offesa a reclamarlo e dura fin quando Atena ne impone la fine. Quanto al suo pianto, l’autore del libro lo attribuisce alla nostalgia. Gli altri pianti degli altri eroi sono dovuti all’ira, al dolore, all’amore. La nostalgia è sentimento delicatissimo, viene da Memosine, la dea che governa i ricordi, madre delle nove Muse.
Basterebbe questo a rivelarci che la natura di Odisseo non è più e soltanto quella dell’eroe ma quella dell’uomo ed è questa la novità che l’Omero dell’Odissea ci ha consegnato.
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Tralascio di raccontare il resto del libro che raccomando ai lettori di seguire fino in fondo anche se – a mio avviso – il vero nucleo di questo viaggio si conclude a pagina 174. Ciò che viene dopo è un saggio acuto e sapiente, ma non più il romanzo che fin lì si è svolto. Voglio qui trascrivere le parole con cui Nucci si accomiata dai suoi lettori e che rappresentano in poche righe il compendio dell’opera: «Nell’Ade non c’è ombra. Nessuno può tornare tra i vivi. E il mondo è invece quello dei vivi perché soltanto lì c’è la vita: sofferenze, patimenti, piccole gioie, felicità, lacrime di nostalgia e di rabbia. E la morte. Altre prospettive per Omero non esistono. C’è soltanto Niobe e il suo melograno, un melograno che non cresce all’ombra ma sotto il sole».
Grazie, caro Nucci, per questa appassionante lettura.
Le lacrime degli eroi, di Matteo Nucci Einaudi pagg. 216
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